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Maurizio Sarri. Brera, Sacchi e Fante, l'uomo che in tuta ignora lo stress

Ha battuto Benitez e Pioli, ha fermato Garcia e Montella. Un passato da dipendente di banca, una lunga gavetta nelle serie inferiori e una stagione sorprendente al debutto in A. L'allenatore dell'Empoli racconta il suo mondo: nonno Goffredo partigiano, papà Amerigo ciclista e gruista. Le origini napoletane e il trasferimento in Toscana. Uomo di sinistra, amante della buona letteratura e del calcio sfrontato: "Voglio una squadra con la faccia tosta. Ma questo è un gioco, non c'è mica da scaricare camion"

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EMPOLI. DI MAURIZIO Sarri, per quel che si legge, interessa sapere dove andrà. A me interessa di più sapere da dove viene. Ma glielo chiedo ugualmente: dove andrà?
"Ho un contratto che scade nel 2017. Non significa molto, perché l'Empoli campa sul vivaio e sul mercato. È il posto ideale per allenare perché c'è sintonia tra società, pubblico, squadra. Se un ragazzo sbaglia tre passaggi di fila sa che potrà sbagliare il quarto senza che gli levino la pelle".

Il suo nome è stato accostato al Milan, poi al Genoa. Per il Milan ce la sbrighiamo subito. Ho letto che tempo fa, in un'intervista al Fatto, ha dichiarato di non aver votato Renzi. Conferma?
"Confermo. Voterei Landini, se si candidasse".

Bene, col Milan ha chiuso. Altri dicono: Sarri è bravo, ma è un allenatore di categoria.
"È una definizione stupida. Il calcio è piano di luoghi comuni. Chi è bravo è bravo, sul campo e in panchina, sia in serie B sia in serie A. Ci sono arrivato con 25 anni di panchina alle spalle, e una quindicina da calciatore".

Scarso, si dice.
"Di categoria, si potrebbe dire. Tanto scarso no, se è vero che ho fatto provini con il Torino e con la Fiorentina, quando giocavo nella Figlinese. Soprannome: il Secco. Difensore, interventi da gladiatore, avrebbe scritto Brera. Tutti i martedì compravo Repubblica per leggere le sue analisi. Quelli della mia generazione si sono abbeverati a Sacchi, che non rientrava nei gusti di Brera ma certamente ha portato qualcosa di nuovo nel calcio italiano, a livello di mentalità. Sacchi ha vinto tutto, ma io considero grandissimi esempi anche il Foggia di Zeman e il primo Chievo di Delneri".

Di sacchiano mi pare che l'Empoli abbia la mentalità, il movimento continuo e la difesa a 4. È una squadra che gioca molto sulla profondità, che lancia lungo mentre molti preferiscono una serie di passaggetti. Sbaglio?
"No. La difesa, per come la intendo io, è a 4. La mentalità è indispensabile. Voglio una squadra con la faccia tosta, che se la gioca con tutti. Non sono uno che controlla i giocatori, il tempo libero è loro. Ma sanno fin dal primo giorno che con me o si va a mille all'ora o si sta fuori. Non penso di essere un sergente di ferro. Altrimenti non mi verrebbero a parlare, i giocatori, di problemi in famiglia e cose del genere".

Come definirebbe un allenatore?
"Un punto di riferimento per tanta gente, non solo per i giocatori. Penso ai rapporti interni al club ed esterni: i tifosi, la stampa, i colleghi".

A proposito di colleghi, Mihajlovic agli allenamenti dell'Empoli ha destato un certo clamore.
"Fuori luogo. Nel calcio le idee devono circolare, non essere tenute sotto chiave. Anch'io in passato ho chiesto ospitalità ai colleghi: Spalletti, Delneri, Ventura. Mi fanno ridere i maniaci degli allenamenti a porte chiuse. Con me sono aperte. Ce ne sarebbe uno solo a porte chiuse, ma quella ventina di pensionati che regolarmente assiste è gradita. Come gradisco che tanti giocatori partecipino alla seduta settimanale di tecnica, affidata a Martusciello, anche se è facoltativa".

