Risale all’Estate 1977 questo articolo di Romano Prodi. All’epoca era più giovane, non era premier nè tantomeno ex-premier. Scriveva che l’Italia aveva dovuto gestire il proprio sviluppo senza l’apporto dei lavoratori stranieri: siamo l’unica società industriale a non avere “negri”, diceva. Usava proprio quel termine, “negri”. Aggiungendo: forse è meglio così, continuiamo a farne a meno. Sembra preistoria, ma per molti versi è all’origine dell’attualità. Ecco il testo integrale dell’articolo.
Se la gestione dei conflitti della società industriale è stata più difficile in Italia che negli altri paesi europei ciò non è dovuto soltanto agli errori che politici, sindacalisti, imprenditori e economisti hanno copiosamente compiuto negli ultimi anni, ma anche a una natura particolare del sistema economico italiano rispetto a quello delle altre nazioni. L’Italia è stato l’unico paese dell’Occidente a dover gestire il proprio sviluppo senza il determinante contributo di lavoratori stranieri. Detto in linguaggio più semplice l’Italia è stato l’unico paese dell’Occidente a mandare avanti una società industriale senza “negri”, che negli Stati Uniti erano negri nel senso letterale della parola. Nel Nord Europa erano invece emigranti italiani, spagnoli, turchi o nordafricani. Non dovremmo mai sottovalutare qesto fatto, non solo perchè nelle maggiori aree industriali della Germania e della Francia i lavoratori stranieri coprono oltre un quarto delle occupazioni di tipo manuale, ma anche perchè sono addetti soprattutto ai mestieri meno graditi. Anche quando non sono discriminati economicamente, essi costituiscono quindi un grandioso ammortizzatore dei conflitti sociali e hanno contribuito a risparmiare alle società industrializzate europee i problemi che anche per l’immaturità politica cui facevamo cenno prima, hanno invece travolto la società italiana.
Almeno dal 1968 in poi il mercato del lavoro nel sistema industriale italiano (trascuriamo in questa occasione il discorso del lavoro nero) si è presentato come unitario sia al Sud che al Nord e anche per gli immigrati da Sud a Nord.
Dopo tre giorni passati a Torino l’operaio siciliano non solo è già sindacalizzato, ma tende a dimostrare la propria definitiva appartenenza alla classe operaia spingendosi spesso verso i limiti più estremi della militanza sindacale. Non abbiamo perciò goduto della possibilità, che hanno avuto gli altri, di scaricare sugli stranieri le professioni che stanno in coda alla gerarchia sociale, cioè quelle da cui nascono le tensioni e dilacerazioni.
Negli ultimi mesi è capitato invece qualcosa d nuovo. Nonostante le difficoltà economiche, nonostante la disoccupazione crescente, non si riesce a ricoprire con cittadini italiani un numero crescente di posti di lavoro manuale nell’industria dell’Italia del Nord. In Emilia sono arrivati i lavoratori arabi. Non sono venuti clandestini, ma solo dopo che le imprese non avevano potuto trovare manodopera italiana di nessun tipo passando per i regolari canali dell’assunzione di manodopera. A Reggio Emilia, ad esempio, sono già 115 i lavoratori arabi. Sono per la quasi totalità egiziani, lavorano circa per la metà nelle fonderie, per l’altra metà nel resto del settore metalmeccanico e solo poche unità fanno i braccianti in un’azienda agricola. Altri cento, almeno, sono inoltre in attesa dello espletamento delle pratiche per seguire i loro compatrioti. Questo fenomeno non si verifica però in una sola città e nemmeno in una sola regione. Molto spesso inoltre questi operai sono bravi e intraprendenti, proprio come erano i nostri lavoratori che all’inizio degli anni Cinquanta emigravano in Francia.
Al di là della limitatezza quantitativa di questi episodi non possiamo esimerci dalla necessità di una scelta riguardo ai problemi che essi aprono. Vogliamo aprire le porte ai lavoratori stranieri, dopo che abbiamo compiuto questo enorme sforzo di unità del paese negli anni trascorsi? E ancora. Come è possibile che tutto questo avvenga mentre esistono tanti disoccupati? Come ogni paese arrivato a un elevato livello di scolarizzazione, l’Italia ha evidentemente bisogno di una legge per l’immigrazione, dato che certe professioni, anche nelle normali aziende industriali, trovano un sempre minore numero di candidati.
Io credo che, al punto in cui siamo, sia una follia ripercorrere la via degli altri paesi europei, aggiungendo ai problemi che abbiamo anche quelli di una difficile convivenza razziale. Credo che ce la dobbiamo ancora una volta cavare da soli, con maggiori e migliori informazioni sul mercato del lavoro, con una più equa distribuzione territoriale delle imprese, con il miglioramento delle condizioni di lavoro e con ulteriori mutamenti dei salari relativi.
