“L’ospite più atteso”: intervista alla psicologa Silvia Vegetti Finzi

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È il nostro bambino l'ospite più atteso. Ed è l’incontro con lui a coronare l’aspettativa più importante della vita: la gravidanza. A questa esperienza, che riguarda la maggior parte delle donne, è dedicato “L'ospite più atteso” (Einaudi, euro 12,00), l'ultimo lavoro della psicologa Silvia Vegetti Finzi. Il libro è composto di due parti: l’una, narrativa, corrisponde alla biografia dell’autrice scritta attraverso il personaggio di Lena, il suo alter ego; l’altra, riflessiva, costituisce un tentativo di rispondere agli enigmi della generazione.
L’intento più immediato è quello di convincere le giovani donne a considerare la gravidanza non un semplice processo fisiologico che procede automaticamente, come la respirazione, ma una delle esperienze più complesse e importanti della vita, un periodo determinante per sé e per il bambino che nascerà.

Dottoressa Vegetti Finzi, attraverso il racconto di Lena ci porta a riflettere sull'esperienza delle madri di oggi, in un mondo che va sempre di corsa, dove non c'è tempo per l'attesa. E il suo invito è quello di rallentare.

La gravidanza è un'esperienza così intensa, che credo meriti una profonda dedizione. A una vicenda che trasforma una figlia in madre, vale la pena dedicare tempo, attenzione, concentrazione perché dopo nulla sarà più come prima. È importante ricavare, nel flusso rumoroso della quotidianità, momenti di silenzio, piccoli spazi per sé e per il proprio ospite, durante i quali ascoltare la musica preferita, guardare un paesaggio sereno o semplicemente abbandonarsi, nel dormiveglia, alle visioni della fantasia, alla prefigurazione del nostro bambino. La donna che aspetta un bimbo è paragonabile a un artista che sta creando un'opera d'arte: entrambi richiedono silenzio e concentrazione. L’opera d’arte nasce nella testa ancor prima che nel mondo!

La possibilità di “vedere”, di conoscere prima il bimbo che nascerà attraverso l’ecografia è di aiuto o di ostacolo per entrare in relazione con lui?

Da un punto di vista medico, l'esame ecografico è senz'altro di aiuto, ad esempio per individuare eventuali anomalie, ma sarebbe meglio non eccedere. Oggi molte donne si sottopongono a troppe ecografie, addirittura una al mese, mentre in una gravidanza fisiologica due o tre controlli sono sufficienti. Altrimenti il rischio è di fissare l’attenzione su una figura esterna, oggettiva ed emotivamente distante, anziché prefigurare il proprio bambino utilizzando i ricordi, gli affetti, le emozioni e persino le sensazioni, come quando si resta incantate dall’aspetto di un neonato intravisto nella sua carrozzina. L’importante è predisporsi ad accogliere non un neonato qualsiasi, ma nostro figlio, un essere unico, incomparabile, insostituibile.

Mettere al mondo un bambino dovrebbe essere un processo lineare e prevedibile, ma lei spiega che per le donne di oggi non è così. Che cosa intende?

Col procedere della civiltà, il nostro istinto si è attenuato sino a sparire dai pensieri razionali e coscienti.
Diversamente dagli animali, che si comportano seguendo un procedimento innato, per noi tutto deve essere appreso. Non è un caso se abbiamo bisogno di seguire corsi di accompagnamento alla nascita per imparare ciò che tutti gli altri mammiferi conoscono da soli. Ma attenzione, in gravidanza non è tanto importante ricevere norme e nozioni dall'esterno, quanto riuscire a mettersi in ascolto e sintonizzarsi con i propri desideri interiori. Un buon corso di preparazione al parto dovrebbe aiutare la gestante ad accompagnare il suo bambino dal grembo al mondo, dal buio alla luce, dalla percezione uterina all’abbraccio, dal sentire al vedere.
Il primo scambio di sguardi tra madre e figlio corrisponde alla nascita psicologica, già preparata da un’attesa condivisa.

Nell'era dei social network e dei selfie con il pancione, lei invita le future madri a chiedersi a che cosa si sta rinunciando quando ci si limita a esibire piuttosto che ad ascoltare il ventre gravido.

Oggi è frequente assistere a un'allegra esibizione del pancione, ma la gravidanza è un processo sacro, nel senso che comporta un aspetto di mistero da sottrarre all'ordine della superficialità e della chiacchiera. È bello condividere i momenti felici con le persone cui si vuole bene, ma è importante riservare un angolo d'ombra tutto per sé e per il futuro padre. Non è necessario mostrare tutto subito, affrettarsi a comunicare ad altri ogni novità. Sarebbe meglio custodire un nucleo di esclusività che diventi un punto di incontro privilegiato per la coppia, qualcosa su cui riflettere insieme per prepararsi ad essere i genitori del bambino.

