Torino

Davanti ai cancelli della Fiat con Berlinguer, il 26 settembre 1980

La testimonianza di chi accompagnò il segretario del Pci nella visita ai lavoratori durante i 35 giorni di lotta, 40 anni fa

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Alcune settimane fa la scomparsa di Cesare Romiti ha visto la stampa italiana rievocare i 35 giorni di scioperi alla Fiat nel settembre ottobre 1980, da cui l'amministratore delegato Fiat emerse vincitore. Seconda un'antica formula, vinse il capitale, perse il lavoro. Tuttavia le grandi vicende sociali hanno svolgimenti che lasciano tracce e contengono aspetti più policromi delle conclusioni formali. Basti ricordare che per qualche tempo le agitazioni alla Fiat coincisero temporalmente con quelle degli operai polacchi organizzati dal sindacato Solidarnosc. Se è vero che gli orizzonti politici (qui era in questione il futuro dell'industria automobilistica, là il sistema di potere statale) e le ascendenze ideologiche (alla porta 5 di Mirafiori fu appeso uno striscione con il ritratto di Karl Marx; nelle manifestazioni polacche appariva l'effige della Madonna nera di Czestachowa) erano differenti, sui media europei Torino e Danzica assursero a scenari paragonabili della combattività degli operai industriali. Non a caso uno slogan di alcuni cortei era "Danzica e Stettino, così anche a Torino". Proprio allora le maestranze dei cantieri del Baltico, capitanati da Lech Walesa, avevano chiesto che i ministri lasciassero Varsavia e andassero a Danzica a trattare. Alcuni voci si alzarono anche in Italia per chiedere che la trattativa Fiat si trasferisse a Torino. E alla festa dell’Unità di Bologna Enrico Berlinguer rivolse quell'invito a governo e dirigenti sindacati. Il Pci torinese propose allora al segretario di venire a Torino. Berlinguer acconsentì di buon grado di venire il 26 settembre per un discorso alla sera in piazza San Carlo. Chiese però di poter incontrare, nel corso della giornata, gruppi di operai impegnati nei picchetti di sciopero per sentire direttamente quello che pensavano. Così si organizzò la visita agli ingressi degli stabilimenti.



Il mattino di quel venerdì settembrino, quando giungemmo allo stabilimento di Rivalta (il primo visitato), ci rendemmo conto che l'incontro non sarebbe stato circoscritto agli operai del picchetto. Migliaia di persone si accalcavano attorno agli ingressi della fabbrica. La voce della venuta di Berlinguer s’era diffusa e la folla (non solo i dipendenti Fiat ma le famiglie, i bottegai ed altri ancora) era accorsa, quasi che il leader del Pci avesse il dono di quietare la tensione che durava da settimane e trovare una via d'uscita. A richiamare la folla erano certo la perdita di salari dovuta all'astensione prolungata, i timori per il futuro, ma anche la popolarità della persona. A quella vista Berlinguer si rincattucciò nel sedile posteriore dell’auto. Mi disse: “Intervieni tu. Di’ che io parlerò stasera in piazza”. Era colto alla sprovvista. Non amava improvvisare, preparava i suoi discorsi con puntiglio. Obiettai: “Questa gente vuole ascoltare te. Non si accontenteranno di ciò che posso dire io”. Restò perplesso, ma convenne: “Di’ loro che, se vi saranno domande, io risponderò”.

Salii su un palco posticcio eretto accanto ad un cancello per iniziare l'incontro,; e le domande naturalmente arrivarono. In particolare un'operaia chiese:"Se occupiamo la fabbrica, voi che cosa farete?" Berlinguer  rispose che, se lo sviluppo della lotta avesse condotto a quel punto e se la decisione fosse stata assunta democraticamente dall'insieme dei lavoratori, il Pci non avrebbe potuto essere che con loro. Quelle parole ebbero l'effetto di suscitare molte polemiche e distorsioni, quasi che il segretario del Pci avesse chiamato all'occupazione degli stabilimenti.
Incontri come quello di Rivalta si ripeterono agli stabilimenti di Mirafiori, Lingotto, Stura, Chivasso.
 La sera piazza San Carlo era strapiena, sotto un cielo stellato con la luna che faceva capolino accanto all'incombente torre littoria. Come ha scritto Valerio Castronovo, Berlinguer ribadì:"Non sono venuto a Torino per esasperare la dura lotta della Fiat. E non sono qui neppure per scavalcare i sindacati,ai quali abbiamo rinnovato e rinnoviamo il nostro impegno solidale".

L'indomani Berlinguer rientrò presto a Roma perché alla Camera dei deputati si votava la sfiducia al governo Cossiga; sfiducia che ottenne la maggioranza alla Camera e il governo si dimise. Veniva a meno un interlocutore essenziale della trattativa sindacale. Così nel pomeriggio la Fiat comunicò il ritiro dei licenziamenti e annunciò l'adozione della Cassa integrazione guadagni per  oltre 20 mila dipendenti. Era logico avvertire una relazione tra la venuta del segretario comunista a Torino e il cambio di passo di corso Marconi (al punto che vi fu chi parlò addirittura di "accordo" tra Agnelli e Berlinguer). A Torino il partito distribuì un volantino che invitava i  lavoratori a rientrare in fabbrica per rilanciare la trattativa. Fu carta sprecata. Nei sindacati prevalsero gli inconciliabili e la linea dello sciopero ad oltranza.
La situazione si appesantì. Tra la gente la Cig non aveva l'impatto psicologico e sociale dei licenziamenti e crebbe lo scontento per lo sciopero interminabile. Aumentarono i dipendenti che al mattino di presentavano agli ingressi per entrare. Così il 14 ottobre la "marcia dei 40 mila", promossa dall'Associazione dei quadri Fiat che rivendicava il "diritto al lavoro", raccolse molte adesioni in città; e nelle notte successiva si giunse alla chiusura della vertenza che prevedeva la messa in Cassa integrazione di 22884 lavoratori. Le assemblee sindacali che seguirono furono aspre, ma non c'era alternativa.

E adesso? Nelmovimento fioccavano gli interrogativi. Finita la Cassa integrazione, che cosa sarebbe capitato? In Fiat si sarebbe riaffacciato il clima degli anni Cinquanta? L'accordo aveva tradito i lavoratori oppure fin dall'inizio si era sbagliato di fronte alla crisi dell'industria auto? Lotta di classe o Mitbestimmung(la cogestione tedesca)? Incertezze, speranze, presentimenti e risentimenti si rimescolavano Il domani del lavoro, dei salari, delle fabbriche appariva buio. L'accordo segnò l'avvio di un rivolgimento radicale. Decine di migliaia di lavoratori Fiat (cui si aggiunsero gli eccedenti delle aziende subfornitrici) uscirono per sempre dalle officine. L'organizzazione dell'industria procedette oltre i canoni del fordismo. Mirafiori, tra i più grandi stabilimenti d'Europa, divenne man mano un'area largamente sgombra da destinare ad altre attività. La città di Torino, che aveva raggiunto 1.200.000 abitanti, precipitò al di sotto del milione. La mobilità metropolitana, dominata fin lì dai flussi provocati dai "cambi turno" della fabbriche, cessò di esserne influenzata. Da "capitale dell'auto" la capitale già sabauda si convertì in periferia (di Wolsburg, di Detroit).
Sotto le Alpi occidentali il nuovo secolo partiva in netto anticipo e l'orizzonte restava sconsolatamente fosco