Cultura e Spettacoli

Lo spartiacque fra il passato e la speranza era (ed è ancora) il Palazzo dei Trecento

L'orrore del venerdì Santo del 1944, il miracolo del "folle di Dio" Botter in Santa Caterina. E la casa dello scrittore.

Lo spartiacque fra il passato e la speranza era (ed è ancora) il Palazzo dei Trecento

Treviso è di una bellezza estrema, e vale la pena scarpinarsela tutta. Qui, dentro la vecchia chiesa di Santa Caterina, c'è qualcosa di una bellezza mostruosa. A metà tra la sindrome di Stendhal e un attacco di fame di un pranzo mancato qui dentro ci si sente piccoli, piccoli, piccini piccini. Ti manca l'aria. Gli occhi increduli. La bocca pendente. Lo stomaco grida dalla fame ma basta l'arte a riempire la pancia. Basta la bellezza. Il sentirsi fortunati per essere qui dentro. Qui ci si rende conto di come le pietre siano immortali. Di come possano passare anche duecento trecent'anni. Quante donne e quanti uomini saranno passati. Qui svettano soffitti mastodontici, pietre tempestose, colonne gigantesche, vetri colorati e belli, con questi affreschi alle pareti che ancora senti i passi gli odori i respiri di chi li ha dipinti. Senti perfino le grida di coloro che sono dipinti. Gli spasimi. Gli ansimi. Gioie. Dolori. Pianti. Tragedie. Virtù e sofferenze.

Ad accompagnarci è Paola Bonifacio, direttore dei Musei Civici di Treviso, colei che nelle parole e negli occhi ha la fiamma di questo mestiere, che lo indossa, che la vedi quando trova un appiglio, tesse la sua tela del sapere appendendo le tessere come a riempire un mosaico. Nei musei trevigiani lei ha portato lo yoga, il suo motto è «il museo per vivere deve essere vissuto». Il giorno in cui i musei hanno riaperto, quelli Civici hanno fatto il pieno. «Questo - ci dice - è uno dei luoghi più belli, più antichi e magici di Treviso. Qui ci sono i famosi affreschi recuperati di Tommaso da Modena». Un tesoro pittorico riportato alla luce dal restauratore Mario Botter che per caso con suo figlio Memi, nel 1945 entrò in questo edificio bombardato e distrutto. Era la guerra, era la Treviso del '44.

La guerra è alle ultime battute. È il 7 aprile, il Venerdì Santo. Treviso viene distrutta, falcidiata. Raffaele Folliero, nel suo libro Ri... scoprire Treviso, parla di 35 bombardamenti, 21 mitragliamenti, 1600 morti, la quasi totalità degli edifici distrutti. Un anno dopo, tra le rovine, Mario e suo figlio Memi entrano in un distretto militare, l'ex chiesa di Santa Caterina, appunto. Botter sospetta da tempo che qui si nascondano delle pitture. Qualche colpetto all'intonaco e il colore riemerge dalla polvere. È la rinascita di Santa Caterina. La fenice che risorge dalle sue ceneri.

«Sebbene le superfici siano rovinate, gli affreschi riportano alle origini della chiesa, tra il XIV e il XV secolo. C'è un pannello che racconta la storia di questa chiesa: ritrae Santa Caterina da Alessandria con in mano un piccolo modellino di Treviso. Risale al tardo Trecento, la santa intercede per Treviso di fronte alla Madonna dell'Umiltà. Dalle sue labbra escono parole che chiedono protezione contro sciagure e malattie. È ancora vivo il ricordo della peste nera del 1348. La chiesa subisce una battuta di arresto perché la popolazione è falcidiata, così pure le maestranze. Ed è proprio di quella chiesa non finita che rimane memoria nell'affresco».

Già. Perché che una città dovesse ripartire dalla bellezza lo storico scrittore Giovanni Comisso l'aveva già capito. Giovanni Comisso scriveva così di Mario Botter, il 10 dicembre 1944, sul Corriere della Sera. «Un folle di Dio», l'aveva chiamato. «La città è distrutta dalle radici, deserta d'abitanti; le chiare acque che piacquero a Dante furono per lungo tempo torbide di detriti, ma questo folle di Dio non si è dato per vinto. Da quel giorno egli è tra le macerie delle case mirabili a raccogliere i frammenti e a contendere le travature istoriate ai ladri per farne fuoco. Su di una facciata, la sola parte rimasta intatta di una piccola casa, egli ha intravisto le orme delle bifore originarie e senza pensare alla casa che non esiste più ha riaperto le antiche finestre chiudendo le recenti».

Perché è bella Treviso, bellissima. Con i suoi vicoli, i suoi ponti, le sue stradine strette, i suoi balconi, con gli affreschi sotto i portici, i salici piangenti, le strade contorte, i riccioli sui palazzi, i gabbiani che ti passano davanti, venti, trenta, quaranta, in fila indiana, piroettano giravolte nel vento colorandone il cielo, qui c'è la Pescheria «frondosa di castagni. È la più tipica del mondo: galleggiante sulle acque... - diceva Comisso -. È una città umana e completa fatta su conoscenza delle necessità e dei desideri degli abitanti».

La mostra dedicata a Botter e Comisso nella Fiume di D'Annunzio, a ottobre dell'ante Covid, venne issata a Palazzo dei Trecento: il simbolo della rinascita della città. Vero spartiacque tra passato e presente. Fu proprio questo palazzo a essere sventrato il 7 aprile 1944 e poi ricostruito. E poi. Poi andando su e giù per le viuzze, inerpicandosi qua e là con le luci soffuse, i cunicoli, i vicoli, i campanili alti enormi, percorrendo vicolo dei Buranelli, c'è la casa di Giovanni Comisso. Se ne sta qui, in quest'oasi di quiete, immersa nel verde e incastonata tra i palazzi affrescati e i camini sagomati. Un'insegna di Montale ci indica l'abitazione. Poi in fondo, lungo l'argine, c'è uno scorcio. Ci sta dipinto un pescatore. È un'ombra, opera dell'artista Mario Martinelli. Rievoca il naufragio della barca dei pescatori, raccontato in Gente di Mare con cui Comisso vinse il Premio Bagutta nel 1928.

Anni duri quelli, dal 1918, quando i trevigiani per ripartire misero in campo tutte le forze: inaugurarono l'aeroporto, costruirono il tempio Votivo, installarono nuove centrali idroelettriche e il cavalcavia della stazione ferroviaria. Come nel 1944 quando alla guerra si aggiunsero quella civile e i bombardamenti. Chissà dov'era finita, scriveva Comisso «nell'ora in cui finiscono le lezioni», quell'«alluvione di migliaia di bambini, di ragazzi e di ragazze impetuosi di gioia, frenetici, urlanti come sparvieri». Era la «gioventù che muore», quella che cresce e brucia in fretta, quella che vive grazie alla bellezza.

Questa bellezza di cui ora non si può fare a meno.

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