Milano, 4 agosto 2016 - 10:29

Tumore alla prostata, robot
o chirurgia «tradizionale»?
Il risultato è lo stesso

La domanda attende una risposta definitiva da anni. Una nuova indagine australiana stabilisce un sostanziale pareggio: dopo 3 mesi non c’è differenza nella qualità di vita dei pazienti, risparmio della potenza sessuale e della continenza

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In caso di un tumore alla prostata, meglio essere operati con il robot o sottoporsi al «tradizionale» intervento chirurgico? La domanda tiene banco all’incirca da 15 anni senza aver avuto ancora una risposta definitiva. Da un lato, i pazienti chiedono costantemente se le tecniche più d’avanguardia davvero garantiscono la stessa accuratezza nel rimuovere il cancro, con minori effetti collaterali. Dall’altro, fra gli specialisti, le discussioni sono sempre aperte e nessuno studio scientifico condotto finora ha messo chiaramente la parola «fine» al dibattito. Una nuova analisi appena pubblicata sulla rivista The Lancet porta nuovi dati e riapre la discussione, stabilendo in sostanza una parità: «Le conclusioni a cui giungono gli autori australiani – spiega Bernardo Rocco, urologo presso l’Ospedale Policlinico di Milano e direttore scientifico della Fondazione Ricerca e Terapia in Urologia – sono, in breve, queste: a tre mesi dall’operazione, in termini di qualità di vita dei pazienti, risparmio della potenza sessuale e della continenza, non c'è differenza fra chirurgia robotica e intervento di prostatectomia radicale retropubica a cielo aperto. E lo stesso “pareggio” si ottiene in termini di sicurezza e radicalità contro il tumore».

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Il nuovo studio: un pareggio tra due chirurghi molto diversi

Tra l’agosto 2010 e il novembre 2015 i ricercatori del Royal Brisbane & Women’s Hospital, in Australia, hanno arruolato in una sperimentazione 326 uomini con un carcinoma alla prostata: una metà è stata sottoposta a prostatectomia radicale retropubica a cielo aperto, l’altra metà a prostatectomia laparoscopica eseguita con il robot. Dopo 12 settimane dall’intervento i pazienti non mostravano differenze significative per quanto riguarda la ripresa di una normale funzione urinaria e sessuale e una sostanziale equivalenza emerge anche nella completa resezione del tumore.«Gli esiti dell’indagine indicano anche che la robotica causa meno sanguinamento, meno dolore e ha una degenza media più breve (meno della metà, un giorno e mezzo contro 3,2) – commenta Rocco -. Come sottolineano Yaxley e Coughlin, i due autori principali dello studio, bisogna poi verificare se sul lungo periodo emergono delle differenze negli “effetti collaterali” per i pazienti. Va poi sottolineato che questa sperimentazione a messo a confronto due chirurghi con una notevole differenza di esperienza: 15 anni e più di 1.500 interventi per il chirurgo “a cielo aperto”, soltanto 2 anni dopo la specializzazione e 200 casi per il chirurgo robotico. Si può quindi concludere che grazie al robot, un chirurgo con un'esperienza media è riuscito ad avere risultati paragonabili ad un collega espertissimo con tecnica tradizionale».

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Robot o tradizione, conta l’esperienza del chirurgo

Ogni anno 35mila uomini italiani scoprono di avere un tumore alla prostata e le opzioni di cura oggi disponibili sono moltissime. In molti casi è il paziente che deve decidere, fra le varie alternative indicate nel suo caso, quella che preferisce, tenendo presente i pro e i contro di ogni terapia.L'Italia, poi, è uno dei paesi più all'avanguardia nell'uso della tecnologia robotica e la prostata è l’organo tradizionalmente «preferito» su cui il macchinario viene utilizzato.«Quando c’è l’indicazione alla chirurgia e il paziente decide di farsi operare – conclude Rocco – è fondamentale che scelga un operatore e un centro di grande esperienza. Il robot da solo non basta. Che si opti per la laparoscopia, l’intervento “aperto” o la robotica, affidarsi a chi ha già alle spalle molti interventi può fare la differenza».

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