Complici le aspettative della società che vogliono le future madri produttive ed efficienti fino all'ultimo, non è raro che le donne dichiarino con un certo orgoglio di aver trascorso la gravidanza “come se niente fosse”. Di fronte a questo, lei parla di una perdita irrecuperabile.

Oggi la maggior parte di noi ha soltanto un figlio, al massimo due. Non è più come in passato, quando le donne trascorrevano gli anni più significativi della loro vita in “stato interessante”. La gravidanza è diventata un'esperienza rara e preziosa e accade, a chi la trascura, di doversene pentire. Anche perché, se vissuta intensamente, è un'opportunità per crescere e migliorare. Dopo la maternità, una donna è più capace di relazionare con se stessa e con gli altri, è più matura e generosa. Perfino più bella. Ma perché questo accada non si possono vivere i nove mesi senza prepararsi all'incontro con il bambino, senza coltivare la relazione con lui.
Certo, a livello fisico la gravidanza procede da sé e se tutto va bene la donna può continuare la sua vita come in precedenza, ma la gestazione non è solo un evento fisico. Noi siamo corpo e anima e l'incontro con il nostro bambino coinvolge la sfera emotiva tanto quanto quella fisica.

Nei nove mesi la donna è chiamata a sognare, riflettere, immaginare. È un tempo speciale che l'aiuterà, dopo la nascita, a entrare in relazione con il bambino. Tra gli effetti negativi di una gravidanza “non pensata” lei segnala infatti un maggior rischio di depressione post partum.

Una lieve tristezza, una sorta di ombra che cala sulla felicità della nascita è fisiologica. La donna per nove mesi ha immaginato e sognato un bambino che non corrisponde mai del tutto a quello che nasce. C'è un attimo, dopo il parto, in cui le fantasie materne devono svanire per lasciare spazio all’ospite più atteso, quello reale. L'addio al fantasma precedente costituisce un piccolo lutto. Mentre il bambino del giorno, il neonato caldo e palpitante colma le braccia materne, il suo predecessore, il bambino della notte, svolto il compito di preannunciare il nascituro, si dilegua.
Il neonato ha poi la straordinaria capacità di conquistare il cuore della mamma, di se-durla nel senso di portarla a sé. La nascita psicologica coincide con il momento in cui la madre sente e dice: “questo è il mio bambino”.
Ma perché il riconoscimento originario si compia deve esserci stato un “prima”, un tempo dedicato all’attesa. Come tutte le attese, anche quella di un figlio è fatta per concludersi. Eppure, se non è stata vissuta, pensata, sentita ed elaborata, l'incontro sarà più difficile e il rapporto col nuovo nato risulterà meno immediato, caldo e spontaneo.

Nel libro, dice che: “La paternità inizia con una comunicazione, la maternità con un sogno. Ci vuole tempo perché i percorsi s'incontrino e il bambino sia accolto, non da una persona, ma da una coppia”.

In genere gli uomini sono realistici, pratici ed efficienti. La donna è più incline all'immaginazione, al sogno, a formulare ipotesi e alternative. La futura mamma sogna il suo bambino, immagina di stringerlo tra le braccia, fantastica di quando gli farà il primo bagnetto, lo cambierà. Ancor prima di venire alla luce, il bambino vive nel sogno materno. Il padre invece riesce a partecipare alla gravidanza nella misura in cui la donna lo fa partecipare al suo sogno, gli fa vivere le sue emozioni. È lei, è la futura madre il tramite che farà del partner un padre. E nei futuri padri del Duemila c'è tanta voglia di essere coinvolti. È importante permettergli di partecipare alla gravidanza in modo che possano predisporsi all'incontro con il loro bambino prima di entrare in sala parto.

Quando aspetta un figlio, la donna è chiamata a rielaborare il suo rapporto con la propria madre. L'attesa di un bimbo può rappresentare l'occasione per recuperare o migliorare, se necessario, l'intesa?

La vita offre sempre una seconda possibilità. E quando ci si riferisce al rapporto tra madre e figlia, la gravidanza può rappresentare quella possibilità. Un'opportunità da non lasciarsi sfuggire per riallacciare un rapporto che magari, col tempo, si è attenuato o addirittura per creare un'intesa che non c'è mai stata o, per qualche motivo, si è deteriorata.
Il ritorno della gestante alla madre è un passo importante che risponde a un'esigenza profonda: la futura madre che contiene il bambino ha bisogno a sua volta di sentirsi contenuta. Se però questo non è possibile, ad esempio perché la famiglia d'origine è lontana, a prendersi cura della futura mamma può essere un'altra donna - una zia, una vicina di casa, una collega più anziana - purché abbia un legame affettivo con lei.

