2 maggio 2021 - 10:22

Alitalia, il limbo lungo 4 anni dell’ex compagnia aerea di bandiera

Il 2 maggio 2017 il vettore tricolore entrava in amministrazione straordinaria dopo il «no» dei dipendenti all’accordo sindacale. L’esperimento fallito di Etihad, i travagli interni, la ricerca di un compratore. E ora le incognite sul futuro

di Leonard Berberi

Alitalia, il limbo lungo 4 anni dell'ex compagnia aerea di bandiera
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Che Alitalia sarebbe scivolata in «terra incognita», nella primavera del 2017, lo si era capito dai primi risultati del referendum dei lavoratori di Milano. Chiamati — loro, come tutti gli altri — a esprimersi sul pre-accordo tra l’azienda e sindacati fatto di tagli agli stipendi, riduzione dei permessi, cassa integrazione e nuovi contratti d’ingresso, tra Linate e Malpensa aveva stravinto il «no». Alle 23:43 del 24 aprile l’annuncio ufficiale: due assunti della compagnia aerea su tre avevano bocciato il piano di rilancio proposto dalla cordata italo-emiratina. Finiva l’avventura di Etihad Airways. Si aprivano le porte dell’amministrazione straordinaria, inaugurata ufficialmente il 2 maggio. «C’era questa voglia di far fuori questi arrivati da Abu Dhabi con i soldi e anche l’arroganza di quelli che sanno tutto di trasporto aereo», spiega un ex quadro di Alitalia, una delle quattordici persone — dipendenti attuali e passati del vettore, ex consulenti, dirigenti dei ministeri coinvolti, funzionari della Commissione europea ed ex manager di Etihad — sentite dal Corriere della Sera nelle ultime settimane.

Alitalia, il limbo lungo 4 anni dell’ex compagnia aerea di bandiera

I 6 mesi diventati 48

Un capitolo che doveva durare poco, «sei mesi» secondo l’allora ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, alla guida del dicastero titolare delle sorti di Alitalia. Al termine del quale il vettore sarebbe stato venduto (in tutto o a pezzi) o liquidato. Ma 1.461 giorni, quattro governi, sette commissari, 1,3 miliardi di euro di prestiti statali, quasi 300 milioni di indennizzi Covid e 6.828 persone in cassa integrazione dopo il dossier Alitalia resta tra i più grandi grattacapi delle istituzioni italiane ed europee. Capace di scrivere una trama degna di una serie tv, tra compagnie rivali interessate poi fallite, altre finite in crisi subito dopo aver deciso di comprarne un pezzo, politici critici poi chiamati da ministri a gestirne le rogne, soggetti che hanno smentito qualsiasi interesse salvo poi provare a formare una cordata e altri che, vista l’opportunità più unica che rara, hanno dato — legalmente — una sbirciata ai segreti industriali di quella che un tempo era la principale compagnia aerea del Paese.

La «terza via»

Ripercorrere questi ultimi anni di Alitalia è un’altalena di aspettative e delusioni, scadenze fissate poi rimandate, ultimatum diventati penultimatum fino a sparire con i cambi al vertice di Palazzo Chigi. «Sembra che questo dossier non lo abbia mai voluto risolvere nessuno», spiega al Corriere una fonte istituzionale che segue in prima persona le vicende della compagnia tricolore. «Le alternative sono sempre state due, una più dolorosa dell’altra — prosegue —. La prima: cedere Alitalia a un’altra compagnia, ma a pezzi e con sacrifici occupazionali rilevanti. La seconda: farla sparire, perché tanto il mercato è in grado di soddisfare la domanda nel giro di qualche mese, anche se questo comporterebbe perdere rilevanza negli equilibri dei cieli europei. Si è preferito tergiversare, scegliendo una terza strada che non ha risolto granché».

