L'uomo che sussurrava ai fascisti

Salvini diceva di poter contenere la xenofobia, ma dietro la maschera della provocazione oggi ispira gli estremisti. Un estratto da La guerra di tutti, in uscita il 9 maggio

(foto: KENZO TRIBOUILLARD/AFP/Getty Images)

KENZO TRIBOUILLARD

Il ministro dell'Interno, intervenendo a margine della nota polemica che ha investito il Salone del libro di Torino, ha detto – con uno spiccato fiuto da habitué della polemica politica – che lui alla manifestazione non ci sarà in quanto “antifascista”. Il 9 maggio esce La guerra di tutti (minimum fax), il saggio di Raffaele Alberto Ventura che parla di come la crisi delle categorie politiche tradizionali ha portato a nuove faglie di scontro sociale e una nuova ondata di violenza nel linguaggio. In questo estratto, si parla di come la retorica incandescente à la Salvini – che quest'ultimo sia fascista o antifascista – ha dato la stura, forse senza nemmeno volerlo, ai peggiori estremismi di quest'epoca.


La storia si ripete sempre due volte, la prima volta in tragedia e la seconda in Italia. Meno di un anno dopo l’attacco alle Torri Gemelle di New York, il pensionato Gino Fasulo si schiantava con un piccolo aereo contro il grattacielo Pirelli di Milano, facendo tre vittime: per poche ore i media di tutto il mondo pensarono a un emulatore di Al Qaeda, finché non venne appurato che si trattava di un incidente. Talvolta, tuttavia, l’ipotesi dell’emulazione appare più plausibile. Nel dicembre 2011 Gianluca Casseri, sostenitore e attivista del gruppo neofascista CasaPound, uccideva deliberatamente per strada due senegalesi – il pensiero andò subito alla strage compiuta in Norvegia cinque mesi prima da Anders Breivik in nome della lotta al multiculturalismo e al marxismo culturale. E sempre il modello di Breivik sembrava evocare la parabola di Luca Traini, ex candidato comunale della Lega Nord che un giorno di febbraio 2018, in piena campagna elettorale per le elezioni legislative, prese a sparare all’impazzata su un gruppo d’immigrati africani a Macerata, ferendone sei.

Nei giorni seguenti i responsabili politici si affrettarono a minimizzare i loro legami con quello che altri non era, beninteso, che un “pazzo isolato”. Curiosamente nessuna delle persone che lo avevano frequentato, che gli avevano stretto la mano, che lo avevano accolto nelle file del loro partito si era mai accorto di quanto Traini fosse “pazzo”: forse perché a forza d’iperboli, di paradossi e d’ironie il linguaggio di molti militanti leghisti normali era diventato del tutto indistinguibile da quello di uno che, contrariamente a loro, tiene una calibro .9 nel cruscotto della macchina ed è pronto a impugnarla per davvero. Forse perché quando si torce il linguaggio al punto di svuotarlo del suo senso, si finisce per creare dei mostri. Che dire, ad esempio, dei gruppi Facebook, degli striscioni e delle scritte sui muri che inneggiavano al suo gesto, che nessun rappresentante politico si è preso la briga di criticare?

Né la Lega né CasaPound sembravano interessati a riflettere sulle proprie responsabilità, anche indirette, o perlomeno sul fallimento dei loro sistemi di controllo e prevenzione della violenza. Al contrario quella violenza venne sventolata come un ricatto, una vera e propria prova di forza: guardate cos’è pronto a fare il nostro popolo se non risolviamo al più presto il problema dell’immigrazione.

Un anno dopo il nome di Traini, assieme a quello di Breivik, vengono citati dal terrorista Brenton Tarrant quali ispiratori del suo attacco a due moschee nella città di Christchurch, dove vengono uccise cinquanta persone. Quella che si disegna, poco a poco, da Utøya a Macerata fino a Christchurch, è una catena planetaria delle influenze in cui si mescolano atti criminali e atti irresponsabili, simboli di odio e parole avventate.

Lo scopo di Breivik, come d’altronde di ogni terrorista, era di allargare la zona grigia tra il rigetto e il consenso. E oggi questa zona, questo margine di mobilitazione non sta tra gli eredi del fascismo, ma tra i diligenti borghesi occidentali che vedono minacciati i valori liberali, i diritti umani, il progresso e il benessere acquisito. Come se la modernizzazione nel suo ultimo gesto prima del collasso avesse voluto indicare dei bersagli da annientare, le minoranze etniche-religiose.

