“Donald e Brexit sono figli della rivolta del ceto medio”

L’ad di Borsa Raffaele Jerusalmi: ora politiche contro la diseguaglianza

Tutto si spiega con la globalizzazione e il modo in cui è stata gestita. «Non voglio demonizzarla, anzi», ammette Raffaele Jerusalmi, però è chiaro che la caduta delle barriere globali «ha avuto un forte impatto negativo sul ceto medio di cui il referendum sulla Brexit e l’elezione di Trump sono riflesso diretto, alla stregua del fiorire e dell’affermarsi di movimenti populisti in paesi come Grecia, Francia, Germania e Italia». Chi ha dubbi rilegga le cronache di questi mesi, lo shock britannico e quello americano erano già scritti. «Non è un caso - concede l’amministratore delegato di Borsa Italiana - che i due paesi che più aggressivamente hanno pensato, a torto o ragione, che la globalizzazione fosse una grande opportunità si ritrovano il conto politico più salato: non è un caso perché pagano l’indebolimento e la perdita di fiducia della classe media». Se ne deduce che l’Occidente corre su un crinale insidioso, verso la “terra incognita” della post globalizzazione, con americani e britannici in testa. Forse. «Il malessere è emerso e si è manifestato alle urne», sottolinea Jerusalmi, classe 1961, scacchista, esperto di affari e mercati, dal 2010 alla guida di Piazza Affari, appassionato del grande schema delle cose. Rivela di aver predetto sia la Brexit che Trump, dati inevitabili resi più anomali dal fatto che «America e Regno Unito sono i Paesi usciti meglio dalla crisi». Hanno finito per essere vittime, riassume, «dei tanti che, col voto, hanno protestato per il loro malessere». In altre parole, sono stati scossi «dal prevalere della paura sulla speranza».

Rivolta del ceto medio, dunque?

«Un effetto della globalizzazione è stato l’affermarsi di aree geografiche dalla manodopera meno costosa. Questo ha mosso rapidamente i capitali, insieme con le produzioni. Le classi medie hanno perso lavoro, in difficoltà davanti a questa nuova concorrenza. Si è generata una deflazione che ha ridotto i salari nominali, colpendo gli operai e gli impiegati delle aziende rilocalizzate. È un tema globale. Ma più pronunciato nei Paesi più aggressivi che oggi sono i primi a cercare alternative».

Eccoci a Usa e Regno Unito. Come se ne esce?

«È un brutto circolo vizioso dal quale si può uscire solo con politiche che facilitino la redistribuzione della ricchezza, agendo su variabili come i contratti o la tassazione».

Mica facile, visti i tempi.

«Per nulla. Anche perché la crisi del ceto medio non sarebbe stata altrettanto grave se non fosse coincisa con la digitalizzazione e lo sviluppo tecnologico. Essi hanno consentito di aumentare l’attività, ma hanno ridotto il mercato del lavoro. Su questo s’è innescata la crisi finanziaria».

Il voto del malessere porta a una nuova rivoluzione?

«È un segnale. Conforta che il processo ha una natura pienamente democratica e non si vedono i rischi di una deriva autoritaria».

È possibile che il superconservatore Trump sia costretto a fare il socialdemocratico?

«Potrebbe essere, ma non è detto. Le differenze fra destra e sinistra sono più difficili da rappresentare. Molte ideologie su cui si basavano le dinamiche politiche non esistono più. Oggi c’è la necessità di rispondere in modo più pragmatico alle richieste dei singoli individui. A prescindere da destra e sinistra».

Immagina il paradosso in cui il nuovo Presidente degli States diventa il più democratico dei repubblicani.

«Chi governa non può agire indipendentemente dal suo paese. Non scrive su un foglio bianco, ha dei vincoli di cui tenere conto, a partire dalla percezione dei cittadini a cui deve rispondere».

I casi Trump e Brexit ci dicono che siamo in un fase di post globalizzazione?

«Abbiamo visto dei segnali necessari. O richiesti dalle circostanze. La storia dirà quale tesi è buona. L’importante è prendere atto del problema e della complessità delle soluzioni. La consapevolezza è sempre un buon punto di partenza».

Dopo Trump e Brexit, dobbiamo aspettarci una vittoria di Hofer in Austria e una sconfitta di Renzi al referendum?

«Il voto americano e quello britannico denunciano il desiderio di protestare, ma anche di smentire i sondaggi. Ora potrebbe prevalere la voglia di un effetto sorpresa».