4 febbraio 2019 - 09:40

Tennis, birra, eroina e soldi (buttati): la vita spericolata di Roberto Palpacelli è diventata un libro

In esclusiva, l’anticipazione di alcune pagine de «Il Palpa. Il più forte di tutti», l’autobiografia (in libreria dal 5 febbraio) che Roberto Palpacelli, il grande campione mancato del tennis italiano, ha scritto insieme a Federico Ferrero

di Roberto Palpacelli (con Federico Ferrero)

Tennis, birra, eroina e soldi (buttati): la vita spericolata di Roberto Palpacelli è diventata un libro
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Arriva nelle librerie «Il Palpa. Il più forte di tutti», racconto autobiografico della vita di Roberto Palpacelli: ovvero il più grande campione mancato del tennis italiano. Un libro nato da un articolo pubblicato da Federico Ferrero sulla rivista «Il tennis italiano» e in parte su corriere.it nell’aprile del 2018. La storia del tennista su cui giravano leggende di ogni tipo (che avesse battuto Boris Becker, che a 16 anni, per dare interesse a una partita senza storia, prese a colpire smash con il manico della racchetta fino a perdere il match, che a diciassette anni abbia buttato la grande occasione facendosi cacciare dal ritiro della Nazionale per eccesso di confidenza con l’alcol e con un gruppetto di giovani svedesi, che sia finito a giocare in India su campi di sterco di vacca prima di bruciare in due settimane i soldi di un mese e dover tornare precipitosamente a casa) diventò subito un caso. Adesso è un volume, scritto a 4 mani dalla coppia Palpacelli-Fererro, pubblicato da Rizzoli (224 pagine, 18 euro, ebook 9,99 euro). Ne anticipiamo in esclusiva alcune pagine.

Prologo

So di non essere un esempio. Non voglio esserlo: credo che, per un genitore, poche cose possano dare più dolore di un figlio che scivola nella fogna degli stupefacenti e dell’alcolismo. Penso anche, però, che una persona non possa essere ridotta ai suoi difetti e ai suoi errori. Ho sbagliato, ho vissuto di rendita sul mio talento. Ho voluto andare a duecento all’ora, come la palla di servizio che tiravo a sedici anni, ho scelto di fare il ribelle. Ne ho pagato le conseguenze.
C’è una frase che ho sentito dire poco tempo fa e che mi è piaciuta molto: chi da giovane sceglie solo di divertirsi perché non capisce il motivo di doversi impegnare in faccende difficili e noiose, si condanna da adulto a non divertirsi mai. È vero. Ora, guardandomi indietro, capisco che è andata davvero così. È divertente correre a tutta velocità, camminare sull’orlo del precipizio e guardare il vuoto sotto di te. Ti fa sentire vivo, ti fa sentire immortale. Ci sono stati periodi in cui guadagnavo come un dirigente d’azienda, e non dovevo fare nessuna fatica per portare a casa quei soldi: passavo settimane intere senza allenarmi e scendevo in campo regolarmente ubriaco. Al cambio campo, il pubblico mi vedeva tirare fuori dalla borsa una bottiglia di birra. Ma vincevo. Tranne quando evitavo del tutto di scendere in campo, perché non ne avevo nessuna voglia. Ho pure comprato la stessa moto nera di Vasco Rossi, degno coronamento della mia vita spericolata. Non mi interessava niente, se non l’attimo che stavo vivendo.
Ma non puoi avere vent’anni per sempre. I soldi che ho guadagnato li ho spesi. Il mio fisico, che per anni ha sostenuto qualsiasi mia richiesta, ora sta chiedendo il conto. Adesso non ho titoli, non ho denaro, non possiedo nulla. Neanche un conto corrente.

San Maledetto (capitolo 2)

Tennis, birra, eroina e soldi (buttati): la vita spericolata di Roberto Palpacelli è diventata un libro

