5 libri per capire la resistenza curda e il Rojava

Nella settimana dell'uccisione di Lorenzo Orsetti, il fiorentino che aveva sposato la causa delle Ypg, qualche titolo per approfondire il fascino esercitato dai curdi sull'immaginario internazionale

Soldatesse curde dell'Ypg (foto: Andia/UIG via Getty Images)

Andia

Lunedì 18 marzo in Siria l'Isis ha ucciso Lorenzo Orsetti, detto Orso, 33enne originario di Firenze, che da qualche tempo combatteva al fianco delle Ypg, le unità di difesa popolare curde nel Rojava, il Curdistan siriano. L'assassinio ha fatto molto scalpore – anche per il commovente messaggio d'addio lasciato da Orsetti – ma la tragedia è un punto di partenza per parlare di questo angolo di mondo, spesso dimenticato dai media mainstream e dall'opinione pubblica: come il giovane fiorentino, molti altri occidentali sono partiti per unirsi alle battaglie dei curdi. Il Rojava esercita un fascino importante, quasi romantico, per la sua struttura politica e sociale, gli ideali di emancipazione femminile e di democrazia, l'ambientalismo. La terra dei curdi in Siria è il primo tema indagato da una specie di rubrica a cadenza settimanale di Raffaele Alberto Ventura, che ci indica 5 cose da leggere per capire meglio di cosa stiamo parlando.

Rojava, una democrazia senza stato

Autori vari, Rojava una democrazia senza stato (Eleutheria)Che cosa spinge dei giovani militanti di sinistra a partire combattere in Siria per l’indipendenza del Rojava? Questo libro è un buon punto di partenza per capirlo. La resistenza dei curdi siriani contro la duplice oppressione degli stati nazionali, da una parte, e dello Stato islamico, dall’altra, sembra essere l'ultima resistenza perfetta secondo i nostri canoni occidentali moderni, quelli che un tempo si sarebbero detti liberali: un'utopia laica, egualitaria, femminista, che per giunta oppone a ogni tentazione centralizzatrice di matrice giacobina degli ideali anarco-libertari che ci aiutano a immaginare la possibilità di una democrazia senza stato.

L'antologia di testi pubblicata da Eleutheria – editore di riferimento nel campo delle utopie ragionevoli – presenta diversi punti di vista sull'esperienza del Rojava e sulla visione politica del leader Abdullah Öcalan, passato dal marxismo ortodosso al cosiddetto confederalismo democratico ispirato alla filosofia di Murray Bookchin. Tra gli autori del libro si segnalano Peter Lamborn Wilson (aka Hakim Bey) che forse ha finalmente trovato in Kurdistan la sua Zona Temporaneamente Autonoma nonché l'antropologo David Graeber, che altrove ha denunciato la piaga dei “mestieri del cazzo” (lui ha detto bullshit jobs) prodotti dalla burocrazia occidentale (anche questo un ottimo punto di partenza per spiegare che cosa può motivare un ragazzo italiano a imbracciare il fucile e farsi deflagrare in Medio Oriente).

La prossima rivoluzione

Murray Bookchin, La prossima rivoluzione. Dalle assemblee popolari alla democrazia diretta, Bfs Edizioni 2018.Se la resistenza curda ci seduce, forse è anche perché mostra limpidamente in che modo le idee – diciamolo più chiaramente: i libri di filosofia – possono ancora influenzare la realtà, spingendo donne e uomini a mettere in gioco la loro esistenza. Prendete Öcalan, fondatore nel 1977 del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), che in carcere nei primi anni Duemila scopre (non chiedetemi come) il municipalismo libertario di Murray Bookchin, uno dei fondatori dell’ecologia sociale. Per capire meglio come funziona questa teoria politica, un buon punto di partenza è questo libro, che raccoglie alcuni articoli dell’ultima produzione del filosofo statunitense, scomparso nel 2006.

In una fase storica come quella attuale, in cui le priorità ecologiche e quelle sociali sembrano essere entrate in un conflitto oggettivo, Bookchin ci invita a immaginare una sintesi: una politica per il ventunesimo secolo basata sul superamento dello stato in un’ottica alternativa a quella distruttiva dello sviluppismo socialdemocratico, a quella autoritaria del socialismo reale, a quella individualista dell’anarchismo e a quella divisiva del nazionalismo.

Dentro il cuore di Kobane

Vichi de Marchi, Dentro il cuore di Kobane, Piemme 2019Non capita spesso di leggere un libro per bambini che mette in scena due giovani ragazze che si arruolano in un gruppo paramilitare, con in copertina le eroine quindicenni in tuta mimetica come sulle copertine dei dischi dei Death in June. Ma la simpatia della causa curda ha reso accettabile anche questo: il romanzo di Vichi De Marchi, rivolto a ragazzi a partire dagli 11 anni, racconta l'assedio di Kobane che i più grandicelli conoscono già dalla lettura del reportage di Zerocalcare, Kobane Calling. La lotta di liberazione nazionale viene raccontata come reazione all'oppressione di una società patriarcale, quella islamica, come fuga da una “terra di Dio” uscita da un film di Rossellini o da un vecchio saggio di Edward C. Banfield sul familismo amorale. Come dire: ormai il privato è non solo politico, ma geopolitico.

Omaggio alla Catalogna

George Orwell, Omaggio alla Catalogna, Mondadori (2016)Prima di diventare l'incubo dell'occidente, quella del foreign fighter era una nobile tradizione: da Lord Byron che insegue in Grecia i suoi ideali, passando per Giuseppe Garibaldi in Uruguay ed Ernesto “Che” Guevara a Cuba, senza dimenticare gli ebrei europei ed orientali che mossi dall’ideale sionista si trasferirono in Palestina per realizzare in quella terra promessa (sfortunatamente promessa a fin troppi popoli) degli ideali laici, egualitari, socialisti, moderatamente femministi, non del tutto dissimili da quelli della resistenza curda. Parlando di foreign fighter con una certa capacità di scrittura, il più celebre è probabilmente George Orwell che nel 1937 raggiunge la guerra civile spagnola da “osservatore partecipante”. Proprio quest’esperienza, che racconterà nei dettagli un anno dopo in questo memoir, porterà il futuro autore di 1984 ad abbracciare una visione socialista libertaria.

Guerre giuste e ingiuste

Michael Walzer, Guerre giuste e ingiuste, Laterza (2009)Dopo esserci ripetuti per anni che non esistono guerre giuste, ora ci viene il sospetto che alcune siano più giuste di altre, magari persino un po’ sante. Ma allora — come direbbe Fantozzi — ci hanno sempre presi per il culo? Il filosofo americano Michael Walzer si era chiesto la stessa cosa e per rispondere ha dovuto scrivere un tomone di 400 pagine, diventato un classico della filosofia politica, che risale fino al pensiero medievale, esamina vari casi storici, e sviluppa la questione attorno a un’idea semplice: “Aggressione è il nome che si dà a quel crimine che è la guerra”.

Semplice ma un po’ soggettiva, visto che il difficile sta sempre nello stabilire quale sia il primo motore del conflitto. Mettiamola così: forse non bastano 400 pagine per distinguere oggettivamente cosa distingua una guerra giusta da una guerra giusta, ma di certo ci aiuta a capire che a scatenare la violenza è sempre un sentimento di ingiustizia.