Per la prima volta, nel 1960, un sottomarino fece qualcosa di impossibile: l’USS Triton circumnavigò il globo senza mai navigare in superficie rimanendo in immersione dall’inizio alla fine dell’esercitazione. A dirla tutta, riemerse una sola volta per cause di forza maggiore. Fino a quel momento, i sottomarini – compresi quelli messi in servizio appena dopo la Seconda guerra mondiale - erano stati progettati per svolgere la maggior parte delle loro attività appunto in emersione, per poi nascondersi solo in caso di attacco. A spingerli, infatti, erano motori diesel raffreddati ad aria. In immersione, invece, batterie a piombo-acido con cui effettuavano appunto le azioni più distruttive. Anche le velocità ne risentivano: arrivavano a circa 20 nodi in superficie e solo 10 in immersione.

La svolta, come ricorda Popular Mechanics, fu possibile grazie alla propulsione nucleare, che fornì al Triton energia senza limiti. Non c’era ovviamente più bisogno di aria per raffreddare i motori che muovevano il mezzo, per cui in linea teorica non ci sarebbe mai stato bisogno di emergere. Per questo anche forme e volumi cambiarono, portando gli scafi a linee più lisce e affusolate, simili a quelle odierne. Un design più efficiente e la nuova propulsione aumentarono di tre volte le velocità sottomarine rispetto ai predecessori.

Nel 1960, dunque, l’USS Triton portò a compimento la cosiddetta operazione Sandblast proprio per dimostrare questa superiorità. Siamo pur sempre in piena guerra fredda, le tecnologie nucleari erano centrali nel confronto Usa-Urss e non a caso la missione era stata pensata proprio in vista del summit parigino del 16 maggio seguente a Parigi fra il presidente americano Eisenhower e quello sovietico Khrushchev, quello poi abbandonato dal secondo dopo gli sviluppi della celebre crisi degli U-2: il primo maggio precedente un aereo-spia U-2 della Cia era infatti stato abbattuto nei cieli sovietici con la cattura e il processo del pilota Francis Gary Powers che sopravvisse all'abbattimento, catturato e processato dai sovietici, condannato a tre anni di prigione e sette di lavori forzati e rilasciato due anni più tardi.

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Lungo oltre 136 metri, il Triton era il più grande costruito in quel momento, pensato per spingersi appunto fino all’Unione Sovietica, nonché il più veloce mai realizzato. Salpò da New London, in Connecticut, il 16 febbraio 1960 anche se l’inizio ufficiale della missione venne fissato al 24 febbraio seguente: il punto di partenza e arrivo prestabilito fu infatti l’arcipelago di San Pietro e Paolo, una quindicina di isolette brasiliane nel bel mezzo dell’Atlantico, a quasi mille chilometri dalle coste di Natal. Seguendo una rotta largamente ispirata a quella intrapresa – e mai conclusa visto che l’esploratore portoghese fu ucciso nelle odierne Filippine - da Ferdinando Magellano fra 1519 e 1521.

La circumnavigazione, agli ordini del capitano Edward L. Beach Jr., durò sessanta giorni, con rientro a New London il 25 aprile seguente per un totale di 26.723 miglia nautiche come rotta e 36mila come distanza effettivamente percorsa. La missione servì anche ad alcuni studi sulle correnti oceaniche nonché alla mappatura dei fondali oceanici grazie alla strumentazione a bordo, sonar ed ecoscandaglio su tutti i dispositivi. Nel corso di 85 giorni totali di durata della missione il sottomarino tornò in superficie una sola volta, per evacuare un marinaio malato. Attraversò l’Equatore quattro volte e mantenne una media di 18 nodi, circa 33 km/h. Il New York Times raccontò l’impresa come “un trionfo dell’abilità umana e delle competenze ingegneristiche, un'impresa che la Marina degli Stati Uniti può classificare come una delle sue brillanti vittorie nell'ultima conquista dell'uomo dei mari”.

Peccato che il sottomarino dei record rimase nella flotta statunitense solo undici anni, visto che lo smantellamento venne avviato già nel 1968. Una parte dello scafo è in mostra a Benton, sul corso del fiume Columbia nello stato di Washington, in un parco dedicato all’epica traversata.

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Simone Cosimi

Simone Cosimi è giornalista professionista, collabora con numerose testate nazionali fra cui Esquire Italia, Italian Tech, La Repubblica, D, DLui, Wired, VanityFair.it, StartupItalia, Centodieci e Radiotelevisione Svizzera. Segue diversi ambiti fra cui tecnologia, innovazione, cultura, politica e territori di confine, spingendo verso un approccio multidisciplinare. Già redattore del mensile culturale Inside Art, per cui ha curato cataloghi d’arte e pubblicazioni come il trimestrale Sofà, ha lavorato in passato, fra gli altri, per Rockstar, DNews, Excite, Style.it e molte altre testate. Speaker, moderatore e saggista, è autore con Alberto Rossetti di "Nasci, cresci e posta. I social network sono pieni di bambini: chi li protegge?" (Città Nuova 2017) e di “Cyberbullismo" (Città Nuova 2018). A gennaio 2020 è uscito il suo terzo libro, “Per un pugno di like-Perché ai social network non piace il dissenso” (Città Nuova).   
 

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