W. Somerset Maugham
Il mago
Traduzione di Paola Faini
Adelphi eBook
TITOLO ORIGINALE:
The Magician
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dalla legge sul diritto d’autore
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anche parziale, non autorizzata
In copertina: Cerchio magico-astrologico
delle influenze tra micro e macrocosmo
Prima edizione digitale 2020
© THE ROYAL LITERARY FUND
© 2020 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO
www.adelphi.it
ISBN 978-88-459-8282-8
IL MAGO
1
Arthur Burdon e il dottor Porhoët camminavano in silenzio.
Avevano pranzato in un ristorante di boulevard Saint-Michel, e
ora facevano quattro passi per i giardini del Luxembourg. Il
dottor Porhoët procedeva con le spalle curve, le mani dietro la
schiena. Osservava la scena con gli occhi dei tanti pittori che
hanno cercato di esprimere il loro senso della bellezza
attraverso il giardino più suggestivo di Parigi. L’erba era
disseminata di foglie secche, ma il loro languido disfarsi
conferiva ben poca naturalezza all’artificiosità dello sfondo.
Cinti da cespugli ordinati, a loro volta circondati da aiuole ben
curate, gli alberi crescevano senza alcuna spontaneità, quasi
fossero consapevoli dello schema decorativo che contribuivano
a formare. Era autunno, e alcuni erano già spogli. Molti fiori
erano appassiti. Il giardino formale faceva pensare a una donna
un po’ vana, non più giovane, che con la sua eleganza datata,
con cipria e belletto, tentasse di celare dietro un volto intrepido
la sua disperazione. Aveva gli stessi sorrisi falsi, stentati, di
imposta gaiezza, e quella penosa grazia che si sforza di
mantenere il fascino reso inconsistente dal trascorrere veloce
degli anni.
Il dottor Porhoët si strinse al fragile corpo il pesante mantello
di cui, anche in estate, non riusciva a fare a meno. Gran parte
della sua vita l’aveva trascorsa in Egitto, lavorando come
medico, e le fredde estati europee riuscivano appena a
scaldargli il sangue. Il suo ricordo saettò per un istante sopra
le strade variopinte di Alessandria; poi, come un uccello che
torni al nido, volò via verso i verdi boschi e le coste percosse
dal vento della natia Bretagna. I suoi occhi scuri si velarono di
una improvvisa malinconia.
«Fermiamoci un momento» disse. Presero due sedie di paglia
e sedettero accanto alla vasca ottagonale che, con la sua
fontana di cupidi, dà il tocco finale alla spettacolare artificiosità
del Luxembourg. Il sole ora scaldava con più delicatezza e gli
alberi che facevano da cornice alla scena erano dorati,
incantevoli. Una balaustra di marmo racchiudeva con garbo lo
spiazzo e i fiori, piantati di fresco, erano vivacissimi. In un
angolo si scorgevano le pittoresche, tozze torri di Saint-Sulpice,
e nell’altro i tetti diseguali di boulevard Saint-Michel.
Il Palazzo era grigio, solido. Le balie, alcune con le cuffiette
bianche della loro provincia d’origine, altre con i nastri di raso
da nounou, marciavano tranquille a due a due, spingendo le
carrozzine e chiacchierando. Bambini in abiti dai colori accesi
correvano dietro ai cerchi o tentavano di far girare una trottola
renitente. Mentre li osservava, le labbra del dottor Porhoët si
schiusero in un sorriso talmente dolce che il suo volto sottile,
ingiallito dalla lunga esposizione al sole subtropicale, ne fu
trasfigurato. Non appariva più come un insignificante omino
dalle guance scarne e dalla rada barba grigia, perché
quell’espressione sfinita che gli era abituale svaniva dinanzi
alla contagiosa simpatia del suo sorriso. Gli occhi infossati
scintillavano di un tenero ma ironico buonumore. Passò davanti
a loro una guardia avvolta in un romantico mantello da
brigante di operetta, con il berretto a visiera simile a quello di
un alguacil. Un gruppo di fattorini in divisa azzurra era
radunato attorno a un pittore che faceva uno schizzo –
nonostante le dita quasi congelate. Qua e là, in pantaloni di
velluto sformati, giacche strette e cappelli a tesa larga,
sciamavano studenti che sembravano usciti dalle pagine
dell’immortale romanzo di Murger. Ma gli studenti di oggi
temono di apparire ridicoli, e spesso vanno in giro con le
bombette e gli abiti eleganti del boulevardier.
