069. Le vicende editoriali de I promessi sposi - Grand Tour nel cuore della Lombardia

Le vicende editoriali de I promessi sposi

Quel che oggi conosciamo come il maggiore romanzo italiano è il frutto di una storia lunga e complicata. Del resto il Manzoni è noto per una caratteristica inconfondibile: la perenne insoddisfazione e la conseguente rivisitazione di tutte le sue opere. La prima idea del romanzo passato alla storia col titolo “I promessi sposi” risale alla primavera del 1821, quando avvia la stesura del “Fermo e Lucia”, del quale in poco più di un mese compone i primi due capitoli. Presto però arriva la prima interruzione per dedicarsi all’“Adelchi”, al “Cinque maggio” e ad altri lavori rimasti incompiuti. L’anno dopo si rimette al lavoro su questa storia che trae spunto dalla lettura di alcuni manoscritti recanti episodi realmente accaduti, per esempio le minacce a un curato di campagna per non celebrare il matrimonio tra due giovani, che diverranno centrali nel successivo sviluppo della trama. Come noto, però, il “Fermo e Lucia” non viene pubblicato mentre Manzoni è in vita. La prima edizione risale al 1915 col titolo “Gli sposi promessi”. Oggi si tende a considerarla un’opera autonoma piuttosto che un laboratorio di scrittura necessario al futuro romanzo. Ad essa si associano le vicende della “Storia della colonna infame”, un saggio che descrive il malgoverno lombardo ai tempi della peste del 1630, esemplificato dal processo intentato contro i supposti untori Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora. Una prima stesura della Colonna infame” risale al 1823, quando Manzoni è ancora alle prese con il “Fermo e Lucia” e tenta di inserire nel romanzo un capitolo interamente dedicato al processo summenzionato: resosi presto conto che il lavoro richiede più spazio, redige però un testo autonomo intitolato “Appendice storica sulla colonna infame”. Bisognerà attendere fino alla cosiddetta Quarantana per poter leggere il complemento storico, che nel frattempo aveva mutato titolo in “Storia della colonna infame”.

Per comprendere meglio le vicissitudini del romanzo facciamo un passo indietro. Manzoni termina la prima stesura del testo che prende quale titolo “I Promessi Sposi” nel settembre 1823 e ne intraprende subito un’assidua revisione. Nel giugno del 1824, l’editore Vincenzo Ferrario di Milano, incaricato della stampa, può consegnare al vaglio della censura il primo volume, che vede la luce nell’ottobre dello stesso anno. Al frontespizio, però, si imprime 1825, con l’idea e la speranza di riuscire a terminare la stampa dell’intera opera entro quella data. I lavori procedono spediti per il secondo volume, che appare sempre nel 1825. La lavorazione del terzo volume, invece, richiede più tempo: i torchi sono avviati nel 1826, sul frontespizio si imprime la data di quell’anno, ma la pubblicazione viene terminata solo nel giugno del 1827. Ventisettana è infatti il termine con cui si indica la prima edizione de “I Promessi sposi”. I tre volumi, stampati in una tiratura di mille copie, vengono infine messi sul mercato al costo di dodici lire. Alcuni più pregiati costano venti lire, vi è anche una tiratura limitata in velina grande con le copertine azzurre e senza l’indicazione del prezzo. Manzoni segue da vicino la stampa dell’opera, correggendo refusi e sviste mentre i torchi sono ancora in movimento. La fortuna del romanzo è pressoché immediata e immensa, all’autore ne arrivano echi da ogni luogo. Riceve lettere di ammirazione, stupore, commozione.

Tredici anni dopo la pubblicazione dell’editio princeps, Manzoni è pronto a dare alle stampe una nuova versione del suo capolavoro: profondamente rivista e aumentata, esce a dispense tra il 1840 e il 1842, e prende il nome di Quarantana. È l’edizione definitiva del più importante romanzo italiano dell’Ottocento. L’autore introduce tre novità sostanziali: in primo luogo elimina tutti i tratti linguistici e lessicali riconducibili alla Lombardia, di cui la Ventisettana abbonda, è la celeberrima «risciacquatura dei panni in Arno». Poi decide di dare alle stampe un’edizione riccamente illustrata. Per la realizzazione del complesso apparato iconografico, si rivolge in prima battuta a Francesco Hayez che ha già illustrato “I Lombardi alla prima crociata” di Tommaso Grossi e l’“Ivanhoe” di Walter Scott. Gli esiti delle prime prove però sono deludenti e lo stesso Hayez si ritira dall’impresa. Altri disegnatori declinano l’offerta intimoriti dalle dimensioni del lavoro, Manzoni allora decide di coinvolgere Francesco Gonin, giovane torinese amico di Massimo D’Azeglio, che del Manzoni è il genero avendo sposato la primogenita Giulia nel 1831. È dunque Gonin a realizzare la maggior parte delle oltre quattrocento vignette che corredano il testo; solo in pochi casi, intervengono anche le mani di altri disegnatori da lui diretti. La realizzazione delle immagini viene affidata a una squadra di incisori di primo piano, fatti arrivare dall’estero per l’occasione: i francesi Berndard, Pollet e Loyseau, e l’inglese Sheers. Le operazioni di impressione sono guidate dalla mano esperta del pavese Luigi Sacchi che pazientemente media tra gli illustratori e gli incisori e ritocca le vignette prima che siano intagliate per far fronte alle modifiche sul testo che l’autore continuamente introduce durante la correzione delle bozze. Manzoni è comunque il vero regista dell’apparato iconografico. Su un quadernetto manoscritto di cinquantacinque  fogli, ora conservato presso il Fondo Manzoniano della Biblioteca Nazionale Braidense di Milano, sono contenute tutte le istruzioni che fornisce personalmente agli artisti con meticolosa precisione: i passi da illustrare, i soggetti da ritrarre, i dettagli degli sfondi e il taglio delle inquadrature, la dimensione delle vignette e addirittura la loro posizione sulla pagina. Nulla, ma proprio nulla è lasciato al caso. Alla fine del lavoro la soddisfazione di tutti è grande. Da ultimo, Manzoni decide di pubblicare in appendice la “Storia della Colonna infame”, a suggello di tutte le vicende narrate nel romanzo e in particolare degli episodi relativi alla peste del 1630.

La stampa è affidata alla ditta di Vincenzo Guglielmini e Giuseppe Redaelli. L’edizione esce a dispense, assecondando una consuetudine ormai assai diffusa in Europa. Ogni quindici giorni appare un fascicolo di 16 pagine composto da due dispense, ciascuna venduta al prezzo di 40 lire. È un modo per sostenere le spese di stampa in corso d’opera e anche per rendere difficile la vita alle edizioni pirata, non autorizzate dall’autore, fiorite numerosissime dopo la pubblicazione della Ventisettana e causa di notevoli danni economici. La tiratura è programmata inizialmente in 5000 esemplari, ma presto Manzoni decide di raddoppiarla. Per di più sceglie anche di utilizzare, per la prima volta in Italia, i cosiddetti torchi alla Stanhope. Sono macchine interamente costruite in metallo, che nel resto d’Europa stanno già rivoluzionando la produzione del libro. Il nuovo sistema permette di ottenere eccellenti risultati nella stampa di xilografie e, dunque, è particolarmente adatto alla realizzazione di questa edizione illustrata. Le spese però lievitano. Nonostante al principio si registri un numero molto alto di sottoscrittori, alla fine della stampa restano nei magazzini più di 5000 copie invendute.