6 dicembre 2019 - 07:43

Allegri: «Vedo in giro troppi filosofi del calcio. Io torno l’anno prossimo»

L’ex tecnico della Juve: «L’occhio dell’allenatore conta più della tecnologia. I miei consigli inascoltati a Giampaolo. Gli equivoci generati da Guardiola e Sacchi. E io torno l’anno prossimo»

di Mario Sconcerti

Allegri: «Vedo in giro troppi filosofi del calcio. Io torno l'anno prossimo» Massimiliano Allegri (Ciamillo e Castoria)
shadow

Massimiliano Allegri, com’è il calcio visto da fuori?

«Ci sono due cose sopra le altre: la prima è che i giocatori africani stanno spostando il calcio sul lato fisico. La qualità resta fondamentale, ma la base del calcio sta cambiando. La seconda è che sto rivedendo un grande ritorno del contropiede».

Contropiede?

«Sì, abbiamo seguito per vent’anni Guardiola equivocando. Guardiola raccontava solo la sua eccezione, non era un calcio per tutti. Il Barcellona storico nasce con tre grandi giocatori che pressano alti e spingono le difese avversarie dentro la loro area. Così a sua volta i centrocampisti salgono e si inseriscono e la tua difesa può arrivare a metà campo. Ma devi avere Iniesta, Xavi e Messi. Noi abbiamo preso come lezione comune un argomento che riguardava solo loro».

E il contropiede?

«È uno dei miei argomenti sensibili. Quando sento Sacchi che parla di tenere il pallone e avere atteggiamenti propositivi non capisco cosa dica e mi arrabbio. Perché non dovrebbe essere propositivo giocare in verticale, perché dovrebbe esserlo fare venti passaggi di un metro? Ho visto venti volte le partite di Sacchi, ricordo quella a San Siro in cui il suo Milan segnò cinque gol al Real. Giocava dritto per dritto, come un fuso. Mentre il Real si scambiava con calma il pallone. Era un Milan verticale, esattamente di contropiede, che non è facile da farsi ma quando riesce è un grande spettacolo».

Cosa pensa del calcio di Klopp?

«La base è la stessa del vero calcio moderno, avere tre attaccanti che pressino continuamente la difesa, la tengano chiusa dentro l’area. Se hai Mané, Salah e Firmino devi andare per forza per linee verticali. Klopp ha capito questo e anche che gli attaccanti vanno protetti in tutto il loro lavoro. Quando era al Dortmund prendeva molti più gol, me lo ricordo. Ma anche lui fa un gioco verticale, scatta continuamente, cerca spazio non di lato ma alle spalle dell’avversario. Non capisco perché ci si debba vergognare di avere inventato noi questo modo di giocare. Una cosa è difendersi per portare via un pareggio, quando il pareggio valeva la metà di una vittoria. Altra cosa è guidare l’attacco dalla difesa, cercare lo spazio in modo diverso. Non è un risparmio, è un altro modo di investire».

Proseguendo nel riesame, ci sono altre scoperte interessanti?

«L’importanza dei giocatori e il vero ruolo dell’allenatore».

In che senso il vero ruolo?

«Che non esistono gli schemi, non esiste l’intelligenza artificiale, conta l’occhio del tecnico. Da gennaio metteranno i tablet a disposizione della panchina. Saprai quali sono i percorsi di campo più frequentati. Per fare cosa? Per riassumere in una frase quello che ho già visto. Il calcio è un campo, non un universo. Le cose si trovano, si toccano, non importa essere troppo elettronici. Serve un allenatore che sappia fare il suo mestiere la domenica, quello è il giorno in cui bisogna essere tecnici. Il resto tocca ai giocatori, alla loro diversità. Oggi giro, vedo il calcio dei ragazzi, dei dilettanti, parlo con i loro allenatori e sento cose che mi spaventano, parlano come libri stampati, come le televisioni, sono gli slogan più frequenti riversati su ragazzi che a loro volta scambieranno il calcio con un’altra serie di slogan».

Che cosa intende allora quando parla di semplicità del calcio e di logica dei ruoli?

