Artù 2012 01/02

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protagonisti

EUGENIO POL pane amore e coraggio di Luisa Contri Prelibati pani a lievitazione naturale, realizzati interamente a mano a partire da cereali biologici e biodinamici di varietà antiche. È con una piccola produzione – non più di 500 kg di pane la settimana – che Eugenio Pol, in arte Vulaiga (termine che nel dialetto della Valsesia indica la neve quando scende leggera come farina), è diventato il fornaio più corteggiato da grandi chef e gestori di selezionate gastronomie. A rendere super ambiti i pani di Eugenio Pol sono la fragranza, il profumo, il gusto unico che danno loro i cereali di cui sono fatti e la sapiente lavorazione tutta naturale e manuale con cui sono prodotti. Sintetizzando pani che sono protagonisti in tavola e comprimari in cucina. Ma c’è dell’altro. Questi pani hanno un’anima. Portano in sé dei valori. Sono, infatti, il frutto della ricerca di Pol del significato profondo dell’alimentarsi (siamo o non siamo quello che mangiamo?), attraverso la riscoperta dei cibi d’un tempo. Quei cibi ottenuti da cultivar di cereali non modificati nella loro essenza con le moderne tecniche del miglioramento varietale, e lavorati senza l’impiego d’artifici. Le micche di montagna, il pane di segale, quello di frumento monococco o di grano del faraone (il «kamut» italiano), quello col grano arso o col grano saraceno e il fieno o con le erbe montane, sono insomma frutto della sua minuziosa e tenace ricerca e riscoperta d’ingredienti del tutto naturali e di qualità eccelsa, con una lunga tradizione alle spalle. Ingredienti semplici e genuini che Vulaiga dosa e miscela sapientemente per poi lavorarli rispettando i tempi della natura, in un’epoca in cui la fretta pervade l’esistenza dei più. Anche il processo d’avvicinamento di Pol al pane ha richiesto del tempo. È il risultato d’un percorso esistenziale che l’ha distolto dalla sua professione originaria, il perito chimico, portandolo a diventare cuoco. All’inizio degli anni Ottanta, infatti, Pol abbandona l’impiego a Milano per prendere in gestione un’osteria a Rima, piccolo borgo della val Mastallone all’interno del Parco

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Artù n°48

naturale dell’Alta Valsesia. Un territorio incontaminato, fatto di boschi, di fiumi, di montagne, di piccoli paesi e di case sparse, che aveva imparato a conoscere e ad amare da bambino, accompagnando il padre appassionato di pesca. «Allora Rima era un paesino con cinque abitanti effettivi», racconta ad Artù Pol, «che s’animava d’estate, ma che d’inverno restava spesso isolato per la neve, il ghiaccio, le valanghe. Per 4 anni nella bella stagione ho cucinato per la clientela di vacanzieri che frequentava l’osteria. D’inverno scendevo a Milano e andavo a lavorare da macellai e pescivendoli per conoscere bene le materie prime. Già allora non m’accontentavo di quanto potevo apprendere sui libri». A Rima Pol faceva una cucina territoriale. «Ero comunque alle prime armi», ammette, «e facevo quello che potevo. In tempi in cui non s’era ancora affermata la moda della cucina del territorio, proponevo come pesce trote pescate localmente e le cucinavo senza pomodoro, perché a Rima i pomodori non crescevano». Rientrato a Milano, Pol ha lavorato come cuoco in un paio di locali (La Vittoria in via Anfiteatro e la Cà di Matt in zona Canonica), ma agli inizi degli anni Novanta è tornato in Valsesia a Varallo, chiamato da un’amico a dirigere la cucina di una mescita di vino con degustazione di salumi e formaggi. «È proprio a Varallo», dice Pol, «che ho iniziato a fare il pane, perché quello che compravo non mi piaceva. E, avendo sentito parlare di lievitazione naturale, ho cominciato a sperimentare, fino a che son riuscito a fare un pane che piacesse a me e anche ai miei clienti. Dopo aver mangiato al ristorante, in molti mi chiedevano di poter comperare una pagnotta da portarsi a casa. Già allora mi rifornivo di farine biodinamiche da Renzo Sobrino di La Morra, nelle Langhe. È il mio attuale mugnaio, quello che considero uno dei migliori del settentrione, se non di tutt’Italia». La passione di Pol per il pane intanto cresceva e, quando la sua futura moglie, Federica, originaria di Fobello, gli propose d’affittare dai suoi parenti un piccolo appartamento che avrebbe potuto trasformare in laboratorio, quasi per scherzo accettò, lasciando il ri-


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