Oggi la gravidanza è monitorata, a volte vissuta come una vera e propria malattia. I progressi in campo medico, che hanno portato innegabili vantaggi in termini di salute, hanno però interferito con la “sapienza” femminile.

Negli ultimi anni, molte donne trascorrono i nove mesi di gravidanza in perenne attesa di una diagnosi. Aspettano l'esito di un esame, attendono il controllo e l'esame successivo in uno stato di continua ansia e soprattutto sempre concentrate sugli aspetti fisici della gestazione. Quando l'attenzione è troppo concentrata sul corpo, si rischia di trascurare la sfera emotiva, che è parte fondamentale dell'esperienza dell’attesa.

Nel racconto, i medici di una clinica milanese spiegano alle future mamme come partorire. E lei scrive: “Chi non sa insegna a chi sa”.

Abbiamo già osservato che la femmina umana ha perso l’istinto della riproduzione. Ma in realtà nulla va perduto, tutto si conserva nell’inconscio e può essere recuperato attraverso una trasmissione di esperienza di madre in figlia, di donna in donna.
I medici, dal canto loro, dovrebbero accompagnare la donna con grande rispetto, starle accanto senza prevaricare, senza dimenticare che la gravidanza è un'esperienza femminile. Per secoli l'attesa e la nascita sono stati compiti esclusivamente femminili: accanto alla futura madre c'era un'altra donna, l’ostetrica, che aveva una esperienza personale del parto. Con l'avvento della medicina scientifica, il potere di mettere al mondo è stato sequestrato dai medici e le ostetriche sono state relegate a un ruolo secondario, talvolta alla stregua di inservienti.
Ora però, per fortuna, la situazione è cambiata e sta ulteriormente migliorando. Le ostetriche si sono organizzate per recuperare il loro ruolo, per riconquistare lo spazio che loro compete durante la gravidanza, nel parto, nel puerperio e nell’allattamento.
Nel libro questa figura importante è incarnata dall'ostetrica anziana che aiuta la giovane mamma, compagna di stanza di Lena in ospedale, ad allattare il suo bambino. È un personaggio che sostiene, incoraggia, rassicura e con i suoi saggi consigli aiuta la neomamma a prendere confidenza con il nuovo ruolo di accudimento.

Come fare per entrare in sintonia con il bimbo appena nato?

Il primo passo è limitare le interferenze. Quello tra madre e figlio deve essere un incontro profondo, silenzioso. Subito dopo la nascita, in sala parto e poi in reparto, quando la donna riposa accanto al suo bambino, occorre proteggere la loro intimità.
Le visite di parenti e amici andrebbero limitate e/o rimandate a un secondo momento: in particolare, bisognerebbe evitare il via vai continuo di ospiti, foto, regali, confusione. La madre e il bambino comunicano per la prima volta attraverso lo sguardo e se ognuno di noi è convinto, senza per altro averne alcuna prova, di essere unico al mondo, uguale solo a se stesso, è per il riconoscimento che gli ha conferito la madre.
L’attaccamento che si crea nei primi momenti e che prosegue per i primi anni con la propria madre è un legame unico, destinato a durare, anche se con alterne vicende, per tutta la vita. Se sappiamo limitare le interferenze, se madre e bambino non vengono disturbati, tutto in loro è predisposto per creare un’intesa unica ed esclusiva.
Il valore della relazione originaria tra madre e figlio è stato confermato dai “neuroni a specchio”, scoperti da ricerche svolte all’Università di Parma. La loro funzione, che consiste in una spontanea imitazione dei comportamenti della persona che ci sta di fronte, è di aiutarci a entrare in relazione con gli altri, a comprendere le loro azioni, ma anche le loro emozioni. Mentre il neonato osserva i movimenti del viso della madre e cerca di imitarne le espressioni, si lascia plasmare da lei. Quando madre e bambino si guardano negli occhi e riflettendosi si sorridono, avviene un rispecchiamento emotivo che è fondamentale per la costruzione del loro rapporto.

Nel suo libro si legge che “all'origine del senso di sé c'è l'identificazione corporea e mentale con la madre”. Cosa significa?

Il nostro primo io è corporeo. Noi siamo fatti di un corpo pensante e di una mente corporea. Quando la madre accarezza il suo bambino e lo accoglie nelle sue braccia e nel suo cuore, lo definisce, lo fa sentire vivo e vero. È il suo tocco sulla pelle che, disegnando i confini del corpo infantile, dice al piccolo: “tu sei questo” e così facendo lo consegna al mondo. Il valore più alto della maternità consiste proprio nell’evitare il possesso e il dominio, nel ridurre progressivamente la presa sul figlio accettando che divenga quello che è, magari molto diverso da come lo aveva sognato e desiderato.

Giorgia Cozza

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