Bello sentir parlare di tecnica, in un panorama di fisicità.
"Ho la squadra più leggera del campionato, spesso soffriamo la fisicità degli altri. Quando giocavo a Figline ho avuto la fortuna di essere allenato da Kurt Hamrin. Troppo buono per fare questo mestiere. Uccellino lo chiamavano. Ma quando tirava le punizioni dal limite ci faceva vergognare, le infilava tutte nel sette. La velocità, soprattutto mentale, oggi è più elevata. Ma non esageriamo con la forza. C'è da giocare a calcio, avrebbe detto mio nonno, mica da scaricare un camion".

Che tipo era suo nonno?
"Si chiamava Goffredo, era molto fiero di un riconoscimento su carta intestata della Casa Bianca. Da partigiano, recuperò i piloti di un aereo Usa abbattuto in val d'Arno, li nascose, e a quei tempi ti fucilavano per meno, e li consegnò agli inglesi quando passarono il fronte. Uno si chiamava John Lanza, lo so perché figlia e nipote ci hanno scritto un libro".

Libri, appunto. Davvero è andato a Torricella Peligna in memoria di John Fante e come ha scoperto John Fante?
"Ci sono andato quand'ero a Pescara, altro bel posto per allenare. Fante non l'avevo mai sentito nominare. La mia prima cotta è stata per Bukowski, che criticava tutti o quasi ma giudicava Fante un fenomeno. Così ho letto un libro di Fante e poi tutti gli altri. Adesso è di turno Vargas Llosa".

Legge su carta?
"E dove sennò? Il computer lo uso solo per analizzare le partite di calcio che m'interessano, ed è molto utile. I social network non sono per me".

Da piccolo per chi tifava?
"Per il Napoli. A Figline ero l'unico, tutti gli altri tenevano al Milan, all'Inter, alla Juve, alla Fiorentina. Mi sembrava naturale tifare per la squadra della città dov'ero nato".

E per quali vie era arrivata la sua famiglia a Napoli?
"Mio padre Amerigo era un buon ciclista, un passista-scalatore che poteva dire la sua anche nelle volate di un gruppetto. Vinse parecchie corse nelle categorie minori, mi pare 37. Da professionista, con la Frejus, valutò che i guadagni non compensavano i sacrifici e smise attorno ai 25 anni. Era molto amico di Gastone Nencini, che insisteva perché tornasse a correre con la sua squadra. Mio padre disse di no e se ne pentì, perché Nencini poi vinse Giro e Tour e ci sarebbe stato un bel gruzzolo da spartire. Sono nato a Napoli perché mio padre faceva il gruista, quando le gru si azionavano da sopra, per la ditta che costruì l'Italsider a Bagnoli. Ma come operaio lavorò anche alla Max Mayer e alla Pirelli. È del '28, a vedere l'Empoli è venuto una volta sola ma sulla bici da corsa ci va ancora spesso. Mi ha insegnato ad amare tutti gli sport".

Ha provato con la bici?
"Sì, sui 12 anni ho pure vinto un paio di corse, ma non mi divertivo. La bici mi pesava mentalmente, e poi tutti i miei amici giocavano a pallone. Da spettatore sì, mi sono divertito. Che emozioni con Merckx e Pantani. E con Sara Simeoni, Mennea. Ricordo la fi- nale di Mosca, stavo andando in macchina a Montevarchi, mi sono fermato per strada al primo bar per non perdermela, meno male che allora tutti i bar avevano la televisione. Come ricordo la finale di pallanuoto a Barcellona '92, la vittoria dell'Italia sulla Spagna dopo sei tempi supplementari. E ancora di più il 3-1 di Bearzot alla Germania nell'82. Nel 2006 ho sentito meno entusiasmo, ma non è colpa della Nazionale. Avevo 24 anni in più, la spiegazione è tutta qui".

