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Perché non potremo mai definirci tutti antifascisti: c'è un'altra storia da rispettare

Francesco Storace
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Achtung elezioni, tirate fuori un po’ di materiale per la lotta antifascista. Davvero cimeli d’altro tempo, che però continuano a suscitare dibattiti incredibili. Certo, ci sono passioni ideologiche che sembrano aver bisogno della carica giusta, ma che ad ogni campagna elettorale debbano esser tirate fuori dai cassetti, suscita davvero imbarazzo. È la morte delle idee. Perché è revival.

Vai in televisione – di più sui social – e ti chiedono se sei antifascista. La risposta viene facile: scusatemi, ma dov’è il fascismo che incombe? Allora mi dica se è fascista e ti viene spontaneo dire che il Pnf non c’è e non si capisce perché non ci sia tanto ardore sul comunismo.

Ma che c’entra, ti fanno, in Italia il comunismo non c’è stato. Però, se si continua così il sospetto che lo vogliate viene immediato. Poi ti buttano in mezzo Roberto Fiore, Giuliano Castellino e “quelli della Cgil”, intesi come assaltatori.  Quindi, se sabato scorso fossero stati febbricitanti, il fascismo non sarebbe tornato.

In realtà, si cercano pretesti per delegittimare l’avversario. E in campagna elettorale tutto fa comodo. E l’avversario è la destra legalitaria, quella che sta in Parlamento e che non ha bisogno di commettere atti di violenza. Nel mirino ci sono “le destre”, quelle di Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Si chiede loro quotidianamente professione di antifascismo, “eh, quella fiamma del Msi”…

Eccolo, il marchio d’infamia che si vorrebbe gettare addosso soprattutto su Fratelli d’Italia. È la memoria che fa difetto quando non si vota. L’ultimo segretario del Msi fu Gianfranco Fini. Nel 1994 portò con quel simbolo uomini e donne di quel partito al governo della Nazione. Memento: Fini non è stato solo l’ ultimo segretario del Msi. Per 5 anni è stato vicepresidente del consiglio, per 2 ministro degli Esteri e per 5 presidente della Camera: nessuno ha mai pensato che An, che pur aveva ereditato la Fiamma tricolore, potesse rappresentare un’insidia per la democrazia.

Mirko Tremaglia fu ministro nel governo Berlusconi dal 2001 al 2006. In Repubblica Sociale fu inquadrato nella Guardia nazionale repubblicana. Non si ricordano moti insurrezionali alla sua nomina da parte del presidente Carlo Azeglio Ciampi, proposta dal governo di Silvio Berlusconi al quale l’aveva suggerita proprio Fini. Le elezioni politiche erano trascorse, non c’era bisogno di antifascismo, la sinistra si leccava le ferite per la sconfitta.

In realtà il tema della divisione permanente degli italiani è una costante della sinistra, nei momenti in cui le è utile. Parlano di unità nazionale, ma se il 25 aprile si avvicina un esponente di destra alle loro iniziative, i fischi si sprecano: accadde a Umberto Bossi – che pure si diceva fiero antifascista – e tempo dopo a Letizia Moratti e Renata Polverini.

Richiamare l’antifascismo a chi oggi ha tra i cinquanta e i sessanta anni è complicato. Perché ha convissuto con troppo sangue versato. Lo testimonia il lungo martirologio del Msi, troppi ragazzi morti ammazzati, nella gran parte dei casi nei quartieri meno agiati delle città. Oggi la parola “camerati” è usata il più delle volte in loro onore. Non nostalgia, ma fratellanza comunitaria.

C‘è chi li ha visti cadere al suo fianco. O bruciare tra le fiamme. Erano gli anni in cui “uccidere un fascista non è reato”, era il tempo del cosiddetto “antifascismo militante”. Ecco, quando si chiede una specie di professione di fede si deve avere il buongusto di non dimenticare mai quanto è accaduto anche nella storia recente. Esattamente come deve avvenire, rispetto per rispetto, per le vittime “dell’altra parte”. Senza questo non ci sarà mai pacificazione.

Come si può dimenticare il rogo di Primavalle nel 1973, una famiglia umile sterminata con il fuoco, distrutta dalla barbarie che ammazzò in modo atroce Stefano e Virgilio Mattei?

Oppure la mattanza di Acca Larentia, gennaio 1978, le pallottole senza pietà addosso ai corpi di Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta. E poche ore dopo, l’omicidio di Stefano Recchioni, ucciso da chi doveva osservare la legge più di altri.

Chiedere se sei antifascista a chi ha vissuto l’agonia di Francesco Cecchin, scaraventato vivo da un muretto vicino piazza Vescovio, significa ignorare tragedie che hanno dignità anche se riguardanti comunità avverse. Paolo Di Nella – il cui assassinio commosse anche una personalità del calibro di Sandro Pertini, che era presidente della Repubblica – morì giovanissimo, febbraio 1983, mentre affiggeva manifesti per il verde pubblico nel suo quartiere. A sprangate. A chi diamine vuoi chiedere tra i suoi amici se si sentano antifascisti?

Quell’operaio di Genova, Ugo Venturini, aprile 1970 a Genova, morto per le sassate lanciate dai comunisti ad un comizio di Giorgio Almirante. Carlo Falvella, Salerno luglio 1972, accoltellato sotto casa. Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci, massacrati nella sezione missina di Padova dalle Brigate rosse nel giugno 1974. Mikis Mantakas, studente greco e militante del Fuan, bersaglio delle pistolettate di Alvaro Lojacono a Roma, in piazza Risorgimento, nel febbraio 1975. E ancora a Roma, un giovanissimo come Mario Zicchieri, davanti alla sezione missina del Prenestino, colpito a luparate nell’ottobre 1975. Milano, aprile 1975, le sprangate a Sergio Ramelli. Milano, aprile 1976, il sangue per strada di Enrico Pedenovi mentre usciva di casa.

E ancora, i nomi che tornano in mente. Angelo Pistolesi, a Roma, dicembre 1977. Alberto Giaquinto, ancora a Roma, gennaio 1979. E l’indimenticabile Angelo Mancia, marzo 1980, “giustiziato” sotto casa. Campava con lo stipendio da fattorino del Secolo d’Italia.

Ecco, pensare a queste storie – e tante altre ancora – farebbe bene a chi sogna abiure. Basterebbe solo un po’ di rispetto, anche in questa politica aspra. Erano ragazzi missini – e chissà quanti nomi avremo omesso - avevano i loro sogni, glieli spezzarono. Quella comunità ha diritto a piangerli o no? E a chiedere giustizia? Ci si interroghi seriamente quando si architetta una macabra campagna propagandistica. Se non lo fa, si resta sul sentiero sanguinoso di una guerra civile culturale che non sembra finire mai.

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