Cronaca

Codogno, i medici dell’ospedale in trincea: "Quelle accuse del premier fanno più male della malattia"

(ansa)
Conte aveva tuonato: "Focolaio causato dagli errori dell'ospedale". I medici sono risentiti: "Abbiamo fatto il nostro dovere e abbiamo la coscienza a posto. Dal primo istante dell'emergenza non abbiamo lasciato i nostri ammalati nemmeno per un istante"
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CODOGNO - "Abbiamo fatto il nostro dovere e abbiamo la coscienza a posto. Dal primo istante dell'emergenza non abbiamo lasciato i nostri ammalati nemmeno per un istante. Alcuni di noi, tra medici e infermieri, sono infetti e lottano adesso contro il morbo. Non siamo eroi e non pretendiamo gratitudine per il nostro lavoro: ma ascoltare dalle massime cariche dello Stato certe parole, che moralmente uccidono più del virus, fa male e ci umilia".
 
Giorgio Scanzi, primario di Medicina dell'ospedale di Codogno, non vuole rispondere alle accuse, pur ritrattate, del premier Conte. Assieme ai colleghi, da cinque giorni in quarantena e in servizio nell'epicentro del contagio, non riesce però a nascondere l'amarezza. "Nessun ospedale d'Italia - dicono i medici del pronto soccorso diretto da Stefano Paglia - una settimana fa si sarebbe comportato in modo diverso. Abbiamo applicato protocolli e direttive di Istituto superiore di sanità, Oms e ministero della Salute. Nessuno di loro avrebbe suggerito tampone e isolamento per un italiano con i sintomi classici dell'influenza, non reduce dalla Cina e che non dichiara contatti con persone provenienti da là. Appena il quadro è cambiato, il protocollo è stato seguito. Il contagio purtroppo era già esploso da giorni, al punto da costringerci a chiudere il reparto".
 
L'ospedale di Codogno resta l'incubatrice perfetta del Covid-19 in Italia. Qui ha rischiato di morire Mattia, 38 anni, dirigente dell'Unilever di Casalpusterlengo, "paziente uno" dell'epidemia che paralizza il Nord. Ricoverato a Pavia, resta grave. Chi lo ha curato per primo rifiuta però "un processo politico aperto in totale assenza di riscontri". Gli ordini ufficiali vietano dichiarazioni. Medici e infermieri schierati sul fronte del focolaio tengono invece "alla verità su quanto accaduto".

"La cartella clinica riporta che il "paziente uno" - ricostruisce un aiuto del pronto soccorso - si è sentito poco bene venerdì 14 febbraio. Da Codogno è andato a farsi visitare a Castiglione d'Adda. Il suo medico Luca Pellegrini, positivo e ora ricoverato, gli ha prescritto farmaci contro una sindrome influenzale. Domenica 16 gli è salita la febbre e si è presentato in ospedale qui a Codogno. Non ha indicato collegamenti, nemmeno indiretti, con la Cina. La moglie, incinta, era asintomatica e stava bene. Lui era in codice verde: abbiamo aggiustato la terapia e l'abbiamo dimesso. Si è ripresentato mercoledì
18, la febbre non scendeva e precauzionalmente è stato ricoverato in osservazione in medicina. Solo giovedì 19, quando sono esplosi i problemi respiratori, la moglie si è ricordata degli incontri con un amico italiano (poi negativo ai test, ndr ) rientrato dalla Cina il 21 gennaio. Il protocollo coronavirus, tampone più isolamento, è scattato immediatamente ".

Troppo tardi. Difficile però condannare i medici. "Per un paio di settimane - dice Scanzi - quel ragazzo già infetto ha girato liberamente dentro e fuori il Lodigiano. Ha incontrato più persone lui in quei giorni, tra lavoro e sport, di me in sei mesi. Nessun ospedale poteva più contenere l'epidemia". Questo primario, prima dell'emergenza, era in ferie. Bergamasco di 65 anni, il 29 febbraio sarebbe stato il suo primo giorno di pensione. Nell'attesa, smaltiva gli arretrati. Avvisato del primo allarme,
è corso a Codogno e non si è più mosso dal reparto, pronto a continuare a curare i malati "finché servirà ". I colleghi infetti sono sei, tra pronto soccorso, medicina e terapia intensiva. Il crollo di sanitari per curare i pazienti in quarantena è ora "l'emergenza dopo l'emergenza".
 
"Una falla - dice un altro medico di Codogno - forse si è aperta dopo la prima diagnosi. Tra giovedì pomeriggio e venerdì l'ospedale infettato non è stata chiuso. A personale e degenti non sono state fornite mascherine. Gli ambienti non sono stati disinfettati. Non erano disponibili tamponi per tutti. L'epidemia ha potuto moltiplicarsi. Simili interventi non sono però compito di chi cura i malati". Il rilievo, respinto, viene recapitato ai vertici della sanità lodigiana e della Lombardia, nel mirino del premier. Chiamato ora a sua volta in causa da sindaci e residenti della zona rossa.

"È inaccettabile - accusa a nome di tutti Costantino Pesatori, sindaco di Castiglione - dover elemosinare mascherine e disinfettanti per sopravvivere, dopo essere stati reclusi
sine die per solidarietà nazionale. Nel cuore del focolaio la gente, oltre che sacrificata, è abbandonata. Una mascherina costa 8 euro, se si trova. Non abbiamo più un pronto soccorso. Gli anziani stanno ore in coda al freddo per fare la spesa, prima di scoprire che gli alimenti sono finiti". A centinaia raggiungono così gli accessi sigillati alla zona rossa. Qui parenti e amici, dall'esterno, lasciano sulla strada generi di pri