ROBERTO OLIGERI
Cronaca

Fino in Friuli con cavallo e calesse alla ricerca della tomba del figlio

"Vi racconto l’incredibile e commovente viaggio del mio bisnonno Paolino"

Enrico Simonelli

Enrico Simonelli

Massa Carrara, 4 novembre 2016 - «Egregio signore, dietro incarico ricevuto dal signor dottore di questo ospedale, purtroppo devo notificarvi che il povero suo figlio Jacopo cessò di vivere il giorno 1° gennaio 1916 alle ore 2. Ebbe i conforti della nostra santa religione e morì rassegnato e tranquillo. Ebbe un pensiero per lei, la mamma, la moglie e la figlia. Ebbe i funerali con gli onori militari e fu sepolto nel cimitero di Palmanova dove la sua tomba verrà segnata da una croce in ferro portante nome, cognome e data di morte... ».

«Quando arrivò questa cartolina postale inviata dal cappellano militare, nella casa del mio bisnonno Paolo Bettarini, calarono le tenebre». Enrico Simonelli, 70 anni, pisano d’origine ma lunigianese d’adozione, a un secolo di distanza, estrae dal cassetto dei ricordi quella fatidica «Regia cartolina» e apre il suo animo, quasi una liberazione, nel raccontare una storia tragica, inedita e commovente, tenuta celata per una vita. La triste fine del nonno materno Jacopo, 27 anni, con una moglie, Adele, e una figlia appena nata, Emma, soldato effettivo al 33° Reggimento Artiglieria pesante da montagna, ferito a morte da una granata nemica nel dicembre 1915 nella quarta battaglia dell’Isonzo, durante i tentativi della Terza armata italiana di conquistare Gorizia, e deceduto dopo settimane di atroci sofferenze in un ospedale da campo a Palmanova del Friuli.

«Paolino» Bettarini, il padre dell’artigliere morto, commerciante di foraggi a Collesalvetti, appena ricevuta la notizia, incurante delle implorazioni della moglie e degli altri familiari, presi soldi e documenti, viveri e vestiario, attaccò il calesse al suo cavallo migliore e partì alla volta di Palmanova. Era il 10 gennaio 1916 , in piena guerra. «Nerone», il suo cavallo, era un maremmano purosangue e ciò permise la traversata dei passi appenninici ostruiti da neve e ghiaccio. Poi in Veneto il tenace padre dovette lasciare l’ormai stremato «Nerone» a una stazione di posta. Le “poste” erano gli alloggiamenti dell’epoca per i cavalli quando i loro proprietari si spostavano su lunghe distanze. Si lasciava il cavallo, il titolare se ne prendeva cura e ne metteva a disposizione un altro fresco. Al ritorno si pagava le spese di mantenimento, si restituiva il cavallo prestato e si riprendeva il proprio. Durante quel viaggio Paolino ha dormito nei pagliericci, nelle rare e sgangherate locande dell’epoca e nelle fattorie dei contadini. Erano tempi di miseria ma c’era «solidarietà». «Dove ti va fiol? Ti si tuto matto; ghe la guera là, no ti passa...», gli dicevano i mezzadri veneti invitandolo alla loro modesta tavola. «Mio figlio, devo trovare mio figlio», era la risposta sommessa, quasi una incessante cantilena, dello sconsolato genitore.

Nella prima settimana di febbraio, giunse infine nella pianura friulana ricoperta di neve. Mano a mano che l’uomo avanzava, incontrava file sterminate di cavalli, cariaggi, cannoni, soldati in armi che lo guardano stupiti, come un fantasma. Sempre più frequentemente, con incontri ravvicinati di truppe dirette in prima linea, ecco giungere incessantemente dalle montagne dei cupi brontolii che nell’avanzare si trasformano in esplosioni inquietanti. Paolo alla fine fu fermato da una pattuglia composta da quattro Carabinieri Reali: «Alt! Chi siete e dove andate? Mostrate le vostre carte», ingiunge il capo pattuglia, un brigadiere baffuto. Bettarini porge i documenti «Mio figlio, mio figlio è morto – dice – è sepolto a Palmanova; vado a riprendermi il suo corpo». «Voi siete pazzo – ribatte il sottufficiale – non possiamo farvi passare, là c’è la guerra, sentite tutte queste esplosioni, è l’artiglieria austro-ungarica che prepara il contrattacco per la sua fanteria; c’è il rischio che veniate fatto prigioniero o peggio che siate fucilato». E poi il militare scuote la testa continuando a leggere i documenti: «Ma voi siete venuto dalla Toscana fin qui con cavallo e calesse? Ma come avete potuto? Incredibile». «Sì, ho promesso “alla mi’ moglie” di riportarle indietro il corpo di nostro figlio Jacopo, che aveva 27 anni... una moglie e una bimba piccina... Signor brigadiere, voi capite... ». Allora il militare si sciolse: «Bettarini – gli dice – tengo anch’io una moglie e tre figli piccoli, a Bari, e vi capisco, ma qui c’è la Corte marziale, non vi posso far passare. Però voglio venirvi incontro. Alla prossima fattoria fermatevi, i mezzadri lì sono brave persone, fidate. Lasciate che si prendano cura del cavallo, del calesse e delle vostre masserizie. Con voi portate solo lo stretto necessario. Dovete passare inosservato, spacciandovi per un abitante della zona. Naturalmente noi non ci siamo mai incontrati. Se avrete fortuna arriverete a Palmanova e troverete la tomba del vostro povero figlio. Ma sappiate che non potrete portare via il corpo, però statene certo che la salma vi sarà restituita. Ora andate e che Dio vi assista». Fedele alle disposizioni del carabiniere, Paolo andò nella fattoria indicata dove il capofamiglia si prese cura di cavallo, calesse e carico. Paolino cenò con loro (polenta e piccoli pesci di fiume) e dormì nel casolare. Durante la cena gli indicarono le scorciatoie per giungere a Palmanova senza dare nell’occhio.

«Fortunosamente – racconta oggi Enrico Simonelli – mio bisnonno Paolino giunse poi a Palmanova. L’ospedale a cui aveva fatto cenno il cappellano nel suo scritto, era un ospedale da campo e a poca distanza, in un improvvisato cimitero militare, fra le migliaia presenti, trovò la croce in ferro, con appeso l’elmetto e la piastrina di riconoscimento con incisi i dati del figlio Jacopo. I miei hanno sempre raccontato che nonno Paolino si inginocchiò di fronte quel cumulo di terra e pianse tutte le lacrime di cui un uomo può essere capace di versare in tutta la sua vita. Non gli venne restituita la salma del figlio, questa giunse a casa a fine anno con una tradotta militare, assieme a quella di Alemanno Del Bravo, coetaneo del nonno Jacopo e suo vicino di abitazione. Entrambi furono tumulati nel cimitero di Collesalvetti. Il bisnonno, rientrò a casa il 15 marzo, l’altro suo figlio, mio zio Palmiro, con la moglie Aristea presero la solenne decisione di adottare mia madre Emma, allora bambina».