21 aprile 2020 - 08:33

Sanità in Piemonte, vent’anni di tagli: ospedali chiusi e pochi posti letto

Dipartimenti di prevenzione dimezzati, assunzioni sacrificate sull’altare del pareggio di bilancio: tutto questo con il centrodestra e con il centrosinistra

di Gabriele Guccione

Sanità in Piemonte, vent'anni di tagli: ospedali chiusi e pochi posti letto
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L’unico segno «+» davanti ai numeri della sanità piemontese non indica nulla di buono. Anzi, dimostra come il sistema negli ultimi vent’anni si sia ristretto di anno in anno: sia che al governo del Piemonte ci fosse il centrodestra, sia che ci fosse il centrosinistra. Eccolo, il numero: +220 piemontesi adulti per ogni medico di famiglia, un rapporto cresciuto del 20 per cento dal 2000 a oggi, dato che spesso si traduce anche in un maggior carico di lavoro per quelle che dovrebbero essere le sentinelle della salute dei pazienti, il loro approdo iniziale, ben prima del pronto soccorso. Per il resto le statistiche riportano un’infilata di segni meno: ospedali chiusi, dipartimenti di prevenzione — quelli che avrebbero dovuto coordinare le cure a casa dei malati Covid-19 — dimezzati, posti letto ridotti all’osso, assunzioni di medici e infermieri sacrificate sull’altare del pareggio di bilancio.

Come a dire che i tagli non hanno colore politico. E non c’è scaricabarile o commissione di inchiesta che tenga. Dal 2000 la discesa è stata inarrestabile. A volte meno scoscesa, come ai tempi — altri tempi, si direbbe — del governatore azzurro Enzo Ghigo o della zarina Mercedes Bresso. Altre volte più ripida, come quando il leghista Roberto Cota firmò appena eletto nel 2010 un piano lacrime e sangue per rientrare di tutti i debiti pregressi con i fornitori, circa 3 miliardi di euro. E che il suo successore Sergio Chiamparino non poté fare altro che portare a compimento, salvo allentare i cordoni della borsa negli ultimi anni di mandato. E così fino a oggi, quando sotto i colpi dell’emergenza sanitaria per l’epidemia di coronavirus il sistema piemontese ha mostrato tutte le sue falle: dalle difficoltà ad analizzare tutti i test virologici di cui si avrebbe bisogno all’impossibilità di assistere i malati a casa.

«La medicina del territorio è mancata, non c’era più», denuncia l’ultimo arrivato tra i governatori, Alberto Cirio. Già, proprio quel rapporto tra medici di base e uffici di igiene che avrebbe potuto accerchiare il virus prima che arrivasse a varcare le porte degli ospedali. Ma come fare se in vent’anni i dottori di famiglia sono stati, per usare una metafora, decimati due volte? Nel 2005, al momento del passaggio di consegne tra Ghigo e Bresso, erano 3.497 (uno ogni 1.095 abitanti). Cinque anni dopo, all’arrivo di Cota, erano già scesi a 3.335 e, di lì a poco, un anno prima dell’elezione di Chiamparino, si erano assottigliati a 3.178. Il saldo: 583 medici di famiglia in meno dal 2000 al 2017 (i dati ufficiali del servizi sanitario si fermano a quell’anno). Il tutto in una regione, il Piemonte, dove l’invecchiamento non si è affatto arrestato. Con gli over 65 passati dal 21 al 25 per cento della popolazione totale.

Case della salute, gruppi di cure primarie. Tutte le giunte regionali, chi più chi meno, ci hanno provato. Alcune a parole, altre coi fatti. Ma nel passaggio tra un governo e l’altro ci si arenava e si ripartiva daccapo. «La ratio era: se spendiamo di più per rafforzare la medicina di territorio, spenderemo di meno sugli ospedali. Ma tutte queste esperienze non furono perseguite con continuità», fa notare Eleonora Artesio, 65 anni, dal 2007 al 2010 assessora alla Sanità nella giunta Bresso.

L’obiettivo più facile da colpire a quel punto si spostò sugli ospedali. Dal 2000 ne sono stati chiusi 8, un taglio del 18 per cento. Ma la vera mannaia si è abbattuta sui posti letto. «I governi dei professori, a cominciare da Monti, imposero di ridurne il rapporto a ad almeno 3,7 ogni mille abitanti», ricorda Ugo Cavallera, 75 anni, alla guida della sanità regionale nell’ultimo anno di mandato di Cota. Dopo un primo balzo tra le giunte Ghigo e Bresso (da quasi 20 mila a 15 mila), è stato dall’avvento dell’esecutivo del governatore leghista in avanti che i letti si sono assottigliati fino a quota 13.508 (3,1 ogni 1000 piemontesi, uno e mezzo in meno rispetto al 2000). Un’emorragia che in vent’anni ha spazzato via 5.680 posti, pari al 29,6%.

«Ma l’ossessione per la compatibilità finanziaria del sistema sanitario era già cominciata nel 2004 — riconosce Artesio —. Anche senza piani di rientro come quello durissimo di Cota, da destra ma a volte anche da sinistra non si voleva che la spesa sanitaria venisse integrata con le risorse del bilancio della Regione». Cavallera concorda: «Bisognava restare dentro gli 8 miliardi del fondo nazionale, questo fu l’orientamento emerso tra 2000 e 2005». E così, tra una scure e l’altra, anche l’«esercito» della sanità piemontese, come ama definirlo Cirio, non ha avuto scampo. E solo dal 2010 ha perso 3.842 dipendenti (-6,7%), di cui 426 medici (-4,8%) e 595 infermieri (-2,69%).

Il resto: la medicina di territorio? Tutto rimasto sulla carta.

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