El Chapo, il narcotrafficante icona (pop) del male a processo

Joaquin Guzman deve rispondere di 17 capi d'accusa davanti a una corte statunitense. Ecco perché la sua figura è diventata leggendaria fino a ispirare una serie tv

In Italia, il nome di Joaquin Guzman è stato relativamente sconosciuto fino al 2015.Per la precisione, fino alla notte tra l’11 e il 12 luglio 2015; quando il capo indiscusso del cartello messicano di Sinaloa ha messo a segno una spettacolare evasione dal carcere di massima sicurezza in cui era rinchiuso dal febbraio 2014.Una fuga condotta sfruttando un tunnel scavato da suoi uomini – con la probabile complicità di alcune guardie – sotto l’area doccia della sua cella; nella prigione messicana di Altiplano.

La fuga è stata ripresa in diretta dalle telecamere della prigione e ha immediatamente fatto il giro del mondo, consolidando la fama di Guzman come degno erede del narcotrafficante per definizione: Pablo Escobar. La carriera del 61enne El Chapo – Il Tappo, soprannome che sottolinea la sua statura (1,67 cm) – comincia però negli anni ‘70, quando inizia a lavorare per Héctor Palma, padrino del cartello di Guadalajara, per cui si occupa di supervisionare il trasporto di droga dalla regione di Sierra Madre fino alle zone vicine al confine tra Messico e Stati Uniti.

Noto fin dall’inizio per la sua violenza (pare che uccidesse qualunque corriere non consegnasse la merce in orario) e per la capacità di intimorire – e quindi mantenere fedeli – tutti coloro che lavoravano per lui, El Chapo fa carriera nel giro di pochi anni: nei primi anni ‘80 viene infatti presentato a Félix Gallardo, uno dei padroni del traffico di droga dell’epoca, per il quale lavora prima come autista e poi come responsabile della logistica.

È l’inizio di una carriera fulminante, che lo porterà a guidare una delle più importanti organizzazioni criminali messicane – il cartello di Sinaloa – dalla sua roccaforte situata proprio in quella regione montuosa e poi, in seguito al primo arresto del 1993, direttamente dalla prigione in cui è stato rinchiuso fino al 2001; quando mise a segno la sua prima evasione e continuò a comandare quell’impresa miliardaria (si stima che il patrimonio netto del solo Guzman sia di circa 14 miliardi di dollari) durante una latitanza durata 13 anni.

La seconda cattura avviene nel 2014: El Chapo, viene arrestato a Mazatlan, città di mare dello stato di Sinaloa che si affaccia direttamente sul golfo della California. A dare un contributo decisivo è Andrew Hogan, agente della DEA (l’antidroga statunitense) che ha raccontato la sua caccia decennale nel libro Hunting El Chapo (uscito in Italia con il titolo Caccia a El Chapo). Da un certo punto di vista, Guzman è la balena bianca di Hogan: il suo personale Moby Dick da catturare a ogni costo. Una narrazione che però il poliziotto rifiuta: “Non si sono mai sentito legato a lui e a nessun altro dei miei obiettivi. Avrebbe potuto essere chiunque. Era la caccia a motivarmi, la sfida di riuscire a prendere questo tizio. Non mi interessava per forza chi fosse El Chapo come persona o la leggenda che veniva costruita attorno a lui”.

Lo stesso, però, non si può dire per Hollywood: da Sicario di Denis Villeneuve, passando per Narcos di Netflix (e anche, per certi aspetti, Breaking Bad), fino ad arrivare ai documentari che narrano nel dettaglio le gesta di El Chapo, negli ultimi anni si sono moltiplicati i film, documentari e serie tv ispirati alla vita di Guzman, Escobar e gli altri padroni del traffico di droga messicano.

Una fascinazione hollywoodiana che ha in parte sostituito quella che per decenni ha visto protagonisti i vari Al Capone, Lucky Luciano, John Gotti e gli altri padrini della mafia italo-americana; che – nonostante venga ancora oggi portata sul grande schermo – ha visto calare la presa sul pubblico in parallelo al declino nel mondo criminale. I narcotrafficanti messicani, con il loro esagerato stile di vita e la violenza tremenda di città come Juarez, sono diventati gli eredi ideali dei capi delle Cinque famiglie della Cosa Nostra statunitense.

El Chapo si presta perfettamente alla narrazione criminale hollywoodiana: nel corso degli anni, ha radicalmente trasformato il contrabbando di droga; utilizzando treni, aerei, camion e addirittura sommergibili e diventando anche il pioniere dell’utilizzo dei tunnel che passavano sotto il confine messicano per portare i carichi di eroina direttamente negli Stati Uniti. Non solo: Guzman è anche il responsabile della cosiddetta “epidemia di Fentanyl”; un analgesico circa 100 volte più potente della morfina con cui il cartello di Sinaloa tagliava l’eroina destinata al mercato USA. Si stima che nella metà degli anni 2000, il Fentanyl abbia causato la morte di oltre mille persone tra Illinois, New Jersey, Pennsylvania e altri stati.

El Chapo è stato l’indiscusso padrone del mercato della droga per oltre vent’anni. Il suo regno, però, sembra davvero giunto al termine. Il terzo arresto del gennaio 2016 – reso possibile dalle imprudenze commesse da Guzman, che stava realizzando un film autobiografico sulla sua vita – ha infatti portato a quanto di più temuto dai narcotrafficanti messicani: l’estradizione negli Stati Uniti (resa possibile dal fatto che la loro droga finisce in larga parte proprio sul mercato USA).

Ed è proprio negli Stati Uniti, in un tribunale di Brooklyn, che è iniziato ufficialmente il processo all’ormai ex capo del cartello di Sinaloa. Un processo durante il quale Guzman dovrà fronteggiare 17 capi d’accusa: legati al traffico di droga, riciclaggio di denaro, omicidio, tentato omicidio e altro ancora. Per la difesa, El Chapo ha assoldato quello che viene definito un dream team di avvocati esperti di narcotraffico, di cui fanno parte anche Angel Eduardo Balarezo (cittadino USA di origine ecuadoregna che ha già difeso l’ex socio, poi diventato rivale, di Guzman, Alfredo Beltran-Leyva) e Jeffrey Lichtman, noto per essere stato l’avvocato di John Gotti.

La strategia della difesa sembra essere quella di negare la raffigurazione di Guzman come dell’indiscusso signore della droga, nel tentativo di sminuirne il peso e le responsabilità e, quindi, riuscire a evitargli una condanna a vita che sembra quasi scontata. Impossibile escludere che El Chapo non stia pianificando una nuova fuga. Rinchiuso in un carcere di massima sorveglianza a Manhattan, a migliaia di chilometri dalla sua roccaforte e in isolamento per 23 ore al giorno, le possibilità che il capo del cartello di Sinaloa possa di nuovo mettere in scacco le polizie di tutto il mondo sembrano essere più ridotte che mai.