Solo il poeta potrebbe cantare «l’ira funesta» del dottor Nino Di Matteo, il pm più scortato d’Italia, protagonista del processo sulla trattativa Stato-mafia, spirito inquieto che entrò in conflitto con molti colleghi di Palermo, con il capo della Superprocura antimafia, e ora al Csm è destinato a entrare in guerra pure qui. Dopo il suo sfogo televisivo di domenica notte, il dottor Di Matteo è diventato protagonista di una nuova guerra. Fratricida, si potrebbe dire, perché ora è in conflitto con chi, il Movimento Cinque Stelle, lo ha idolatrato fino al giorno prima. Ma siccome il dottor Di Matteo non è un ingenuo, è chiaro che sapeva quel che faceva. «I fatti sono quelli. E non sono pentito di averli raccontati. Ricordo tutto nei particolari. Per me è stato un episodio indimenticabile e non c’è nessun equivoco». Così si è sfogato con diversi interlocutori, ieri, in una giornata trascorsa tutta al telefono.

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Siccome a parlare di «equivoco» sono stati i grillini, è evidente con chi ce l’ha. Con chi vuole farlo passare per un pasticcione e un visionario. Nossignore. «Io non faccio illazioni. E non penso minimamente che il ministro Bonafede sia colluso con la mafia. Però è un fatto che abbia cambiato idea nel giro di 12 ore, tra un lunedì sera e un martedì mattina. E quel che non posso accettare, è che si metta in discussione la mia lealtà». Con Bonafede, però, è amareggiato. «Da cittadino sarei preoccupato per un ministro che in un momento così delicato e con un magistrato così esposto si lasciasse convincere e tornasse indietro. Se chiamarmi e poi cambiare idea è stata una sua valutazione autonoma, non lo so».

Lui si dichiara «un soldato della Repubblica». Quando i capi politici del M5S lo contattarono e gli offrirono il ruolo di ministro dell’Interno, e per ben due volte in pochi giorni, e poi cambiarono idea e scomparvero, «mica ho chiesto il perché. Non è mio costume chiedere niente ai politici». Così come quando lo contattò il ministro. «Una chiamata sul mio cellulare, anonima. Sono Alfonso Bonafede. Non ero mica stato io a chiamarlo».

Come è finita, ormai è storia. Bonafede gli offrì due incarichi: direzione delle carceri e direzione degli affari penali al ministero. Il primo, incarico molto operativo e di prima grandezza. Il secondo, più oscuro e subordinato a un altro magistrato.«Era un lunedì sera. Mi disse solo che avrebbe preferito avermi al Dap e di decidere presto perché dopo due giorni ci sarebbe stato un plenum del Csm, ancora nella vecchia formazione (era la consiliatura 2014-18 con la vicepresidenza Legnini, ndr), e se avessi scelto il Dap, avrebbero potuto deliberare in giornata di mettermi fuori ruolo».

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Ebbene, il mattino dopo Nino Di Matteo varcava il portone del ministero («Dove non ero mai più entrato dai tempi del concorso del 1991», ha ricordato a un amico). Ma l’aria era già cambiata. Il ministro aveva scelto un altro per il ruolo del capo delle carceri. «Perché sia avvenuto non lo so e non l’ho chiesto: se ci siano state pressioni politiche, se da parte di qualcuno dei miei colleghi o se da ambienti istituzionali». Nel frattempo c’era stata la sollevazione dei mafiosi al solo ventilare il suo nome. «Cinquantasette boss al 41 bis del carcere dell’Aquila chiesero rapporto al magistrato di sorveglianza, per annunciare che se fosse passato Di Matteo al Dap, sarebbe esplosa la protesta. Mi chiamò un collega della Superprocura per chiedermi se dovevano rafforzare ancora la scorta. Oddio, no. A me già mi toglie il respiro come è ora».

Insomma, il dottor Di Matteo s’è tolto un rospo dalla gola. E tutti lì a chiedere: perché ora? «Perché ci sono state centinaia di scarcerazioni di persone vicine a Cosa Nostra con la storia del contagio. Preoccupa solo me? Giletti mi ha chiesto di spiegare come funzionano le cose e io ho spiegato. Oltretutto, se sentivo di avere un debito di riservatezza con Basentini ora non ce l’ho più. E siccome il ministro ha scelto altre persone, non si può dire neanche che mi sto candidando».

E però la bestia nera dei mafiosi è nella scomoda posizione di trovarsi in solitudine. «Una dinamica che ho visto molte volte con i collaboratori di giustizia. Finché parlano dettagliatamente di fatti criminali, tutto bene. Viceversa, tutto cambia quando alzano il tiro e chiamano in causa il potere. È successa la stessa cosa con me. Immediatamente si è pensato che io volessi avere chissà quale interesse politico».

Il magistrato lo ha detto anche domenica sera subito dopo la diretta di “Non è l’Arena”. «E’ andata bene, Nino, erano tutti dalla tua parte», gli ha spiegato la moglie. Ma lui, già in quel momento, non ha avuto dubbi: «Vedrai che tra due giorni la frittata si rivolta». E così è stato.

I grillini lo caricano a testa bassa. I tre colleghi laici del Csm espressi dal M5S sostengono che ha leso l’istituzione. Lui ha sotto gli occhi la loro dichiarazione e trattiene a stento la rabbia. «L’onorabilità di questa istituzione è lesa dalle mille opacità».

Comunque, siccome il dottor Di Matteo non è un ingenuo, ora si aspetta il peggio. Non solidarietà dai suoi colleghi. Già l’intervista a questo giornale di Armando Spataro, suona da campane a morte. «Proprio lui che quando io portavo avanti l’indagine sulla trattativa Stato-mafia sosteneva che quel processo non andava fatto». Ha confidato ai suoi amici che non si meraviglierebbe persino che sia avviata una iniziativa disciplinare. «Ma li aspetto a pié fermo. Mi difenderò con il coltello tra i denti». E c’è da credergli. —

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