Mozambico, investimenti fossili con garanzia statale

Saipem è impegnata a costruire un gigantesco sito di gas nel Paese nonostante gli enormi costi sociali, umani e ambientali

“Il tempo dei dibattiti e delle dichiarazioni è finito, oggi confermiamo di voler agire responsabilmente rispetto al presente e al futuro del nostro pianeta”, diceva dal pulpito delle Nazioni Unite il premier Giuseppe Conte, appena 10 mesi fa, il 24 settembre 2019, alla conferenza sul Clima. L’effetto “Greta” si era fatto sentire in ogni parte […]

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“Il tempo dei dibattiti e delle dichiarazioni è finito, oggi confermiamo di voler agire responsabilmente rispetto al presente e al futuro del nostro pianeta”, diceva dal pulpito delle Nazioni Unite il premier Giuseppe Conte, appena 10 mesi fa, il 24 settembre 2019, alla conferenza sul Clima. L’effetto “Greta” si era fatto sentire in ogni parte del mondo. Conte prometteva di “agire immediatamente per affrontare uno dei più grandi problemi esistenziali per l’umanità” e proponeva poi d’inserire in Costituzione la tutela dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile. Belle parole. Peccato che i fatti non vadano sempre insieme alle parole.

Appena tre mesi prima l’agenzia pubblica di export italiana, Sace, partecipata della Cassa depositi e prestiti (il cui azionista di maggioranza è il ministero dell’Economia) approvava una nuova garanzia da 950 milioni di dollari per l’investimento Saipem (del gruppo Eni), in Mozambico. E tre anni prima, nel 2017, un’altra garanzia pubblica di Sace da 700 milioni di dollari andava a coprire i rischi di Eni nello stesso paese africano per il gigantesco cantiere del Coral South: estrarre gas naturale nel Bacino di Ruvuma, a nord del Mozambico e trasformarlo in gas liquido in una piattaforma galleggiante da 432 metri, alta 66 metri, per poi trasportarlo nei mercati asiatici e perchè no, anche in Europa. Un’operazione da 8 miliardi di dollari dove il 30% lo hanno messo le imprese dell’oil&gas e il resto le banche private, una cordata da 15 banche (per l’Italia Unicredit e Ubi Banca) e 4 agenzie pubbliche di credito all’esportazione.

Eni è arrivata per prima in Mozambico, nel 2010. Insieme all’americana Anadarko ha cominciato a esplorare il bacino di Ruvuma, scoprendo un vero Eldorado del gas. Tra le riserve a mare e quelle a terra, ora conquistate da Total, Shell, Exxon, Saipem – si calcola che ci siano 5.000 miliardi di metri cubi di gas – il Mozambico diventa la terza riserva di gas dell’Africa, dopo la Nigeria e l’Algeria e la nona del mondo. Un tesoro inestimabile, almeno fino alla pandemia covid, che ha fatto precipitare il prezzo del gas e mettere tra parentesi l’utilità di investimenti. Tranne in Mozambico, dove le banche sanno che in caso di default dello Stato, arriva l’agenzia di export credit a coprire il buco. “Le Ecas (export credit agencies, le organizzazioni nazionali di credito) fanno soprattutto derisking: in un momento in cui il debito pubblico mozambicano era junck, spazzatura, la copertura assicurativa offerta da Sace ha permesso alle imprese di reperire fondi, a tassi ridotti, nei mercati finanziari”, spiega Alessandro Runci di Re:Common. Altrimenti le banche private non si sarebbero imbarcate in un progetto così rischioso. Nefasto per il cambiamento climatico, visto che si prevede una produzione di gas metano – 86 volte più nocivo dell’anidride carbonica su 20 anni – molto elevata in un paese come il Mozambico già tra i più vulnerabili per le catastrofi naturali legate al clima. Il premier Conte lo scorso 9 luglio ha accolto a Roma il presidente mozambicano Filipe Nyusi a Roma, elogiando “gli importanti investimenti energetici di Eni e Saipem”. Meno contente le popolazioni locali, le 550 famiglie di pescatori, sfrattate dal nuovo sito “Mozambique Lng” (Saipem) a cui sono stati dati terreni aridi nell’entroterra, a 20 km dal primo villaggio, come documenta un recente rapporto di “Friends of the Earth”. Il sito gasiero si trova tra l’altro in una zona continuamente sotto attacco dei ribelli islamisti di Al-Shabab. Il governo mozambicano ha inviato l’esercito a protezione dei cantieri, ma questo, scrive “Friends of the Earth”, non fa che aumentare il malcontento delle popolazioni locali, che vedranno tra l’latro il 90% del “loro” gas partire all’estero.

Sull’estrazione di gas naturale nel Bacino di Ruvuma, Eni ha risposto al consorzio Investigate-Europe che “il gas naturale è la fonte fossile più sostenibile in grado di favorire la necessaria transizione dall’attuale uso intensivo di carbonio, una delle leve del percorso di decarbonizzazione di Eni”. Sull’impatto sociale dei cantieri il cane a sei zampe promette di assumere almeno 800 persone nella piattaforma galleggiante e sull’utilità economica di investire nel gas oggi, la società risponde: “Eni ha già firmato accordi vincolanti per la vendita dell’intera produzione di Gnl di Coral South per almeno 20 anni”.

L’uso delle agenzie pubbliche di credito per investimenti fossili comincia a mettere in imbarazzo i governi. In Olanda, in marzo si è tenuto un vivo dibattito nel parlamento per il divieto di garanzie all’esport per le energie fossili. Ma il ministro delle finanze Wopke Hoekstra si rifiuta di approvare una riforma, in nome della concorrenza mondiale delle società olandesi. Ma di fermare le Ecas per i fossili si parla sempre di più dopo il successo della campagna per la banca europea degli investimenti che ha finalmente deciso di non versare più soldi alle energie fossili. L’Europarlamento ha approvato una risoluzione nel novembre 2019, dove chiede ai governi si seguire l’esempio della Banca europea per gli investimenti per le export agencies. Sace nel 2019 ha garantito progetti in oil&gas per il 34% del suo portafogli.