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Il «no» consapevole

«La sensazione da subito fu che il referendum del 2017 sarebbe stato bocciato», ricordano diversi dipendenti ed ex di Alitalia. «Quel pre-accordo chiedeva a un corpo già pieno di cicatrici, frutto delle ristrutturazioni passate, di subire nuove ferite». A colpire di più — sottolineano — è il fatto che tutti sapevano cosa avrebbe comportato l’amministrazione straordinaria, cioè «morti e feriti», «ma era così tanta la rabbia e il livore nei confronti di Etihad che abbiamo deciso lo stesso quello scenario che già conoscevamo». Tre gli aspetti che non andavano bene ai lavoratori. Il primo: i risultati. Gli emiratini avevano fatto grandi promesse, «ma senza realizzare nulla». Il secondo: la gestione. In tanti ricordano la «mancanza di meritocrazia»: «Sono arrivati e hanno imposto le loro persone». Persone che «dopo due anni non parlavano ancora una parola d’italiano». Il terzo aspetto: il clima. «Era pessimo, si respirava l’aria dello Stato autoritario. È stata licenziata gente con pretesti assurdi per mandare un segnale a tutti su chi comanda». A una delle prime riunioni — ricorda uno — «a un dirigente bravissimo quelli di Etihad gli hanno detto “shut up”, stai zitto».

Da Abu Dhabi

Chi in Etihad ci ha lavorato offre un’altra prospettiva. «Gli italiani pensavano che avrebbero avuto a che fare con il parente ricco, ma stupido», ricorda un ex dirigente che ha fatto spesso la spola tra Abu Dhabi e Roma. «Secondo loro noi avremmo dovuto mettere i soldi e basta, mentre le decisioni strategiche della compagnia le avrebbero prese gli italiani senza peraltro nemmeno sapere cosa stavamo facendo come Etihad e come sistema di compagnie aeree sparse nel mondo». Per questo, spiega, da subito negli Emirati hanno deciso di «presidiare» le riunioni più rilevanti. «Quando siamo arrivati a Fiumicino abbiamo visto una compagnia con sistemi informatici vecchi — attacca —, gente con incarichi importanti che a malapena sapeva fare il suo lavoro messa lì abbiamo scoperto dopo perché caro a un certo politico, hostess che in classe Business non si curavano dei clienti, passando a chiedere se desideravano qualcosa da bere, ma se ne stavano a chiacchierare tra di loro». Le cose non sono migliorate tantissimo nemmeno dopo. «Per mesi le piattaforme di prenotazione delle due compagnie non si “vedevano”: noi non sapevamo quanti posti liberi ci fossero sui voli di Alitalia e viceversa, bisognava mandare una mail o chiamare il telefono e la metà delle volte gli italiani nemmeno rispondevano».

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«Il mio giorno più difficile»

Subito dopo l’esito del referendum il governo esprime «rammarico e sconcerto». È anche il giorno più difficile del suo mandato per l’allora presidente del Consiglio Paolo Gentiloni come ha raccontato lui stesso a Lilli Gruber su La7 tempo dopo. Del resto la società ha costi vivi pari a 217 milioni di euro al mese, compresi 51 milioni per la manutenzione e 35 milioni per pagare il noleggio degli aerei. Il «day after» su decine di profili social dei lavoratori di Alitalia — piloti e assistenti di volo soprattutto — compaiono aerei, simboli e loghi della compagnia, ma anche le divise vecchie, precedenti a quelle volute da Etihad. «Indietro non possiamo tornare», dice l’allora ministro dei Trasporti Graziano Delrio. «Qualcuno si è convinto che ci sarebbe stato l’ennesimo salvataggio pubblico. Lo dico chiaramente: non ci sarà».

La reazione politica

Nei giorni di «interregno» tra il referendum e l’inizio dei quattro anni di gestione commissariale i commenti politici sono centinaia. «Nella vita c’è un momento in cui bisogna saper dire basta e con Alitalia siamo al basta», scrive su Facebook il sindaco di Milano Beppe Sala. «La compagnia è costata alle nostre tasche 7 miliardi: immaginate quanti nuovi posti di lavoro si sarebbero potuti creare con queste risorse». Intanto per Calenda il prestito ponte si dovrebbe aggirare sui 300-400 milioni di euro. «Alitalia può stare sul mercato se efficientata e con una nuova filosofia industriale che vada sul cargo e sul lungo raggio», propone Luigi Di Maio, ai tempi vicepresidente M5s alla Camera (poi diventerà ministro dello Sviluppo economico). «Su Alitalia non possiamo cavarcela con la sua liquidazione», interviene Andrea Orlando da ministro della Giustizia. «Non sono per la nazionalizzazione, ma un ruolo del governo per trovare un partner ci deve essere». Orlando ora guida il dicastero del Lavoro, altro centro nevralgico nella gestione degli ammortizzatori sociali dei dipendenti di Alitalia.

