Alex Schwazer positivo al doping, quella tentazione difficile da evitare

Quando vai fuori giri è difficile rientrare. Per questo è complicato credere nelle seconde possibilità dello sport, per questo i sospetti che si lascia dietro il doping sono indelebili. Il doping è droga, dà assuefazione ed è sempre complicato credere a chi si è lasciato tentare.

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C’è stato un tempo in cui Alex Schwazer non aveva di sicuro bisogno di aiuti chimici. Fuoriclasse assoluto della marcia, inizia a macinare strada e fatica da giovane: vince la prima medaglia mondiale nella 50km nel 2005, si infuria davanti alla seconda, nel 2007, perché la vuole già d’oro ed è ancora di bronzo, programma il trionfo olimpico con un’ossessione che lo divora e si è ritrova con la medaglia più ambita e sofferta e la paura di non sapersi ripetere. In pratica solo.

E’ ancora fidanzato con Carolina Kostner, conosciuta a Torino, frequentata di nascosto, poi svelata proprio sul traguardo dei Giochi 2008, con un bacio al braccialetto, pegno d’amore. Lì, con la bandiera al collo e la vita finalmente piena, si sente un re. E quella sensazione lo esalta, lo stordisce.

Per vincere sul tracciato di Pechino, nel circuito intorno al Nido, spreme ogni goccia di resistenza. Capisce da subito che ripetersi sarà quasi impossibile, almeno senza lunghe pause, e inizia a deragliare.

Nel 2009 si ritira dalla sua gara, agli Europeo del 2010 anche: vince la 20 km, di cui disconosce l’importanza, ed entra direttamente nel tunnel. A quel punto cambia guida, lascia il suo allenatore storico Sandro Damilano per trovare stimoli freschi. Sceglie Didoni come supervisore di un nuovo progetto e un’ostentata vita da eremita che, poi si scoprirà, serviva a trafficare dietro a sostanze illecite e consulenti altrettanto illegali. Perde la rotta.

E’ in questo periodo che tradisce la fidanzata, non si tratta di corna ma di fiducia: la manda ad aprire le porte agli ispettori antidoping, Alex è braccato e lo sa. Allo sbando, trascina a fondo anche lei. Lui rimedia tre anni e mezzo lei quasi.

Per raccontare la frode Schwazer piange, mentre l’Italia è a Londra a gareggiare, il marciatore è a Bolzano a spiegare che si è sentito abbandonato, finito e frustrato, che sapeva dei metodi russi e l’idea di non muoversi ad armi pari lo faceva impazzire. Si ferma, azzera, giura di aver capito e ritrovato la voglia, mette su un team che certifichi il corso impeccabile del rientro mentre il Paese si divide tra chi crede nella seconda vita e chi semplicemente non crede più in lui.

La fiducia tradita non si restaura con le buone intenzioni. Il marciatore dice di capirlo, prova a tenere un profilo basso, ma prima se ne esce con l’infelice frase «tutti i professionisti hanno pensato a doparsi almeno una volta nella vita», poi accusa uno dei medici rinviati a giudizio nel processo penale (aperto sulla base delle sue confessioni): «Sapeva dell’epo, non mi ha fermato». Non ha ancora potuto provare nessuna delle due affermazioni.

Schwazer lancia il progetto cambiamento: vuole al suo fianco Donati, ex consigliere Wada, simbolo della lotta al doping. Il certificato non basta, esaurito il bando Schwazer torna a marciare alla Coppa del Mondo di marcia. A Roma si scatenano favorevoli e contrari. Tamberi, uomo che oggi rappresenta l’atletica azzurra, affronta Schwazer via Facebook: «Non dovrebbe far parte della squadra italiana». L’altro si agita «Basta, cosa posso fare per provare che sono pulito?». Si qualifica per Rio, ma il biglietto è già scaduto.