Terza
Guerra Punica
Dopo la fine della
seconda guerra punica Cartagine aveva cessato di rappresentare un pericolo per
Roma e aveva accettato il ruolo di Stato satellite. Tuttavia la prosperità
commerciale di questa città, che si era ripresa rapidamente dai danni del
conflitto, non mancava di impensierire l’opinione pubblica romana. Fu così
progettata e portata a compimento la distruzione completa di Cartagine.
A favore della
distruzione di Cartagine si schierarono sia i tradizionalisti, capeggiati dal
censore Marco Porcio Catone, che volevano distrarre dall’Oriente le
forze espansionistiche dello Stato Romano, sia il ceto affaristico dei cavalieri
che si sarebbero volentieri sbarazzati di una concorrenza pericolosa. Eliminati
i Cartaginesi, gli imprenditori romani avrebbero messo le mani su una grande
fetta del commercio mediterraneo; si aggiunga anche che la memoria storica dei
Romani vedeva nei Cartaginesi i nemici per eccellenza: perciò una guerra finale
contro Cartagine era vista con favore dalla società romana. Secondo la
tradizione, il principale banditore di questa impresa fu Catone, che terminava
ogni suo discorso in Senato con la frase: «Penso, inoltre, che Cartagine
debba essere distrutta».
Il pretesto
dell’aggressione fu offerto da una contesa di confine tra Cartagine e il re
dei Numidi, Massinissa. Poiché il trattato di pace stipulato alla fine della
seconda guerra punica impediva a Cartagine di dichiarare guerra senza il
consenso di Roma, quando i Cartaginesi, stanchi delle provocazioni di Massinissa,
risposero con le armi in pugno, il Senato decise che si era verificato il casus
belli (149 a.C.).
I Cartaginesi si
dichiararono pronti a qualsiasi dichiarazione; ma i Romani, dichiararono di
voler distruggere la città.
Malgrado la loro
schiacciante superiorità militare, i Romani impiegarono tre anni prima di poter
impadronirsi della città. A concludere le operazioni fu inviato Scipione
Emiliano (figlio adottivo di Scipione Africano). L’assedio si concluse nel
146 a.C. con l’espugnazione della città di Cartagine.
Cartagine passò sotto
il dominio di Roma. Lo stesso Scipione Emiliano fu inviato poco dopo in Spagna a
sottomettere la popolazione dei Celtiberi. Scipione espugnò la capitale nemica Numanzia
(133 a.C.).
CRONOLOGIA
DELLE GUERRE PUNICHE
Prima
guerra punica:
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264 a.C.: i Romani vincono i Cartaginesi a Messina e occupano Agrigento.
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260 a.C.: il console Caio Duilio sconfigge la flotta punica a Milazzo.
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255 a.C.: il console Attilio Regolo è sconfitto in Africa.
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241 a.C.: sconfitta della flotta cartaginese e fine della I guerra punica.
Seconda
guerra punica:
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221 a.C.: Annibale prende Sagunto, in Spagna, alleata dei Romani.
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218 a.C.: Annibale, varcate le Alpi, vince sul Ticino e sul Trebbia.
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217 a.C.: Annibale vince sul Lago Trasimeno.
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216 a.C.: Vittoria di Annibale a Canne (Puglia).
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204 a.C.: Scipione l’Africano sconfigge Annibale a Zama. Fine della II guerra
punica.
Guerre
macedoni:
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197 a.C.: Roma sconfigge Filippo V, re di Macedonia.
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168 a.C.: Roma sconfigge Perseo, figlio di Filippo.
Terza
guerra punica:
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150 a.C.: Cartagine attacca il Regno di Numidia.
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146 a.C.: Cartagine è rasa al suolo. Fine della III guerra punica.
Dopo
25 anni dalla distruzione di Cartagine, nel 122 a.C. fu fatto un tentativo da
parte di Caio Gracco e del partito democratico di fondare una nuova
colonia al posto dell’antica città, chiamata dal nome dell’antica dea
protettrice Caelestis (Giunone), colonia Iunonia. Il tentativo però fallì.
Nel 44 a.C. con Cesare questo progetto fu realizzato. La città venne
rinnovata e rinforzata con l’apporto di nuove colonie, i togati cives. La città
già avvantaggiata dalla sua posizione, divenne una delle colonie romane più
popolata e più ricca dell’Africa. Era la meta preferita degli imperatori
successi ad Augusto: Traiano, Adriano, Antonino Pio, Caracalla.
Dopo
la metà del III secolo iniziò la sua decadenza, accelerata dal disordine che
recarono alla vita della città le lotte tra gli usurpatori dell’impero, le
discordie religiose, le ribellioni delle popolazioni indigene.