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I confronti poco vincenti

Alitalia è «il simbolo della mala gestione che attanaglia l’intero sistema Paese», dichiara Giancarlo Giorgetti, vice-segretario della Lega Nord (quattro anni prima di diventare ministro dello Sviluppo economico). Che denuncia anche l’atteggiamento dell’Europa «forte con i deboli e debole con i forti» e suggerisce di «utilizzare il commissariamento per valorizzare al massimo gli asset aziendali in una logica congrua di mercato». Mentre Matteo Renzi elogia «l’operazione Meridiana» risolta dall’ingresso di Qatar Airways consentendo all’azienda di «avere una prospettiva di sviluppo». Ribattezzata Air Italy nel 2018, l’ex Meridiana finisce in liquidazione nel febbraio 2020. Intanto da Kuala Lumpur l’ad di Malaysia Airlines si candida a prendere in leasing alcuni degli Airbus A330 di Alitalia. Il vettore asiatico ora è in difficoltà finanziarie. L’ad di Air Berlin — altra società nella quale ha investito Etihad — dice che tra loro e Alitalia «ci sono grosse differenze» e che al contrario del vettore tricolore la ristrutturazione di quello tedesco «è avvenuta fianco a fianco tra management e sindacati». Sei mesi dopo Air Berlin chiude i battenti.

I commissari e le casse vuote

Il 2 maggio 2017 il ministero dello Sviluppo economico nomina tre commissari: Luigi Gubitosi, Enrico Laghi e Stefano Paleari. «La prima parte dell’amministrazione straordinaria è stata molto tranquilla», ricordano dirigenti e dipendenti. «Gubitosi era più un amministratore delegato che un commissario, era un capo azienda riconosciuto da tutti e aiutato dagli altri due commissari». I numeri non sono per niente buoni. I debiti al 28 febbraio ammontano a oltre 3,5 miliardi tra passività correnti e non correnti a fronte di attività per 921 milioni. Soltanto nei primi due mesi del 2017 la compagnia ha perso 203,3 milioni di euro, quasi la metà del rosso dell’anno prima. Alla fine di aprile l’azienda ha in cassa 83 milioni di euro, di cui 74 direttamente disponibili. Alitalia intanto ha già venduto oltre 4,5 milioni di biglietti per un controvalore di circa 531 milioni di euro. È un debito perché il servizio è stato già venduto e deve essere erogato. Solo che i fondi a disposizione consentono di far volare gli aerei per non più di due settimane, costringendo allo stop poco prima di metà maggio. La Iata, la principale associazione internazionale delle aviolinee, teme il fallimento e chiede 118 milioni di garanzia. Il prestito ponte sale così a 600 milioni. È solo la prima tranche.

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Le manifestazioni d’interesse

I commissari iniziano a sondare i potenziali compratori. Durante l’estate arrivano 33 manifestazioni d’interesse: in tredici accedono alla seconda fase, quella che consente di visionare in data room i conti più riservati. Ci sono Delta Air Lines, Lufthansa, Etihad, British Airways, Ryanair, easyJet e Air France. Ad agosto si fa avanti anche il fondo che gestisce l’aviolinea inglese Monarch Airlines per comprare alcuni pezzi di Alitalia. Due mesi dopo la compagnia fallisce lasciando oltre 110 mila inglesi bloccati nelle località di vacanza e senza più un volo per rientrare nel Regno Unito. A settembre Ryanair annuncia di voler presentare entro ottobre la sua offerta vincolante per comprare Alitalia, soprattutto per il lungo raggio. Pochi giorni dopo però è costretta a cancellare migliaia di voli ufficialmente per un problema nell’organizzazione delle ferie dei piloti e dei turni di lavoro, ma dietro si cela lo scontro con i sindacati di mezza Europa che chiedono di essere riconosciuti e di tutelare le protezioni minime dei loro iscritti. A quel punto salta l’invio della busta: ci sono altri problemi da risolvere.

