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11 giugno 2019 - 22:06

Politica e toghe, bloccate le porte girevoli

di Sabino Cassese

Grande è lo sconcerto per quel che è accaduto e per quel che sta accadendo al Consiglio superiore della magistratura (Csm). Di quel che è avvenuto non colpiscono solo le divisioni interne, gli intrighi, lo stile delle negoziazioni, i rapporti con i politici, ma anche e soprattutto il fatto che più di un magistrato trattasse la scelta delle persone da nominare per influenzare l’azione degli organi, così negando la stessa ragion d’essere del Csm, quella di separare governo delle carriere da attività giudiziaria o requirente. Di quel che sta accadendo colpisce il ricorso a questa stramba invenzione italiana dell’autosospensione, che consisterebbe nell’astenersi dal partecipare all’attività di un organismo di cui si fa parte, violando così i doveri d’ufficio e aggirando il dilemma tra restare o dimettersi. I magistrati stanno sperimentando, al livello più alto, i danni che producono con la divulgazione di notizie non seguite immediatamente da accertamenti e decisioni, per cui l’opinione pubblica rimane perplessa e diminuisce la fiducia nella giustizia. Sarà bene, quindi, che si concludano rapidamente le indagini in corso e che chi giudica dall’esterno maneggi con cautela quel poco che si sa sull’accaduto. Si può, invece, tranquillamente dire che il Csm ha bisogno di un riordino.

L’organo è configurato dalla Costituzione come una sorta di direttore generale collegiale: si interessa di assunzioni, assegnazioni agli uffici, trasferimenti, promozioni, provvedimenti disciplinari dei magistrati. Con il tempo, è andato al di là dei sui compiti: è divenuto l’«organo di autogoverno» di giudici e procuratori. Si è quindi parlamentarizzato. Come nei parlamenti vi sono i partiti, nel Consiglio vi sono le correnti. Come i partiti, le correnti hanno svolto inizialmente una utile funzione, perché erano divise da ideali diversi. Poi sono scadute a organizzazioni di interessi. Ora sono frantumate, riflettendo ancora una volta la vicenda dei partiti. Più la macchina del Csm diveniva complessa, meno di essa potevano interessarsi i presidenti della Repubblica, che sono anche presidenti del Csm. Infatti, essi hanno presieduto di fatto un numero decrescente di sedute, con l’eccezione di Segni.

Ciò che lega le correnti – o, meglio, quello che resta di esse – è ora la spartizione del potere di nomina. Basta osservare come si sono svolte le ultime elezioni, quelle del 2018. I 16 componenti provenienti dalla magistratura (cosiddetti togati) sono eletti, a seconda delle funzioni svolte, in tre collegi nazionali diversi. I magistrati sono poco meno di 9.500. I votanti sono stati poco più di 8.000. I voti sono stati così concentrati che solo cinque candidati (tre in un collegio, due in un altro, nessuno nell’ultimo) non sono riusciti. Le schede bianche e nulle sono state 500 in due collegi, 1.000 in quello dei pubblici ministeri. Le divisioni tra magistrati, quindi, si annullano ed essi ritrovano una grande compattezza quando si tratta di dividersi i posti nel Csm, nel quale ogni eletto rappresenta il proprio elettorato.

Pur con questi vizi, il Csm ha acquisito numerosi meriti: ha salvaguardato la selezione per concorso all’accesso alla magistratura; ha operato come occhiuto guardalinee quando qualche partito voleva intromettersi troppo negli affari di giustizia; è riuscito a portare una persona da tutti stimata (Pignatone) alla Procura di Roma e diversi altri magistrati integerrimi ed esperti a capo di uffici giudiziari. Ha fallito, invece, sia sui tempi della giustizia (che dipendono in larga misura dai capi degli uffici), sia sulla politicizzazione endogena, quella che viene da dentro, alimentando le carriere politiche di alcuni magistrati.

Come se ne esce? Non con il sorteggio, perché non necessariamente un bravo magistrato è anche un bravo amministratore. Piuttosto evitando che la scelta dei componenti sia fatta tutta in una volta, ogni quattro anni. Con scadenze diverse si eviterà che le correnti abbiano un peso eccessivo e si assicurerà una maggiore continuità dell’organo. Stabilendo, poi, procedure «aperte» per le nomine, in modo che siano noti i «curricula» dei candidati e che questi vengano ascoltati. Infine, eliminando le porte girevoli tra politica e magistratura, per evitare gli attuali conflitti di interessi. Questo almeno va fatto subito, prima che la crisi dell’organo alimenti nuova sfiducia nelle istituzioni. Quando l’attuale vicenda sarà chiusa (si spera presto) si potranno considerare più profondi cambiamenti.

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