Ora può spiegare il sì e poi il no al lavoro in banca?
"Il sì: pezzo di carta, posto sicuro. Mi occupavo di finanza interbancaria, giravo l'Europa, in inglese mi facevo capire. Nel '99 con l'euro lavorare nei cambi rendeva meno. Da allenatore, salendo di categoria, capivo che sarei riuscito a campare ugualmente, ma soprattutto non ne potevo più di andare in ufficio e di aspettare con impazienza di staccare alle 17 per andare sul campo. Quindi, stop. Ho avuto alti e bassi, da allenatore, ma tutto serve. E lo stress per ora non so cosa sia. Sì, c'è tensione, adrenalina, ma anche gioia. Basta che stai fermo un anno e queste cose le rimpiangi. Il mio lavoro mi piace, tutta 'sta sofferenza non la vedo. Un allenatore un minimo di presunzione o di autostima deve averla dentro, se vuole raggiungere gli obiettivi, dare una mentalità e un gioco, migliorare i suoi giocatori, fare il salto di qualità".

Capello ha definito l'allenatore un gestore di risorse umane. Concorda?
"No, se qualcuno mi definisce gestore di risorse umane mi arrabbio di brutto".

Nell'Empoli ci sono pochissimi stranieri. È un caso?
"Qui si guarda prima alle doti umane che a quelle tecniche. Se mi danno una rosa di 24 italiani io sono contento. Se c'è qualche straniero bravo, sia il benvenuto. Ma dare un senso d'appartenenza a tanti stranieri è più difficile. Ora si parla molto di Valdifiori perché è andato in Nazionale, ma le sembra normale che uno come Croce arrivi in A a 32 anni? Quando l'ho chiamato stava andando a firmare per il Lugano, serie B svizzera".

Stiamo sull'attualità: la violenza negli stadi.
"Sono contrario alle pene collettive. Chi va in curva Sud da 30 anni senza fare casini non può pagare le colpe di pochi. Gli stadi sono luoghi d'impunità e bisogna che tornino normali. Chi non ha precedenti, apre le finestre la domenica e pensa "c'è il sole, vado allo stadio" deve poterci andare. E chi sbaglia paghi, ma paghi lui, o loro, non tutti, non quelli che non c'entrano. Credo che negli anni '90 ci fossero più collusioni tra club e tifosi violenti".

Oltre che "quello della banca" e "quello dei 33 schemi", lei è anche "quello della tuta". Cos'ha da dire?
"Che non sono l'unico, che in tuta sto comodo e comunque faccio l'allenatore, non l'indossatore".

Un'altra curiosità: sbaglio o non l'ho mai vista con sciarpe o spille per appoggiare le varie campagne umanitarie che ormai nel calcio sono ospitate ogni domenica?
"Non le indosso perché penso che della ricerca contro il cancro o la distrofia debba farsi totalmente carico lo Stato, in un Paese civile".

L'Italia lo è?
"Ho qualche dubbio. So che mio nonno ha lasciato a mio padre un'Italia migliore, come mio padre l'ha lasciata a me. La mia generazione lascia ai suoi figli qualcosa di peggio, più di vent'anni di deriva civile, sociale, etica ed economica. Il futuro mi preoccupa molto, e non parlo di calcio".

Torniamo a parlare di calcio: chi è il miglior calciatore in Europa?
"Troppo facile dire Messi o Ronaldo. Ne dico uno bruttino da vedere: Thomas Müller".

Ci sono calciatori sopravvalutati in serie A?
"Tantissimi, non mi chieda l'elenco".

Me ne dica tre che sono già grandi e possono diventare grandissimi.
"Felipe Anderson, Candreva e Bertolacci".

Che difetti si riconosce?
"La sincerità, secondo molti, ma non credo sia un difetto. Invece, devo imparare a controllarmi, in panchina, anche di fronte a palesi ingiustizie".

Le spiace se la paragono a un cinghiale?
"Neanche un po'".
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