Altri 300 milioni e le cordate

Il governo porta in dote altri 300 milioni di prestito ponte, innalzando la liquidità immessa a 900 milioni di euro. A dicembre tocca a easyJet proporre la sua candidatura. «La nostra offerta per Alitalia è la migliore perché la compagnia perde soldi nel medio-breve raggio e noi su questo siamo estremamente competenti», dichiara Frances Ouseley, allora direttore Italia della low cost britannica e oggi membro del consiglio di amministrazione di ITA, la newco pubblica creata per rilanciare Alitalia. Nel gennaio 2018 parte un nuovo giro della procedura di cessione. Spunta l’ipotesi di un consorzio Delta-Air France-Klm-easyJet. Lufthansa — che da sempre è stata ambigua sul suo ruolo — si affaccia in modo un po’ più convinto. Spunta anche il fondo Cerberus.

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Le elezioni e il crollo del ponte

Intanto a marzo tocca alle elezioni politiche. Stravince il Movimento 5 stelle, il centro-destra è la coalizione più votata, il Pd perde. Bisognerà aspettare il 1° giugno per avere il governo giallo-verde (M5s-Lega) guidato da Giuseppe Conte. Nel frattempo i commissari di Alitalia chiedono di consegnare delle offerte vincolanti. Arrivano tre buste, che però vincolanti non sono. Una è quella che mette insieme Delta-Air France-Klm-easyJet-Cerberus, l’altra è di Lufthansa, la terza di Wizz Air. La soluzione tedesca è quella preferita da Calenda. Il tempo scorre inesorabile. In mezzo all’estate si inizia a parlare di un ruolo di Ferrovie dello Stato, intanto al ministero dello Sviluppo economico si insedia Luigi Di Maio che non esclude un ruolo da azionista — di minoranza — dello Stato nella nuova Alitalia. Il 14 agosto a Genova crolla il ponte Morandi (43 morti) lungo il tratto gestito da Autostrade per l’Italia: è un aspetto da tenere presente perché questo vuol dire Atlantia che è proprietaria di Aeroporti di Roma, gestore dell’hub di Alitalia.

L’abbandono di Air France

FS inizia a cercare un partner industriale e a fine ottobre presentano un’offerta vincolante. Le altre proposte sono di easyJet e di Delta. Lufthansa fa un passo indietro, monitorando la situazione. FS e Delta (alleata di Alitalia nel traffico transatlantico) si parlano, poi si aggiungono Air France e Klm per provare a blindare la partnership. Si discute delle quote di ciascuna società nella nuova aviolinea tricolore, ma la politica ribalta il tavolo. Nel gennaio 2019 il governo italiano e il presidente francese Macron litigano a distanza. Di Maio accusa la Francia di «impoverire l’Africa». «L’Italia merita altri leader», replica Macron. «Parigi pensi a restituirci i terroristi», rintuzza Salvini. «Non aveva più senso per noi andare avanti a discutere di un investimento — peraltro già fatto in passato e con pessimi risultati — che avrebbe richiesto l’ok politico nel mezzo della guerra diplomatica», ricorda un manager di Air France. E così i franco-olandesi (che hanno una quota importante dei rispettivi Stati) se ne vanno.