Negli anni Ottanta, San Benedetto, dopo Verona, era considerata la città più tossica d’Italia. Essendo una località marittima, era facile circolassero sostanze in arrivo da chissà dove. E poi la gente di mare fa una vita durissima, quasi nessuno è istruito, e presto si impara che con la droga in circolo non si sentono la stanchezza, il caldo, il freddo…
La città stava vivendo anni particolari, una specie di Dopoguerra civile. A pochi chilometri, nel paese di Porto San Giorgio, era nato e cresciuto uno dei brigatisti più famosi d’Italia, Mario Moretti; a cento metri da casa mia vivevano i fratelli Peci, Patrizio e Roberto. Patrizio era stato il primo pentito della Brigate rosse e l’anno dopo, nel 1981, a due passi dalla rotonda, i suoi ex compagni avevano rapito il fratello Roberto, uccidendolo per vendetta. Noi sapevamo tutto, la mamma di Peci la vedevamo tutti i giorni a fare la spesa, ma eravamo di un’altra generazione: della politica non ci fregava nulla, così come delle assemblee, dei sindacati, dei sermoni sul bene comune. Non ci era stata insegnata alcuna ideologia, l’unica cosa che avevamo imparato era stare bene e pensare a noi stessi.
Nel giro di qualche mese di vita a San Benedetto, per me, il tennis era diventato una specie di scusa per fare sosta alla rotonda della fontana. Ricordo ancora il pomeriggio della mia iniziazione, chiamiamola così: c’era una discoteca sul litorale che stava aperta di giorno e chiudeva alle nove della sera. Quel giorno arrivai e, prima di entrare, mi fermai davanti a una specie di chiosco-bar: ora al suo posto c’è un ristorante giapponese, ma allora raccoglieva il peggio del peggio. Mi decisi a farmi avanti. Era come tirare la moneta: o mi accettavano come uno di loro, o mi davano due botte in testa e mi fregavano tutti i soldi. Mi accettarono. Anche perché avevano capito che io ero quel ragazzo mezzo matto che tirava pallate ai duecento all’ora e si allenava tutti i giorni sui campi del Maggioni. Salutai e dissi che volevo provare qualcosa, così, senza preamboli: un tipo, tranquillo e gentile, mi portò ai bagni pubblici e mi fece sniffare dell’eroina.
Fu il mio primo tiro: una sensazione fantastica».

Fuori categoria (capitolo 3)

Roiati, soprattutto nei mesi freddi, mi portava ad Ascoli, perché lì c’erano i campi coperti e ci si poteva allenare anche d’inverno. Ogni tanto mi faceva seguire da Carlo Vittori, il coach della leggenda dell’atletica Pietro Mennea. La prima volta, vomitai l’anima dopo neppure mezza seduta: come riscaldamento, ci aveva fatto impugnare dei bastoncini di ferro da un chilo e poi fatto saltare come dannati, per velocizzare i movimenti dei piedi. Quando stavo per lasciare il campo dopo aver vomitato, mi richiamò per avvertirmi che l’allenamento vero e proprio non era neanche cominciato. Di ritorno da una di quelle giornate sfiancanti, Roiati mi disse che Vittori gli aveva fatto i complimenti. Nei miei confronti.
Quello che so è che cercavo di evitare il più possibile quegli esercizi sfiancanti, anche se Vittori mi aveva insegnato un segreto fondamentale, nel tennis come in tante altre discipline di spazio: il modo in cui coprire il campo. Molti erano attirati da quello che facevo col braccio, ma in realtà tutto partiva dai piedi: mi muovevo come un gatto. Con tre balzi passavo da fondocampo a rete, lateralmente potevo fare destra-sinistra all’infinito, scattare, indietreggiare, attaccare. Avevo le caviglie sottili dello scattista, le spalle larghe, fibre rosse in quantità, massa grassa da maratoneta: tutto regalato dalla natura, io non mi ero guadagnato niente. Anzi, quello che avevo lo stavo già sfasciando, con le mie giornate dissolute. Roiati era un maestro dai metodi innovativi, come quella mazzetta di ferro che si era inventato per far sviluppare un servizio potente ai suoi allievi: non accettava che i suoi ragazzi servissero piano, diceva che la battuta sarebbe diventata un colpo decisivo nel tennis del futuro. E così è stato. Capì prima degli altri che il tennis si stava modernizzando, e fu da lui che sentii parlare per la prima volta di open stance: al contrario degli insegnamenti classici, ora negli Stati Uniti si diceva che per tirare più forte di dritto si dovesse stare non più di fianco alla palla, col peso spostato sulla gamba opposta rispetto al braccio che reggeva la racchetta, ma quasi paralleli alla rete, girando solo le spalle e appoggiando il peso del corpo sulla gamba corrispondente al braccio dominante. Un ragazzo della mia età, Andre Agassi, giocava proprio così, seguendo gli insegnamenti di un coach italoamericano, Nick Bollettieri. E con quella soluzione eretica tirava delle botte micidiali, in barba a cinquant’anni di scuola tradizionale.

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