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1 luglio 2017 - 22:30

Quei sogni così fragilidi un genitore

di Silvia Avallone

Un figlio nasce prima di venire al mondo. Le sue cellule, le sue ossa, il disegno del suo volto prendono forma dal tessuto essenziale di cui è fatto: il desiderio. Che non ha nulla a che spartire con gli altri desideri, perché è un chiamare senza oggetto, immaginare uno sconosciuto, pregare una storia d’iniziare.
Non ci sono ragioni che sostengano questa domanda immane e spericolata. Nessuno è all’altezza di diventare genitore, mancano spalle abbastanza robuste, strade valide già tracciate, l’equilibrio necessario a prendere decisioni che incideranno sulla felicità di un altro.

Eppure lo desideriamo, questo altro. Assembliamo camerette, facciamo spazio negli armadi. La sua attesa è manomissione, insinuazione del nuovo nelle vecchie regole quotidiane. Sono le tutine di ciniglia color pastello lavate e stirate. È la paura di quel che accadrà e la smania che il tempo passi. Che arrivi in fretta, lui con la sua presenza. Allora ci adoperiamo: le lenzuola piccole per la culla, l’amido di riso per il bagnetto. «Vogliamo fargli un bagno a casa, vogliamo sederci sul divano con lui, vogliamo dormire nel letto con lui, vogliamo poterlo mettere in una culla perché non ci ha mai dormito» implorano Chris e Connie nell’ultimo video. L’elenco delle cose semplici.

Non secondo ragione, ma secondo desiderio, questo elenco è un diritto. Anzi, prima ancora, una necessità fisica che viene dalla zona più remota del nostro stomaco, da dietro lo sterno, da più oltre. Guardare il lettino pronto, le coperte rimboccate, la camera colma di giochi, e pretendere che là, prima o poi, nostro figlio verrà ad abitare. Quando questo si avvera, quando lo vediamo — vivo e reale —, esistere, non ci sono più argini. Solo il futuro conta. Un futuro che non è universale, non è una parola. È il suo corpo. Sono il suo peso, la sua altezza, la forma precisa delle sue orecchie. Non c’è cosa che valga più della salute, della felicità di quel corpo. Che è sconosciuto, ma pieno dei sogni che gli abbiamo affidato.

Sogni piccoli, elementari, come immergerlo in una bacinella d’acqua a 37,3 gradi. Vederlo crescere. Assistere al suo primo sorriso, alla prima volta che afferrerà un oggetto, al giorno in cui saprà voltarsi e poi rotolare. Avere questo privilegio: stare lì, dentro il divenire di una persona. Che può solo fiorire, imparare. Perché deve. Perché così è giusto.


Charlie Gard, appena nato, è uscito dall’ospedale. Come tutti, con la sua promessa. Chris e Connie lo hanno sistemato nell’ovetto facendo attenzione, con l’insicurezza e la goffaggine della prima volta. Sono saliti in auto e hanno guidato esageratamente piano. Hanno avvertito in gola, con i sensi in allerta, la minaccia del meteo: troppo caldo, troppo freddo. A ogni passo, là fuori, hanno affrontato la misura incontrollabile del mondo. Regredendo a una condizione dove tutto è pericolo, e il solo compito è difendere. Dallo smog, dai rumori, dalla polvere. Difendere a qualsiasi costo lui; infinitamente esposto, e carico di speranze.

Poi si arriva. Si apre la porta. Si entra.
Poi si comincia. Nella normalità nuova.

Connie, Chris e Charlie, questo inizio, lo hanno ricevuto. Hanno conosciuto l’emozione di svegliarsi di soprassalto, la mattina dopo, nella solita casa, e correre a vedere come tutto fosse diventato diverso. Rivolgersi le domande stupide dei principianti: Senti se respira! Abituare lo sguardo a un volto così piccolo, che quando alzi gli occhi e li posi su chiunque altro, ti sembra enorme. Aspettare la crescita delle ciglia. Che lui ti guardi e ti riconosca. Scoprire il suo odore.

Tutto questo, per Connie e Chris, è durato otto settimane.
Dopo, è successa la cosa che ogni genitore dentro di sé, nel luogo più oscuro che ha, teme. Si sono accorti che qualcosa non andava. Che Charlie non reagiva, sembrava come inanimato. Sono corsi indietro, in ospedale, contro la direzione giusta delle cose, contronascita.

Non sono più usciti. L’orizzonte del mondo si è ristretto a una stanza del Great Ormond Street Hospital. Sono scattati gli esami, i protocolli, le diagnosi, le sentenze. Le parole che non capisci: sindrome da deplezione del Dna mitocondriale. Che cerchi di studiare forsennatamente, anche se non sei un medico, anche se sei impotente.
Un genitore non può essere impotente. Può solo farsi tigre e combattere. Esigere che se suo figlio non potrà mai camminare, né sorridere, né parlare, forse potrà vivere. In qualche modo, che ancora non si conosce, che ancora non esiste. Lo faremo esistere lo stesso. Perché non si può tradire quella promessa.
Non puoi abdicare. Anche se i polmoni non funzionano, i reni non funzionano, il cuore non funziona.
Un genitore è una persona fragilissima. Deve servire, spostare montagne, essere un mezzo per. Deve, in fondo, essere capace di un unico compito infame: quello di separarsi.

E tu lo accetti, ma solo a patto che tuo figlio realizzi la sua promessa. Lo lasci andare, ma solo in un luogo più ospitale e accogliente.
Se no, no. E lo strazio di combattere ogni giorno la stessa battaglia vana, varrà la pena. Qualsiasi prezzo, varrà la pena. Perché non esiste altro senso. E tu non senti ragioni. Tuo figlio non ha una ragione.

Ha dieci mesi, un volto.
Ha un nome.

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