SOCIETÀ

Cile, il referendum per la svolta costituzionale

Il Cile è a un passo dal voltare pagina, per mettersi definitivamente alle spalle la dittatura di Augusto Pinochet, crollata trent’anni fa ma non ancora del tutto archiviata. Domenica prossima, 25 ottobre, i cileni andranno alle urne per un referendum che dovrà stabilire se la maggioranza dei cittadini vuole cancellare l’attuale Costituzione (che nonostante qualche aggiustamento risale ai tempi della dittatura) e scriverne una nuova. Ma ci sarà anche un’altra domanda, e riguarda l’organo che, se vincerà il Sì (sembra certo: secondo gli ultimi sondaggi è attorno all’80% dei voti), dovrà redigere la nuova carta: un’assemblea costituente mista (composta per metà da delegati eletti e per metà da membri dell’attuale Congresso) oppure interamente eletta?  Per il paese sudamericano si tratterebbe della quarta Costituzione della sua storia. Un passaggio che non è eccessivo definire storico. Un traguardo sudato, chiesto a gran voce, e infine conquistato dalle centinaia di migliaia di manifestanti che da un anno a questa parte, esattamente dal 18 ottobre del 2019, hanno continuato a presidiare le piazze di Santiago e non solo, mettendo alle strette il governo di centrodestra dell’attuale presidente, Sebastián Piñera. Allora il pretesto per la rivolta fu l’ennesimo aumento, di 30 pesos (pari a 3 centesimi di euro), del prezzo del biglietto della metropolitana. Ma ben presto si è trasformata in ferma (e violenta) critica verso l’intero operato del governo, accusato di aver alimentato le disuguaglianze politiche e sociali nel paese, le privatizzazioni di beni e servizi pubblici, applicando proprio quelle teorie neoliberiste contenute nella Costituzione emanata all’epoca di Pinochet. «No es por treinta pesos, es por treinta años», è stato da allora lo slogan dei manifestanti, guidati dagli studenti. 

La “piaga” dei Carabineros

Il referendum di domenica (che si svolgerà con tutte le cautele anti Covid) è una conquista, ottenuta però a un prezzo altissimo: decine di morti, oltre 2mila feriti negli scontri durissimi con la polizia, soprattutto tra ottobre e febbraio scorso, 16mila arresti. Dopo un mese di scontri in piazza, il capo della polizia cilena è stato costretto a vietare agli agenti l’uso di proiettili a pallini di gomma, responsabili del ferimento agli occhi di centinaia di dimostranti: che da allora hanno cominciato a sfilare bendati, diventando così uno dei simboli della protesta. Uno studio dell’Università del Cile aveva poi scoperto che i pallini all’interno dei proiettili non erano completamente di gomma, ma contenevano una percentuale di silice, bario e piombo che li rendevano più duri e pericolosi. Del resto la violenza della polizia cilena è risaputa. Anzi, delle polizie. Perché ce ne sono due, ed entrambe rispondono al Ministero dell’Interno: c’è la Polizia Investigativa, composta da civili, che si occupa delle indagini, e i famigerati “Carabineros”, una forza paramilitare che ha l’incarico di garantire l’ordine e la sicurezza del paese. Per dire: nel 1973 si unirono al golpe dei vertici delle forze armate e furono loro a deporre il presidente Salvador Allende. Li guidava Cesar Mendoza Durán, che fu poi membro della giunta militare: lo stesso Allende lo definì “il generale strisciante”. Ma anche dopo la fine della dittatura i Carabineros hanno continuato ad agire come un’istituzione sopra le regole, spesso senza regole, collezionando decine di denunce per violazioni dei diritti umani (qui il report 2020 di Human Right Watch). Una pessima fama, confermata in occasione delle ultime manifestazioni: per la durezza degli interventi, per i colpi sparati ad altezza d’uomo, per l’uso dei lacrimogeni, e potrebbe esser nulla rispetto a quanto sta accadendo dietro le quinte. La Procura della Repubblica ha aperto più di 2.670 indagini penali sulla base di denunce di torture, violenze sessuali e lesioni da armi da fuoco: e la stragrande maggioranza coinvolge il personale dei Carabineros. Il clima d’insofferenza verso i militari sta crescendo, al punto che il generale Rozas, comandante della forza di polizia, ha proposto nei mesi scorsi la rimozione di dodici generali nel tentativo di placare le proteste, ma non è bastato. Il 2 ottobre, durante l’ennesima manifestazione, un ragazzo di 16 anni è stato spinto giù da un ponte sul fiume Mapocho, a Santiago del Cile. Un volo di 7 metri, immortalato da foto e video. I Carabineros hanno prima negato ogni responsabilità, poi ammesso che si era trattato di “un incidente”. Infine un poliziotto di 22 anni, riconosciuto come autore del gesto, è stato arrestato per tentato omicidio. Perfino il presidente Piñera ha sentito il dovere d’intervenire: «Condanniamo categoricamente qualsiasi violazione dei diritti umani e rifiutiamo qualsiasi deviazione dai protocolli e dalle regole che dovrebbero governare le azioni delle nostre forze dell'ordine», ha scritto in una nota.