«Faccio un esempio. Koulibaly, Manolas e Albiol, tre grandi giocatori allenati da un tecnico, Ancelotti che stimo moltissimo. Il professore lì in mezzo era Albiol, per caratteristiche tecniche, cioè per letture di situazioni, per capacità di intuire il progresso delle azioni. Koulibaly è eccezionale fisicamente, meno sotto l’altro aspetto. Manolas è bravissimo sull’uomo, meno ancora propenso di Koulibaly all’idea collettiva. Voglio dire che il calcio secondo me è capire questo, le singole doti applicate alle situazioni singole. Non uno schema fine a se stesso. Un uomo che si integra e si completa con un altro fino a fare un reparto. Questo non te lo dice un numero, un tablet o un algoritmo. O lo senti da solo o non capirai mai la partita. Per questo sono convinto che l’allenatore si riconosca solo il giorno della partita».

Manca ancora qualcosa?

«I dirigenti. Abbiamo vissuto di intuito per molti anni, ora è tempo di costruirli. Non immaginiamo cosa significhi per un allenatore avere al fianco gente come Galliani o Marotta. Per me fu decisivo già Cellino ai tempi del Cagliari. Il calcio è troppo una via di mezzo: si prendono manager bravissimi che non lo conoscono, o gente di calcio che non è un vero manager. Io l’ho detto a Coverciano, dobbiamo aprire al futuro, preparare continuamente la nuova classe dirigente. Servono corsi su corsi, esami duri, riscontri di competenze specifiche. Diamo Coverciano in mano alle grandi menti del calcio: faccio due nomi, Lippi e Capello, hanno fatto tutto nella loro carriera e sono ancora giovani. Basta con gli amici degli amici. Se non avremo buoni dirigenti non avremo nemmeno buoni allenatori. Infatti non sappiamo più a chi dare le grandi squadre. Dobbiamo chiedere ai migliori di darci una mano. Aver fiducia nella qualità più che sulla buona volontà».

E cosa le hanno risposto?

«Semplicemente no».

La Nazionale però sta risorgendo...

«Ho trovato Salsano qualche giorno fa, l’ho pregato di fare i miei complimenti a Mancini. Sta facendo un lavoro ottimo. E sa perché?».

Perché è bravo?

«Certamente, ma quello lo è sempre stato. Ma ora è un’altra persona, è diventato severo, serio...».

Prima non lo era?

«Ma certo che lo era, ora però è cambiato. Ora parla di calcio con tutti, gioca semplice. È un maestro. Mentre il nostro è un mondo di professori».

Per esempio?

«Non è un esempio, è un ricordo. Questa estate ero a Pescara con Galeone e Giampaolo, fatale che parlassimo di calcio. Dissi a Giampaolo: “Marco, non ti do consigli, ma una cosa voglio dirtela. Sei al Milan, non è da tutti. Non fare una squadra di fighetti perché ti spaccano in due. Non è quello lo stadio per scherzare. Vuoi un fantasista centrale? Non è Suso. Ma Suso è un gran bel giocatore. Sintetizza, adattati. Il calcio è di tutti. Se non hai il regista che cerchi, niente ti vieta di giocare con due mediani nel mezzo”. L’importante è la qualità dei giocatori. È lì che un allenatore non deve transigere, sulla competenza dei dirigenti, che è il vero problema del nostro calcio».

È la vecchia malattia di essere tutti filosofi?

«Se i filosofi sono bravi, perché no? Il problema è il risultato, cioè la realtà. Lo ottieni o no? Io a casa non ho nemmeno un computer, uso l’iPhone come un telefono e basta. Ma se guardo calcio so cosa vedo. E mi nascono mille idee. Siamo ancora più forti noi della tecnologia».

Quando tornerà?

«La prossima stagione. Non prima».

E le sue domeniche?

«Le passo a guardare calcio. La mattina in giro per il Piemonte dietro a mio figlio, otto anni, tornei di calcetto. Poi pomeriggio e sera davanti alla televisione. E alla fine della giornata mio figlio mi dice che comunque farà il pilota di Formula 1».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALTRE NOTIZIE SU CORRIERE.IT