LA POLEMICA
Il premio a Peter Handke: superatoOggi l’influencer pesa più del Nobel
di Antonio Scurati
Oggi gli scrittori hanno perduto ogni influenza e i giornali non fanno che riflettere l’opinione. Quanto agli uomini di Stato, lungi dal dirigere la folla, essi non cercano che di seguirla. Lo scriveva Gustave Le Bon all’inizio del Novecento. Se ciò che affermava nel suo celebre Psicologia delle folle era solo parzialmente vero allora, lo è totalmente adesso, un secolo dopo. Le polemiche scaturite dal Nobel a Peter Handke andrebbero ricondotte a questa profetica intuizione di Le Bon che collega il declino sociale dell’intellettuale all’ascesa dei nuovi leader populisti, di cui ci fornisce una definizione perfetta.
Non intendo approfondire il «caso Handke». Non lo trovo interessante. Dopo aver idealizzato i serbi di Bosnia quali ultimi oppositori di un Occidente corrotto dal capitalismo consumistico e imperialista, lo scrittore austriaco si spinse fino al punto di negarne i crimini di guerra. In questa forma estrema, e deprecabile, di accecamento ideologico, Handke è un residuo del secondo Novecento, l’epoca in cui l’impegno sociale dello scrittore d’Occidente s’intendeva come militanza oltranzista sotto una bandiera politica anti-occidentale (quasi sempre quella comunista). Anche la difesa di chi invoca, a sua discolpa, la separazione tra sfera artistica e sfera politico-morale è una scoria novecentesca. I custodi dei sommi valori della purezza formale dell’opera letteraria non fanno che prolungare un’ideologia avanguardistica che si giustificava solamente nell’ottica di un’arte intesa come anticipazione di un mondo a venire — un modo migliore, ovviamente. Lo «stile» così inteso è spesso diventato l’ultimo rifugio delle canaglie. Anche da questo punto di vista, Peter Handke è uno scrittore del secolo scorso e il dibattito sul Nobel assegnatogli in Svezia è un dibattito del secolo scorso.
Più interessante riflettere su quanto accaduto all’altro premio Nobel di quest’anno, la scrittrice polacca Olga Tokarczuk. Per sua natura lontana da provocazioni e ideologismi, la Tokarczuk è stata insignita del Nobel alla vigilia delle elezioni politiche e si è subito pronunciata, con argomenti solidi e ragionati, contro il partito di Governo — un partito populista di una destra nazionalista, aggressiva e antiliberale — il quale ha, poi, stravinto le elezioni. I polacchi hanno bellamente ignorato la perorazione progressista e democratica della loro insigne concittadina.
Qui si apre la questione più interessante, che riguarda la perdita d’influenza sociale dello scrittore — e, più in generale, dell’intellettuale — all’alba di questo nuovo secolo. La figura dell’intellettuale prospera nel Novecento grandioso, tragico, totalitario, il secolo che obbliga «tutti quelli che stavano alla finestra a scendere in strada» e declina nel Ventunesimo, secolo del privato, del comico, fintamente democratico, affacciato alla finestra degli schermi digitali. Per un po’, l’intellettuale ottiene ancora qualche ruolo da protagonista poi soltanto comparsate da caratterista. A essere emarginato è soprattutto il letterato. Sembra soccombere nella competizione storica tra diversi media. Se nell’Ottocento il romanziere compete con i giornali del mattino, nel secondo Novecento dovrà competere prima con la televisione e poi con internet. Il letterato esce sconfitto dal conflitto mediatico per l’uomo, la lotta fra i diversi media e le relative strategie di comunicazione dell’umano. Il medium del libro, con i suoi effetti individuali di inibizione delle pulsioni erotiche e aggressive prodotte dal silenzioso, prolungato, paziente, introspettivo esercizio della lettura, cede il passo allo scatenamento pulsionale della disinibizione spettacolare. La televisione e internet generano un cosmo autoderisorio, sovraeccitato e simbolicamente violento che prolunga il generale declino dell’uomo pubblico. Un mare magnum della comunicazione in cui non si nuota, si sguazza. Il professionista della parola meditata, ragionata, raffinata e sapiente si smarrisce nella chiacchiera isterica, nel vociare narcisistico, sopraffatto del teatro delle opinioni che sottrae terreno alla verifica e all’argomentazione, fa cadere l’aspetto concettuale di ogni discorso, censura ogni sporgenza creativa, fonda il potere della parola solo sulla ricerca dell’effetto e sulla mozione degli affetti.
La domanda da porsi non verte più, quindi, sulla complicata dialettica tra autore e opera, talvolta discordanti. La domanda è un’altra: che ne sarà dell’influenza degli scrittori/autori nell’era degli influencer? Di questi professionisti dell’influsso mediatico nonostante la loro totale mancanza di opere, anzi, proprio in virtù di tale mancanza. I cosiddetti influencer sono, infatti, individui privi di individualità — di idee, saperi e parole proprie — nei quali si verticalizza, in picchi milionari, la sconfinata orizzontalità della rete. Non portano sapere, originalità, novità, profondità, non fanno nemmeno opinione ma la ricevono. Anche se appaiono come leader, sono in verità — nel campo politico come in quello del costume — meri portavoce della vox populi(sta). Più è elevato il numero dei loro follower e più gli influencer sono obbligati a seguirli. Sono follower dei propri followers. Che ne sarà, insomma, della voce pubblica in cui risuona la parola «pesante» della letteratura, il suo de profundis clamavi, nell’era della loquacità di massa, nell’aria del tempo nuovo, ammorbato da flatulenze vocali?
Ma attenzione: su questi interrogativi la questione si apre — ed è, credo, di portata epocale — non si chiude su di un giudizio morale.