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Da Delta ad Atlantia

Altro giro di consultazioni. FS e Delta contattano easyJet, immaginando così una nuova Alitalia intermodale. Ma stavolta la low cost britannica fa capire di essere interessata alle attività attorno a Milano dove ha intanto costruito il suo principale hub continentale che è anche l’area più ricca del Paese. È un ostacolo. Che però viene superato perché a metà marzo easyJet abbandona il progetto. A quel punto si lavora sul coinvolgimento del ministero dell’Economia e delle finanze che avrebbe dovuto avere una quota del 15%, oltre al 30% di FS e il 10% («o fino a 100 milioni di euro») di Delta. Manca comunque quasi la metà dell’azionariato e per questo si guarda ad Atlantia. A luglio 2019 — dopo mesi di esitazioni, smentite pubbliche e incontri privati, studi di fattibilità, consulenze — si inizia ufficialmente a ragionare sulla cordata FS-Atlantia-Mef-Delta.

Il quinto commissario

Sembra la svolta, anche se sui lavori si allunga l’ombra del ponte Morandi e della possibile revoca delle concessioni autostradali. La manifestazione d’interesse viene attesa dai commissari la seconda settimana di agosto, comunque prima dell’anniversario del crollo, «così da lanciare il messaggio che la vicenda Alitalia e quella delle concessioni erano slegate», ricostruisce una fonte istituzionale. Ma l’invio della busta slitta agli ultimi giorni di agosto, quindi a inizio settembre e poi a fine mese. I dissidi non sono pochi. Non si trova l’accordo sul piano industriale di rilancio e sulle quote azionarie: Delta non vuole spendere più di 100 milioni. Atlantia ritiene il business plan di FS-Delta poco praticabile. In autunno la cordata naufraga. A dicembre il governo cambia i commissari (Gubitosi nel frattempo è stato sostituito da Daniele Discepolo): al loro posto ne arriva uno, Giuseppe Leogrande, che nomina direttore generale Giancarlo Zeni. Si conoscono bene: entrambi hanno gestito il commissariamento di Blue Panorama, poi venduta al gruppo Uvet. L’esecutivo eroga altri 400 milioni di euro. Il totale dei soldi prestati sale a 1,3 miliardi. Entrambi i versamenti diventano due indagini Ue per aiuti di Stato non consentiti.

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L’ultimo bando

Il 5 marzo 2020 —quando in Italia ci sono già i primi contagi e decessi — il commissario Leogrande pubblica un nuovo bando di vendita di Alitalia e la sua divisione regional CityLiner. Arrivano otto offerte — chi per rilevate tutta la società, chi solo un pezzo —: si fanno avanti Almaviva (dedita soprattutto ai call center), Synergy Group dell’ex presidente del vettore di Avianca Germán Efromovich e una società USAerospace Partners, un agglomerato di «società specializzare nell’aviazione». Efromovich inizia a fare abbastanza rumore già dall’estate 2019. Nel maggio successivo, in piena pandemia, mette sul piatto un miliardo di euro e promette pochi esuberi. Un mese dopo USAerospace rilancia con un miliardo e mezzo di investimento. Ma gli americani non convincono le istituzioni italiane, mentre Efromovich viene coinvolto assieme al fratello in Brasile nell’ambito di quella che è la «Mani pulite» del Paese (ma sono stati scagionati da ogni atto di corruzione dalla Corte suprema di giustizia locale il 2 marzo 2021).

La newco ITA

Ma il governo ha altri piani: decide di creare una nuova società pubblica e a fine giugno, con un post su Facebook, l’allora premier Giuseppe Conte annuncia i vertici: Francesco Caio diventerà presidente e Fabio Lazzerini (fino a quel momento Chief business officer di Alitalia) sarà amministratore delegato. Passano i mesi, la newco nasce ufficialmente con il nome di Italia Trasporto Aereo. A dicembre viene presentata la prima bozza del piano industriale e intanto vanno avanti le interlocuzioni con la gestione commissariale per la cessione di alcuni rami dell’azienda: in mezzo ci sono le interlocuzioni con la Commissione europea che deve anche dare il via libera stabilendo la discontinuità aziendale. Con l’arrivo del governo di Mario Draghi e un nuovo capo al ministero dello Sviluppo economico (Giancarlo Giorgetti) il commissario Leogrande viene affiancato da Gabriel Fava e Daniele Santosuosso che accompagnano Alitalia a spegnere le quattro candeline di amministrazione straordinaria.

lberberi@corriere.it

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