Nella
prima metà del V secolo, alla vigilia dell’invasione dei Vandali,
Cartagine era tuttavia ancora una città magnifìcata come la più bella dopo
Roma. Genserico, re dei Vandali se ne impadronì nel 439 d.C. e ne fece di essa
la capitale del suo regno. L’impero di Bisanzio tentò inutilmente la
riconquista nel 468 d.C. per mezzo di Basilisco che fu completata nel
533 d.C. a opera di Belisario, il quale in onore di Giustiniano volle
chiamare la città Iustiniana. Belisario riparò i guasti dei Vandali, restaurò
e costruì edifici; l’apparato esteriore però non poteva compensare Cartagine
dei danni più gravi e profondi delle lotte tra i generali, le pestilenze, le
guerre contro gli indigeni.
Infine
nel 698 d.C. Cartagine fu occupata dagli Arabi; secondo gli storici
allora essa fu completamente distrutta: è da credere invece che, sebbene
ridotta in condizioni miserevoli e abbandonata dagli abitanti, fuggiti in
Sicilia e in Spagna, divenne una roccaforte
araba.
Verso
la fine del V secolo a.C. Cartagine era una colonia fondata sul baratto,
a differenza delle altre sue concorrenti che già da tempo operavano con la
moneta. Ad esempio Siracusa equivaleva a una New York
dell’antichità, nei viali lussuosi di Selinunte rumoreggiava un
traffico tumultuoso. I Cartaginesi quindi compresero che negli imminenti
contrasti i fattori materiali non avevano un ruolo decisivo. Per sopravvivere la
città doveva mobilitare anche altre forze. Con tutta probabilità, tentò di
farlo consapevolmente. L’apparato statale rigidamente organizzato venne
costruito su una tradizione religiosa accuratamente osservata. Se già i
fondatori della città si erano guadagnati la fama di religiosi, i loro
discendenti dovevano diventarlo ancor di più. Ben presto a Cartagine si
venerarono divinità fenicie d’Oriente, le quali tuttavia presero a
modificarsi notevolmente. Naturalmente si veneravano anche oltre al dio fenicio Tanit,
una serie di altre divinità la più eminente delle quali era Melkart. I fenici
occidentali tuttavia, presero probabilmente sul serio solo la sublime trinità
di Baal-Hammon, Eshmunn, Tanit; alla quale era consacrata
la parte centrale del culto cartaginese: il sacrificio. L’offerta di doni
votivi sembra rappresentasse per i mercanti nordafricani l’unica possibilità
di comunicazione con le autorità celesti. E, anche per loro, sacrificio non
significava solo offerta di farina, olio, latte o carne, bensì, e soprattutto,
offerta di vite umane. Gli eletti al sacrificio, bambini e adulti, venivano arsi
vivi nel tofet sopra una semplice pira, oppure venivano sistemati nelle
mani aperte di una grande statua di bronzo e di lì fatti scivolare nel fuoco.
In generale, valeva per il terribile rituale il principio del molchomor,
la sostituzione della creatura umana mediante una bestia viva: ma non sempre.
Ogni tanto, in cambio della benevolenza verso i fedeli, gli dei esigevano carne
e sangue umano. Se questa suprema dimostrazione di culto non si ripeteva con
sufficiente regolarità, gli dei usavano mostrarsi estremamente malevoli.
A
Cartagine, tuttavia, i grandi sacrifici umani si succedevano frequenti
solo quando la città era in stato di emergenza o doveva rendere grazie per una
grossa vittoria.
Il
quadro di queste cerimonie è reso ancora più tetro dal fatto che ai parenti
delle vittime era severamente vietato esternare il proprio dolore dinanzi
all’altare. Lacrime e gemiti avrebbero sminuito il valore del sacrificio.
Cartagine
è entrata nella storia come simbolo di religiosità arcaica. I
Cartaginesi non credevano che si potesse ottenere in dono vita e benessere: il
loro realismo consentiva poche illusioni. Né si ripromettevano molto dalla vita
dopo la morte, per cui i morti ricevevano sì doni votivi nella tomba, ma
apparivano piuttosto abbandonati a un mondo infero del quale nessuno aveva
un’idea precisa. Per quanto riguarda queste cerimonie di sacrificio, la casta
sacerdotale preposta ai templi cartaginesi lavorava secondo regole e tariffe
precise. In un documento trovato presso Marsiglia si legge, per esempio:
«Tempio
di Baal-Saphon. Elenco delle tariffe stabilite dai 30 controllori: per ogni bue
- si tratti di sacrificio propiziatorio o di sacrificio col fuoco -, sono dovuti
ai sacerdoti dieci pezzi di argento». Il decreto stabilisce inoltre la cifra
per altre bestie e per le offerte vegetali.
Come
si vede si teneva all’ordine. A ogni tempio era preposto un sommo sacerdote,
assistito da due vicari. Costoro comandavano a loro volta uno staff
amministrativo formato da sagrestani, contabili, musici e barbieri (incaricati,
questi ultimi, di rasare la testa ai dolenti). Essere primo sacerdote o
addirittura sommo sacerdote di un’intera città era una carica molto ambita,
che, spesso, restava per generazioni nelle mani di determinate famiglie,
generalmente membri del patriziato.