Economia & Lobby

Cara Alitalia, sarebbe ora di misurarsi col mercato senza più il bengodi degli aiuti pubblici

Per un osservatore razionale e smaliziato la nuova Alitalia dovrebbe trovare un mirabile spazio nei musei di scienza naturale (sezione dinosauri alati), piuttosto che negli scali italiani.

Il nuovo vettore ora chiamato Ita (acronimo di Aero Trasporti Italiani che poi per ironia della sorta è palindromo di Ati, storico e sfortunato vettore partecipato da una antichissima Alitalia) infatti ha tutta l’aria di essere una sorta di costosissimo esperimento da Jurassic Park piuttosto che una moderna azienda di trasporto aereo. E il suo piano industriale, seppur ammantato da vaghi slogan modaioli (lavoro agile, svolta green e nuove tecnologie informatiche), è frutto
di concezioni superate con il sottofondo di un consociativismo aziendale indomito e per questo mai sopito (tanto che ora le uraniane e corporative organizzazioni sindacali pretendono il raddoppio delle risorse per far risorgere la aviolinea ‘più bella e più superba che pria’).

Pensare, in un contesto di crisi come l’attuale e con una concorrenza agguerritissima, di mettere in pista da qui al 2025 ben 52 velivoli (che poi sono sempre i soliti ferrivecchi della sua storica flotta arlecchino) su 93 rotte (e non si capisce quali esse siano, essendo tutte le rotte profittevoli già assegnate ed avendo venduto la vecchia Alitalia tutti gli slot di pregio per fare cassa), con un fatturato di 4 miliardi e un risultato netto del 7% (un sostanziale profitto) è frutto più dell’ottimismo della (cieca) speranza che della nitida ragione.

Soprattutto per una compagnia che ha cambiato infinite volte pelle (pubblica, privata, patriottica e quindi nuovamente pubblica) senza mutare la sostanza nella sua cultura aziendale: quella di una fabbrica volante di perdite, che tanto qualcuno coprirà a pié di lista. Un sicuro bengodi per tutti i suoi cosiddetti stakeholders, tra cui gli ottimamente remunerati fornitori che mai hanno sentito pronunciare il grido di battaglia: “spending review”.

Sarebbe forse bene che il Governo e il Ministro dei Trasporti in particolare si rammentassero che con l’esplosione del debito pubblico italiano che si verificherà nel post-Covid non ci sarà più spazio per baloccarsi con aeromodellini e plastici di aeroporti. E che Ita merita di misurarsi nell’agone darwiniano del mercato reggendosi sulle sue gambe, lontano dai pannicelli caldi degli
aiuti pubblici.

Anche perché pare di capire, frequentandoli giornalmente, che i cittadini italiani preferiscano ammodernare 100 ospedali e creare una rete di medicina generale sul territorio in tutta Italia, invece di salvare per l’ennesima (ma non certo ultima) volta una compagnia aerea che finora ha bruciato qualcosa come 13 miliardi di euro. E che non si è ancora ben capito quale sia stato il suo apporto alla ricchezza nazionale, al di là di generiche affermazioni sul fatto che avrebbe
trasportato in Italia centinaia di milioni di turisti americani desiderosi di spendere e spandere soldi nel nostro Paese.

Gli stessi cittadini, invece di pagare una inusuale tassa di imbarco il costo di un cornetto e cappuccino (ma che nel complesso cumula centinaia di milioni l’anno) preferirebbero probabilmente usare quella somma al bar. Ovvero in esercizi commerciali che hanno ora bisogno di immediato sostegno molto di più dei dipendenti del settore del trasporto aereo, che da decenni godono di incredibili ed iniqui trattamenti di cassa integrazione.