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28 giugno 2016 - 23:14

Brexit,una lezione per l’Italia

di Sabino Cassese

«L’Europa vive di crisi», disse il cancellie-re tedesco Helmut Schmidt in una conferenza tenuta a Londra nel 1974. Ora alle crisi in corso (quella economica e quella migratoria) si aggiunge l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, dettata da tre motivi: la percezione di esser invasi da stranieri (ma sono solo il decimo della popolazione, contro il sesto di Austria, Svezia e Belgio); l’antico senso di superiorità, alimentato dall’ammirazione francese per la civiltà inglese (si pensi a Montesquieu e a Voltaire) e dalla critica britannica della rivoluzione francese (si pensi a Burke); l’orgoglio della piccola nazione che per lungo tempo ha dominato il mondo. Il Regno Unito, entrato nell’Unione Europea un quindicennio dopo la sua istituzione, da un lato è stato sempre sulla porta, chiedendo continue clausole di esonero, dall’altro ha influenzato fortemente la costruzione europea con la sua prevalente ideologia liberista e l’amore per la regolazione e le autorità indipendenti.

Ora cade l’accordo raggiunto il febbraio scorso per la permanenza del Regno Unito nell’Unione e inizia un negoziato molto complesso. Le linee guida del negoziato saranno definite all’unanimità dal Consiglio europeo, in cui siedono i 27 governi. Sarà scelto un negoziatore. Alla fine, l’accordo dovrà essere approvato prima dal Consiglio con una maggioranza del 72% rappresentativa del 65% della popolazione europea, poi dal Parlamento europeo con una maggioranza semplice . Alla fine, senza drammatizzare e senza tergiversare, 73 componenti del Parlamento europeo, 24 membri del Comitato delle regioni, 25 membri del Comitato economico e sociale dovranno prendere la strada di casa, mentre è probabile che i quasi 1.500 funzionari della Commissione e di altri organi amministrativi possano restare a Bruxelles. Il Regno Unito spenderà meno (contribuisce all’Unione – grazie a un trattamento di favore rispetto agli altri Stati - con 11 miliardi, ne riceve 7), ma perderà molto (i benefici derivanti dal solo mercato unico sono equivalenti a una cifra oscillante tra 5 e 15 volte il contributo netto del Regno Unito all’Unione). La decisione suicida, raggiunta da una minoranza (ha optato per uscire il 37 per cento degli aventi diritto al voto), ha lasciato una larga parte della popolazione inglese in uno stato di choc non diverso – è stato notato da uno studioso britannico - da quello che seguì l’esecuzione di Carlo I nel 1649 o la dichiarazione di guerra nel 1939.

Poiché il Regno Unito non può fare a meno dell’Unione, ad esso restano solo tre soluzioni. Una è quella della Svizzera, che ha circa 120 accordi con l’Unione europea. L’altra è quella di un accordo di associazione (l’Unione ne ha moltissimi, con Paesi che vanno dall’Egitto all’Ucraina). L’ultima è l’adesione allo Spazio economico europeo, una sorta di unione meno sviluppata. La conseguenza è che il Regno Unito prima stava nella «stanza dei bottoni», ora dovrà negoziare; le condizioni non saranno sempre quelle dettate dal suo esclusivo interesse; troverà lo scoglio della libertà di circolazione, uno dei quattro pilastri dell’Unione. L’altra parte, l’Unione esce da questa vicenda indebolita (perché perde uno dei 28 membri), ma anche rafforzata (mai come in questo caso sì è formata una opinione pubblica europea: basti pensare all’effetto di rimbalzo avuto dalla vicenda inglese sulle elezioni spagnole). Ora tutti chiederanno all’Unione più capacità di decisione. Ma questo vuol dire un ruolo minore per il Consiglio (dove siedono i governi), più forte per la Commissione (che rappresenta lo «spirito comunitario») e meno decisioni prese all’unanimità (dove tutti hanno un potere di veto), più decisioni adottate a maggioranza (dove gli Stati possono essere costretti a seguire scelte che non condividono).

Ciò comporta un ulteriore passo indietro dei governi nazionali, che vogliono tenere al guinzaglio l’Unione, comportandosi come padri che impediscono al figlio di allontanarsi troppo da casa. Un atteggiamento condiviso dalla stessa Germania, che insiste perché gli Stati rimangano «padroni dei trattati». Un referendum come quello inglese non sarebbe stato possibile in Italia, dove saggiamente la Costituzione non l’ammette per le leggi di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Dal referendum inglese c’è però una lezione che possiamo trarre per l’Italia. Il referendum è un esempio di «single issue politics». Con esso si chiede al popolo una cosa sola. Caricarlo di altri significati, facendolo diventare una decisione su problemi complessi, ne snatura la funzione e sottopone a sentimenti, umori, ideologie collettivi compiti che per le nostre democrazie spettano ai Parlamenti.

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