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Cultura

"The social dilemma" spiega, ma usa, le trappole del web

Netflix
Netflix 

Dicono che “The social dilemma” sia il documentario di Jeff Orlowski che tutti dovremmo guardare. I pentiti della Silicon Valley raccontano il dilemma etico che li ha portati a lasciare le società dove ricoprivano ruoli apicali. In un’ora e 34 minuti spiegano come la dipendenza e le violazioni della privacy di Facebook, Twitter, Instagram, Youtube, TikTok, Google, Pinterest, Reddit, Linkedin siano caratteristiche strutturali di queste piattaforme e non bug. Descrivono un mondo popolato da cavie da laboratorio. Zombie che passano la giornata sui social perché strumenti utili a fare soldi. Avete presente Truman Show? Siamo tutti come lui, indifesi. Prima la Sillicon Valley vendeva prodotti, ora, con i socialnetwork, vende utenti. Il senso è questo: “Se non stai pagando per il prodotto, allora il prodotto sei tu”. Questo è possibile perché c’è un algoritmo che governa i social e che questo è pensato per fare soldi.

La manipolazione del comportamento umano a scopo di lucro è studiato con una precisione machiavellica dalle aziende della Silicon Valley. Il meccanismo è questo: l’algoritmo prima coinvolge l’utente proponendo cose che gli interessano, poi lo incolla allo schermo con una narrazione da cui non riesce a uscire. E come lo fa? Usando tecniche di tecnologia persuasiva. Il sistema è quello della slot machine: tiri giù la leva, aggiorni e trovi un contenuto che ti interessa sempre più. Il tuo cervello è contento e continua. Tiri giù, scorri e continui. E intanto il socialnetwork vende pubblicità. Lo scorrimento infinito e le notifiche push mantengono gli utenti costantemente impegnati; i consigli personalizzati utilizzano i dati non solo per prevedere ma anche per influenzare le nostre azioni, trasformando gli utenti in facili prede per inserzionisti e propagandisti. 

Ricapitolando: sei interessato a un contenuto, l’algoritmo te lo propone, ti costringe a vederlo perché ricevi una serie di notifiche da cui non puoi scappare. E quando lo guardi non riesci a smettere, perché le menti più brillanti della Silicon Valley hanno studiato il modo migliore per tenerti incollato a quello schermo. Chi inizia a guardare “The social dilemma” difficilmente riuscirà a smettere di farlo. Perché il meccanismo è esattamente lo stesso. Netflix ha proposto un documentario sui socialnetwork, un algoritmo lo posiziona in Homepage tra i titoli “top” del momento in Italia, e le menti più brillanti della Silicon Valley hanno utilizzato le migliori tecniche di persuasione per costruire una narrazione perfetta, che tiene incollato il “consumatore” allo schermo dall’inizio alla fine. E oltretutto c’è tutto un battage sui social da cui non si può fuggire. 

C’è una storia che vale la pena conoscere parlando di algoritmo e di “The social dilemma”. Netflix decise di bandire un concorso con in palio un milione di dollari per chiunque fosse riuscito a creare un algoritmo che prevedesse i gusti degli utenti con una precisione almeno 10% maggiore a Cinematch. Dall’inizio della gara ci vollero soltanto 6 giorni per creare un algoritmo con la stessa efficienza, ma per arrivare migliorare l’algoritmo del 10% ci vollero più di 2 anni. Tanto che oggi l’algoritmo funziona su due livelli diversi. Un primo livello permette agli abbonati di avere una serie di consigli su serie tv o film da guardare e i consigli vengono elaborati sulla base di una raccolta di dati che mescola alcuni fattori. Il secondo livello è più raffinato: fa un’analisi delle abitudini e dei comportamenti e questo condiziona la produzione dei film o le serie tv, in pratica a Netflix sono in grado di dire se davanti a una determinata puntata o sceneggiatura si perderanno spettatori o meno.

Per questo “The social dilemma” non è tanto il documentario che tutti dobbiamo guardare quanto piuttosto il documentario che tutti siamo costretti a guardare. Il doc che fa conoscere a tutto il mondo l’algoritmo che governa i socialnetwork usa proprio un algoritmo per fare in modo che tutti lo guardino. Non solo: usa le stesse tecniche di persuasione di cui parla per fare in modo che chi lo guarda rimanga incollato allo schermo e che ne resti così colpito e terrorizzato da essere spinto a farlo vedere a tutti. C’è un algoritmo che ci manipola, si nutre da solo e arriverà il momento in cui  l’uomo non potrà più fermarlo.

La domanda che resta di “The social dilemma” è questa: cosa c’è che non va nel mondo tecnologico moderno? Gran parte del documentario è affidato alle parole di Tristan Harris, ex esperto di etica del design digitale di google, fondatore del Center for human technology. Ed è proprio lui a rispondere: “Il furto dei dati, la dipendenza dalla tecnologia, le fake news, la polarizzazione delle opinioni, le elezioni che vengono rubate sono delle conseguenze del problema. Non è la tecnologia la minaccia, ma l’abilità della tecnologia di tirare il peggio dalla società”. 

Negli ultimi 12 minuti si tira un sospiro di sollievo e si intravede una speranza e una soluzione. Se il modello imprenditoriale è il problema allora è quello che va cambiato: queste società si comportano come governi, e dicono di poter regolarsi da sole. Ma non può essere così. Servono delle leggi in grado di normare tutto questo. Si chiedono gli intervistati: “Perché le compagnie telefoniche devono rispettare le regole della privacy e le company del digitale no? Perché non tassare la raccolta e la elaborazione dei dati? Questo per esempio darebbe una ragione fiscale alle Company della Silicon Valley per non acquisire tutti i dati di tutto il pianeta. Perché non riformare Google e Facebook?”. Sono tutte domande che non trovano una risposta ma che dovrebbero. Perché l’interesse dei privati non può prevalere su quello pubblico. Finché le aziende non saranno normate ci sarà sempre un algoritmo che dà priorità al profitto e alla pubblicità. Che sia su Facebook, Google o, appunto, Netflix. 

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