Dal punto di vista di Breivik la strage non era altro che una operazione di marketing per promuovere il suo manifesto politico pubblicato online, il libro 2083 – A European Declaration of Independence. Breivik dedica un intero capitolo all’importanza del marketing, disciplina da lui studiata all’università, direttamente praticata ed evocata nel suo curriculum tra le competenze chiave. Il termine appare decine di volte nelle 1500 pagine del memoriale, ed è plausibile che il presunto “fondamentalista cristiano”, come lo definirono i media all’epoca, abbia maggiore familiarità con le cinque forze di Porter piuttosto che con le tre virtù teologali. Molto pragmatico, Breivik afferma: “Un Cavaliere Giustiziere non è soltanto un valoroso combattente della resistenza, un esercito composto da un solo uomo (one man army); è anche un’agenzia di marketing composta da un solo uomo (one man marketing agency)”. E poi via di consigli pratici sul modo corretto di comunicare, tra i quali spicca l’invito a farsi le lampade per apparire più seducente.

Ma il cuore dell’operazione di lancio del libro, per quanto possa sembrare mostruoso, è proprio la doppia strage: “L’operazione militare vera e propria ha anche un secondo fine (sub-task) come strategia di marketing per la distribuzione di questo libro”. Il giustiziere è consapevole della geometrica potenza del cosiddetto guerriglia marketing, e lo prende alla lettera. Una serie di attentati aveva già dato la celebrità agli scritti di Ted ‘Unabomber’ Kaczynski (di cui Breivik ha copiato alcuni passi). L’emulo norvegese ha prodotto la teoria e perfezionato la pratica, osando accostare esplicitamente la lotta armata al linguaggio del business. Breivik aveva capito perfettamente che i segni possono influenzare la realtà, plasmarla, anche se in maniera non lineare né prevedibile. Quello che lui chiama “marketing” ha un altro nome: mimesi.

Nel vuoto lasciato dalle grandi narrazioni della modernità prolifera una massa di segni che definiscono le nostre aspirazioni e i nostri comportamenti, il nostro immaginario politico, le nostre forme di espressione, il nostro linguaggio. La rappresentazione può beninteso sostituire, attenuare o placare un desiderio violento che altrimenti sarebbe stato rivolto verso un oggetto reale: in questo senso, prevale l’effetto catartico. Ma nello stesso tempo l’esempio (reale o finzionale) educa, ispira, esercita e abitua a riconoscere come possibili certe situazioni, arricchendo l’archivio di segni a cui ognuno può attingere per orientare la propria condotta, e allora prevale l’effetto mimetico. Ci sono cose che vengono imitate e altre che nessuno si sognerebbe di fare, ci sono persone più o meno influenzabili, ci sono rappresentazioni più o meno efficaci, e poi c’è la legge dei grandi numeri che insegna che prima o poi, a furia di bussare alla porta del reale, i segni trovano un vettore di contagio per farsi strada. Allora succede come in quella scena di Videodrome di David Cronenberg, in cui Debbie Harry esce letteralmente dallo schermo.

Di fronte al progressivo disfacimento del capitalismo occidentale, la politica ha svolto a partire dagli anni Sessanta una funzione sostanzialmente catartica, simile a quella che secondo Aristotele svolgevano le antiche tragedie. Da una parte i partiti tradizionali promettevano irrealizzabili riforme per un sistema che si avviava verso il collasso, dall’altra i movimenti extraparlamentari incanalavano la rabbia di una quantità crescente di delusi senza riuscire a proporre alternative efficaci. La sovranità si è così progressivamente trasformata in uno spettacolo del potere, la costosa messa in scena attraverso la quale gli stati hanno continuato a simulare la loro antica gloria. Questo spiega il crescente successo di forze politiche che non si propongono più per le loro qualità di amministratori (o, più realisticamente oggi, di curatori fallimentari) ma precisamente per la loro capacità di soddisfare dei bisogni simbolici – consolando, rassicurando, se necessario catalizzando la rabbia e trasferendola dall’interno verso l’esterno. La politica è sempre stata anche teatro, ma oggi lo è diventata sempre di più. Nell’ultimo decennio, in Italia questo compito è stato equamente suddiviso tra la Lega di Matteo Salvini e il Movimento 5 Stelle: la prima ha filtrato il sentimento xenofobo; il secondo ha incanalato il risentimento nei confronti della classe politica.

Nel 2012 Beppe Grillo affermava che grazie al suo Movimento in Italia non esisteva un partito come Alba Dorata, l’estrema destra greca: più che di un’analisi neutrale, si trattava di un tentativo di posizionarsi presso i moderati come male minore esplicitando la propria funzione catartica. Grillo è stato tuttavia parzialmente contraddetto nel 2018 dal successo elettorale della Lega di Matteo Salvini, che nella sua orbita politica include esponenti, proposte, registri linguistici che all’estrema destra appartengono di fatto. Lo stesso Movimento 5 Stelle, avvicinandosi alla Lega per governare, ha iniziato a slittare verso quelle stesse posizioni che pretendeva di arginare, mentre sull’intero territorio nazionale si è assistito a una normalizzazione della violenza xenofoba, che in Italia ha uno degli indici più elevati del mondo sviluppato.