Le professioni manuali debbono essere pagate sempre di più. Quanto diceva, con rara preveggenza, Gorrieri, spinto soprattutto da motivazioni di giustizia sociale, sta ora diventando anche una necessità economica. Già una specie di rivoluzione è stata compiuta: basti pensare al fatto che nel 1962 un lavoratore qualificato nel settore della meccanica guadagnava la metà di un insegnante, mentre ora il salario medio ne è diventato addirittura superiore. Ma in molti altri casi questa trasformazione non è ancora avvenuta: ora anche l’Italia si deve rapidamente avviare verso una gerarchia salariale di tipo moderno, dove all’ultimo gradino non troviamo i lavoratori manuali, ma quelli impiegatizi di tipo ripetitivo. I nostri rapporti con i paesi poveri del Mediterraneo non dovranno poi essere di semplici utilizzatori di manodopera nel nostro paese: occorre una politica di investimento in loco e di collaborazione più stretta e coordinata. Non dobbiamo anche in questo caso ripetere gli errori altrui.
Abbiamo fatto (o abbiamo dovuto fare) molti anni fa una scelta di sviluppo fondamentale sulle nostre sole risorse umane. Essa ci ha dato gravi problemi, ma non possiamo ripudiarla ora che abbiamo impiegato anni e anni per risolvere questi stessi problemi e nemmeno possiamo ripudiarla quando tutto il Nord Europa comincia a soffrire di gravissime tensioni razziali. E soprattutto non possiamo ripudiarla quando migliaia di giovani sono alla disperata ricerca di un lavoro. Bisogna invece creare una diversa gerarchia di valori per cui il lavoro manuale sia reso veramente pari agli altri lavori e ne siano perciò riconosciuti vantaggi economici sufficienti a recuperare il maggior disagio e il minor prestigio sociale di cui esso gode. E contemporaneamente occorre un profondo e globale mutamento di mentalità in materia.
Non credo di aver dedotto troppe conclusioni dall’arrivo di alcune centinaia di egiziani in Emilia: forse però queste stesse conclusioni dovevano già essere fatte a proposito delle precedenti ondate migratorie di collaboratrici domestiche e di braccianti.
Romano Prodi, L’Italia è diversa e mancano i negri, in «Il Corriere della Sera», 19 Agosto 1977
apr. – (Adnkronos) – Il sindaco di Livorno, Alessandro Cosimi, interpreta se stesso, in uno
spettacolo ispirato e dedicato alla tragedia di Pian di Rota, dove lo scorso agosto persero la vita in un
rogo quattro bambini rom. Al suo fianco, sul prestigioso palcoscenico del Teatro Goldoni, giovedì 24
aprile alle ore 21, gli attori-detenuti del Laboratorio teatrale della Casa circondariale di Livorno gestito
da Arci-solidarietà.
Promosso dal coordinamento femminile di Anpi-Anppia in collaborazione con l’Arci, con il patrocinio
dal Comune e della Provincia di Livorno, lo spettacolo è organizzato nell’ambito delle cerimonie per il
630 anniversario della Liberazione. È ideato ed organizzato da Alessio Traversi e da Federico Bernini e
vedrà la partecipazione di oltre 100 ragazzi delle scuole cittadine di danza («Arabesque», «ArteDanza»,
«Atelier delle Arti», «Koinè Danza», «Laboratorio di danza moderna»), e appunto degli attori del
Laboratorio teatrale della Casa circondariale di Livorno gestito da Arci-solidarietà.
«Io non sono razzista?ma però» è liberamente tratto dal «Manifesto della razza», redatto nel 1938 da
un gruppo di scienziati fascisti ed usato dallo stesso regime come base teorica per le leggi razziali. E si
intreccia, nel contempo con il «Blog» lanciato lo scorso autunno dal sindaco Alessandro Cosimi su
«Livorno e i Rom.
A parte la scelta infelice del titolo, non mi sembra di aver letto niente che possa scandalizzare l’intelletto medio … o forse sono al di sotto della media?
No, infatti, non c’è niente di cui scandalizzarsi. E’ curioso, però, osservare come in questo articolo – di diversi anni fa, ma comunque relativamente recente – si parli dell’immigrazione come di una realtà marginale: oggi, a poca distanza da allora, le cose sono molto cambiate.
Poi, certo, si potrebbe discutere nel merito di quel che dice Prodi, perchè a mio parere la presenza di migranti nel nostro paese ha portato conseguenze positive ed importanti. Ma questa è altra faccenda
Effettivamente il simpatico ciclista bolognese dilettante ha toppato (cosa che per un ciclista no e’ un merito)… ma credo che la bossi-bossi sara’ effetivamente peggio di qualunque possibile amato-ferrero, o mi sbaglio?
Effettivamente il simpatico ciclista bolognese dilettante ha toppato (cosa che per un ciclista non e’ un merito)… ma credo che la bossi-bossi sara’ effetivamente peggio di qualunque possibile amato-ferrero, o mi sbaglio?
Certo che sarà peggiore, su questo puoi scommetterci: e anche molto peggiore, visto che la Amato-Ferrero, pur con molti limiti, sarebbe stato un buon passo avanti. Da quel che si annuncia, la Bossi-Bossi sarà un gigantesco passo indietro, ma proprio nel burrone… C’è solo da sperare che non la approvino mai: come non hanno approvato mai la Amato-Ferrero…
Un abbraccio
sergio