8 agosto 2017 - 22:18

Lia Piano: «Sono la cocca di papà, misura ancora la mia altezza»

La figlia dell’architetto Renzo: «Gira sempre con un metro in tasca. Con le barzellette è negato. La sua opera che preferisco? Il Centre Pompidou a Parigi»

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Il padre è quello che da bambina la prendeva sempre sulle spalle. «Lui patisce molto la forza di gravità e lo infastidiva vedermi così in basso: la vista di colpo mi esplodeva davanti». Il padre è quello che tentava, scientificamente, di uccidere ogni suo fidanzato. «Faceva certe boline con la barca molto inclinata che quei poveretti vomitavano ovunque. Me li sviliva talmente tanto che, dopo, non potevo più guardarli come dei principi azzurri». Il padre è quello che, ancora oggi, quando la rivede dopo un po’ di tempo, la misura con il metro. «Ne ha sempre uno in tasca: non puoi sbagliare, d’estate o d’inverno. Misura tutto, non solo me e i miei nei. Da poco eravamo in chiesa a Parigi e l’ho sorpreso mentre contava con le dita il riverbero dell’organo». Lia Piano è la terzogenita di Renzo (dopo Carlo, Matteo e prima di Giorgio). «Sì, un po’ sono la cocca di papà: del resto sono l’unica femmina e a lungo sono stata la più piccola. Questo mi ha agevolato parecchio, per esempio quando ne combinavamo una delle nostre. La mente era Carlo: un anno decise che dovevamo tosare i nostri tre pastori tedeschi; a quei poveri cani, ormai azzurrini, dovemmo mettere la protezione solare per tutta l’estate. Neanche allora papà ci punì, non è nel suo stile».

Telefonate, fischi e barzellette

Lia passa in rassegna decenni e ricordi in una magnifica sala della Fondazione Renzo Piano appena fuori Genova, a Punta Nave. Ridacchia e condivide generosa il suo papà privato, che è lo stesso architetto pluripremiato, senatore a vita e autore di celeberrimi progetti in tutto il mondo. Per esempio: «Con noi figli fa la conta, ci telefona ogni giorno, tu rispondi e già alla terza parola si innervosisce, fa tutto da solo. Allora gli dici: ma papà, mi hai chiamato tu!». E poi: «Fischia. Canzoni. Quando ero ragazzina passeggiava per le strade di Parigi fischiando a pieni polmoni, io gli camminavo dietro e mi vergognavo: in quei momenti avrei voluto un padre pelato che passava tutto il tempo davanti alla tivù». Sulle barzellette: «È il peggior raccontatore che io conosca. Comincia a ridere a metà e si dimentica il finale: quindi schiocca le dita, mi guarda per sapere come finisce e il fatto che a mia volta rida gli fa credere di essere bravissimo...». La mania della precisione: «È ossessionato dai quadri, appena ne vede uno lo deve raddrizzare per forza. Me lo ha trasmesso: ora controllo con la bolla che siano dritti».

Il rituale in barca a vela

L’unico luogo dove suo padre stacca davvero è la barca a vela. L’ultima si chiama Kirribilli, l’ha progettata lui: in dialetto maori significa mare fecondo, luogo pescoso. «Soltanto in barca non lavora. Io sono nata a ottobre e già a luglio ero a bordo. Quando raggiunge i dieci nodi, si ripete la stessa identica scena: papà urla Yuh-huuu!, sbraccia per aria e pretende che tutti, tutti escano in coperta per esultare, ne fa un evento come se l’uomo avesse messo piede sulla Luna per la prima volta!».

Regali belli e brutti

Il regalo più brutto che lui le ha fatto risale a quando aveva poco più di vent’anni. «Era un completo maglia-pantaloni con una fantasia a orsetti, avrebbe fatto inorridire una dodicenne, ma dà l’idea di come mi veda sempre piccola: nelle interviste mi toglie gli anni!». Il più bello, invece, lo ha ricevuto prima di sposarsi, non ancora trentenne. «Mi propose un viaggio intorno al mondo, io e lui da soli: in realtà doveva vedere i suoi cantieri, è uno che si impiccia parecchio sul lavoro... Andammo negli Stati Uniti, in Giappone, a Sydney, in Nuova Caledonia. Poi a San Francisco. Qui una mattina uscimmo per andare nel parco in tenuta sportiva, scarpe da tennis e maglione legato in vita. A un certo punto volle fare una deviazione. Mi ritrovai nel luogo dove era in corso l’audizione per il progetto della California Academy of Sciences. Norman Foster era appena sceso da un elicottero con la sua squadra di architetti strafighi. Mentre papà era solo con me, in scarpe da tennis e maglione legato in vita. Non ci potevo credere... Vinse lui».

Il giorno più brutto e l’opera più bella

Lia ha vissuto assieme al padre anche il giorno più difficile della sua vita. «Eravamo a New York l’11 settembre. C’eravamo tutti, anche i miei fratelli, per festeggiare il compleanno di papà, che è il 14. Avevo quasi 29 anni, avevo già visto mio padre in momenti di grande dolore: la perdita dei genitori, del fratello... Però lì nel suo sguardo vidi qualcosa di nuovo: uno spaesamento che non gli conoscevo. Ricordo che eravamo seduti a Central Park con l’impressione di aspettare la fine del mondo».
L’opera del padre a cui è più affezionata è il Centre Pompidou. «Per la sua storia: c’è dentro un’epoca così folle... Un presidente che indice un concorso internazionale a busta chiusa e si presentano questi due scappati di casa che lo vincono (suo padre e Richard Rogers, ndr). Non è il più bello, ma è quello a cui sono più legata. Ho comprato casa a Parigi e se mi affaccio da una finestra lo vedo: quella è la finestra di Edipo».

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