Il teatro ha iniziato a invadere il mondo? La notizia all’indomani delle elezioni del 2018 di un senegalese ucciso a Firenze da un italiano depresso, imitatore di Casseri se non dello Straniero di Camus, non ha creato molto clamore. Le dichiarazioni roboanti di Salvini, nuovo ministro dell’Interno, hanno contribuito a sdoganare un discorso estremista e violento. Anche la Lega, d’altronde, aveva svolto per anni una fondamentale funzione purificatrice, sfogando il comprensibile turbamento degli italiani di fronte alla rapidissima trasformazione del paesaggio etnico; ma ha accumulato nel frattempo un terribile debito mimetico. L’assuefazione ha reso necessario un ricorso crescente alla catarsi per contenere il mimetismo, in un circolo vizioso dal quale oggi non sappiamo più come uscire. Ogni giorno si contano le vittime varie e collaterali di un discorso che in un decennio è stato banalizzato nelle aziende, nei bar, sui mezzi pubblici.

Con i suoi eccessi da commedia dell’arte lo spettacolo politico aveva da principio neutralizzato, anestetizzato, assorbito le passioni tristi. Ma con la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane del 2016 e con l’esito delle legislative italiane nel 2018, hanno iniziato ad apparire i limiti di questo meccanismo catartico che aveva permesso per anni di nascondere sotto il tappeto il declino dell’economia occidentale.

Era bello credere che tutta questa violenza verbale non avrebbe avuto nessun effetto, che era appunto solo teatro. Anzi: che ci avrebbe purificati. Era questa, forse, la scommessa aristotelica della borghesia italiana, che periodicamente si convince di saper manipolare questo o quell’altro movimento, finché la spirale innescata non le sfugge di mano. Ma in un altro senso i discorsi radicali hanno semplicemente prodotto assuefazione: e quando la morfina non basta più, bisogna uscire in strada a cercarla. La violenza rappresentata, nei discorsi politici come nelle opere d’arte, sfoga le passioni tristi nel breve termine ma sul lungo influenza la realtà, modifica il linguaggio, alza l’asticella della sopportazione. La crescente popolarità di Salvini ha tradotto un disperato bisogno di sincerità, chiamiamola così: non importa che la dottrina Minniti avesse già fatto diminuire gli sbarchi, delegando il monopolio della violenza ai libici; ma importa, di tutta evidenza, che qualcuno lo faccia prendendosi pubblicamente la responsabilità di quella violenza. Il problema è che la sincerità dei governanti su certi arcana imperii non è compatibile con la coesistenza pacifica dei governati. Dal momento in cui il potere esibisce la sua violenza, questa inizia a scorrere come un veleno nell’intero corpo sociale.

Il fatto che Luca Traini sia stato un militante della Lega ci riporta alla questione della responsabilità linguistica: a Matteo Salvini non si potrà forse rimproverare di avere armato la mano del terrorista, ma l’effetto della sua incontinenza linguistica è che nell’Italia del 2019 di fatto è diventato impossibile distinguere tra la sparata semi-ironica di un rappresentante politico e la minaccia letterale proferita da uno squilibrato. Nel frattempo è cresciuta anche una generazione di bianchi assetati di vendetta e abbeverati da letture sulla sostituzione etnica che minaccerebbe l’Occidente, della quale Breivik è il padre ignobile: se ad oggi i potenziali esecutori restano meno numerosi, meno disperati, meno collusi con la criminalità e più facili da tenere sotto controllo (in assenza della barriera linguistica) rispetto ai jihadisti, la galassia occidentalista è in fibrillazione ed è probabilmente solo questione di tempo perché appaia qualche nuovo Breivik a dare il suo contributo alla spirale delle ritorsioni. Sistematicamente sottovalutati negli anni di Al Qaeda e dell’Isis, i terroristi bianchi esistono, si organizzano, sognano di vendicare le vittime del World Trade Center, di Nizza, del Bataclan; talvolta agiscono, come a Charleston in Carolina del Sud nel 2016 o a Charlottesville nel 2015.

Ecco una cosa che Aristotele non aveva previsto. Non c’è catarsi che non lasci il suo residuo, come la bava di una lumaca. Se la politica è soltanto teatro, perché dovremmo temerla? Proprio perché è teatro. Il problema del nostro tempo è che abbiamo iniziato a sottovalutare l’effetto delle rappresentazioni. La politica deve, prima o poi, dare un seguito alle sue promesse; senza questo gli elettori, contaminati invece di essere purificati, verranno a reclamare il conto. Se l’antropologia insegna che i riti devono per definizione essere continuamente ripetuti per riattivare la loro funzione (persino il sacrificio di Cristo, per i cattolici, si ripete ogni giorno durante la messa) l’esperienza storica sembra mostrare che la loro efficacia tende a decrescere con il tempo: gli stessi valori cristiani, che un tempo servivano come potente legame sociale, nell’Occidente contemporaneo vengono sempre più spesso impiegati come strumento di dissoluzione dell’ordine civile: stanno raggiungendo il massimo grado di inoperosità. Per ora non possiamo far altro che osservare i segnali deboli di una deriva incarnata dall’incontinenza linguistica dei rappresentanti politici.