Disordini e violenze che si concentrano, da un anno a questa parte, nonostante i timori per la pandemia, soprattutto nel centro di Santiago. Anche domenica scorsa, nell’anniversario dell’inizio delle proteste. Manifestazioni che, come spesso accade, partono tranquille, pacifiche, per poi trasformarsi in azioni di violenza, tra scontri con la polizia e saccheggi di supermercati. Un gruppo di manifestanti incappucciati ha dato fuoco alla chiesa di San Francisco de Borja, che i Carabineros usano abitualmente per le cerimonie istituzionali. Poco dopo è stata attaccata, e gravemente danneggiata, anche la chiesa de La Asunción, una delle più antiche della capitale. Il ministro dell'Interno Victor Perez ha condannato gli episodi: «Coloro che compiono questi atti di violenza non vogliono che i cileni risolvano i problemi con mezzi democratici». Ufficialmente gli arresti sarebbero circa 600, ma il numero non è verificabile. E sta facendo scalpore la notizia di un poliziotto, che lavorava come agente sotto copertura, scoperto mentre incitava i residenti di un quartiere della capitale ad attaccare una stazione di polizia. Vecchi metodi: più scateni violenza più credi di essere legittimato a usare violenza per stroncarla. 

Crolla il gradimento del presidente Piñera

Il presidente Sebastian Piñera è in grandissima difficoltà. All’inizio delle proteste, aveva affrontato i disordini a muso duro, dichiarando lo stato d’emergenza, il coprifuoco e appoggiando completamente l’operato delle forze di polizia. Nemmeno una settimana dopo ha fatto dietrofront, chiedendo pubblicamente “perdono” per non aver compreso le richieste dei manifestanti e annunciando un pacchetto di miglioramenti, dal prezzo delle medicine ad aumenti del salario minimo e delle pensioni. Poi ha tentato la carta istituzionale, cambiando in un colpo solo 8 ministri del suo governo. Infine, a metà novembre del 2019, dopo 48 ore di “trattativa” con l’opposizione, ha annunciato l’accordo sul referendum costituzionale, che si sarebbe dovuto svolgere la scorsa primavera, il 26 aprile, data poi slittata per l’arrivo della pandemia. Ma per Piñera non è questa l’unica grana: la Procura cilena sta indagando sulla sua gestione della pandemia, accusandolo in sostanza di aver alterato i dati dei contagiati per favorire aziende private. Il gradimento del presidente è ai minimi storici, precipitato attorno al 15%, mentre il 75% dei cileni disapprovala sua politica. 

Difficile immaginare che la carriera politica di Sebastian Piñera, 70 anni, economista, al secondo mandato come presidente (il primo dal 2010 al 2014, poi rieletto nel 2018), figura controversa per la sua “vicinanza” (e del fratello José, che ne fu ministro del Lavoro) al regime di Pinochet, possa avere un ulteriore futuro, se i sondaggi confermeranno l’esito favorevole del referendum, con il Sì stimato attorno all’80%. Un Sì sostenuto da un fronte compatto delle sinistre, più Verdi e Liberali, mentre il fronte delle destre è schierato per il No, anche se con qualche distinguo (Evopoli, che fa parte della coalizione di governo, voterà Sì, ma proponendo un’assemblea costituente mista). 

La speranza dei Mapuche

Il tratto politico più rilevante della protesta cilena è che le manifestazioni continuano nonostante i dimostranti abbiano ottenuto ciò che chiedevano: un voto popolare per riscrivere la costituzione. Per seppellire definitivamente un passato che i cileni, soprattutto i più giovani, non riconoscono più. Continuano a scendere in piazza perché si sentono traditi, perché non si fidano più di questa classe politica. Perché chiedono rispetto dei diritti, maggiore uguaglianza, trattamenti economici dignitosi, dai salari alle pensioni, parità di genere, rispetto delle convenzioni internazionali. E tra coloro che sperano di conquistare (finalmente) qualche riconoscimento in più (della loro cultura e del diritto di amministrare le loro terre) ci sono i Mapuche, la popolazione indigena più numerosa del Sud America, circa due milioni di persone che vivono tra Argentina (in minima parte) e Cile, in particolare nella regione dell’Araucanía. I Mapuche ritengono che le loro terre siano sfruttate dalle industrie straniere (compresa la holding guidata dalla famiglia Benetton) e il governo non fa nulla per proteggerle. L’uccisione a sangue freddo nel 2018 di un giovane contadino Mapuche, Camilo Catrillanca, con un colpo in testa da parte del “Commando Jungla” dei Carabineros, un corpo speciale che opera in Patagonia, aveva già riportato la tensione a livelli altissimi. E il 12 ottobre scorso una manifestazione di protesta dei Mapuche a Santiago, non autorizzata, in occasione della “Giornata della resistenza indigena”, è stata repressa dalla polizia cilena con idranti e lacrimogeni per “tutelare l’ordine pubblico”.

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