Il dottor Porhoët parlava inglese fluentemente, con appena
una traccia di accento straniero, ma il suo modo elaborato di
esprimersi suggeriva che aveva imparato la lingua più dallo
studio dei classici che dalla conversazione.
«E come sta Miss Dauncey?» domandò, rivolto al suo amico.
Arthur Burdon sorrise.
«Oh, credo che stia benissimo. Oggi non l’ho vista, ma andrò
a prendere il tè da lei nel pomeriggio. Perché non viene a cena
con noi, allo Chien noir?».
«Con molto piacere. Ma non preferireste star da soli?».
«È venuta a prendermi alla stazione, ieri, e abbiamo cenato
insieme. Abbiamo parlato ininterrottamente dalle sei e mezzo
fino a mezzanotte».
«O meglio, lei parlava e tu ascoltavi, con la beata attenzione
di un innamorato felice».
Arthur Burdon era appena arrivato a Parigi. Era chirurgo al
St. Luke’s Hospital e ufficialmente era venuto per studiare i
metodi operatori dei francesi, ma il suo vero scopo era vedere
Margaret Dauncey. Aveva lettere di presentazione da parte di
chirurghi londinesi di fama e aveva passato una mattinata
all’Hôtel-Dieu, dove il chirurgo di turno, avvisato che il
visitatore era un collega abile e ardito, dalla reputazione già
considerevole in Inghilterra, aveva cercato di impressionarlo
con imprese che sconfinavano nei giochi di destrezza. Allo
sguardo acuto di Arthur Burdon non era sfuggita la sfumatura
di ciarlataneria nei modi del francese, e nonostante ciò
l’audace sicurezza della sua mano l’aveva entusiasmato.
Durante il pranzo non aveva parlato d’altro, e il dottor Porhoët,
attingendo ai suoi ricordi, gli aveva raccontato gli interventi
più straordinari a cui aveva assistito in Egitto.
Conosceva Arthur Burdon da quando era nato, anzi, non era
stato presente alla sua nascita solo perché il chedivè Ismail lo
aveva richiamato inaspettatamente al Cairo. Ma il padre di
Arthur, un mercante levantino, era stato il suo più caro amico,
e fu dunque con piacere tutto speciale che il dottor Porhoët
aveva visto il giovanotto seguire i suoi consigli e intraprendere
la sua stessa professione, raggiungendo una reputazione che
lui mai aveva ottenuto.
Era troppo interessato al carattere delle persone che la sorte
gli faceva incontrare per nutrire in sé quell’ambizione che
amava riscontrare negli altri. Osservava soddisfatto l’orgoglio
con cui Arthur seguiva la sua vocazione, e la determinazione,
sostenuta dalla fiducia in se stesso e dal talento, che poneva
nel diventare un maestro nella sua arte. Il dottor Porhoët
sapeva che la varietà di interessi, pur accrescendo il fascino di
un uomo, tende anche a indebolirlo. Per superare i colleghi è
necessario circoscrivere l’ambito del proprio impegno. Non gli
dispiaceva, dunque, che Arthur per molti aspetti fosse limitato.
Le belle lettere e le arti significavano poco per lui, né perdeva
tempo con le garbate frivolezze che fanno di un uomo un buon
conversatore. In compagnia si contentava di ascoltare gli altri,
in silenzio, e soltanto se aveva da dire qualcosa di preciso era
tentato di unirsi alla conversazione. Lavorava sodo, operava,
sezionava, teneva conferenze nel suo ospedale e si dava pena di
leggere qualunque pubblicazione medica, non solo in inglese,
ma anche in francese e in tedesco. Appena riusciva a
conquistarsi un giorno libero, lo passava sui campi da golf di
Sunningdale, perché era un giocatore abile e appassionato.
Ma al tavolo operatorio Arthur era un altro. Non era più la
persona impacciata nei rapporti sociali, sufficientemente
consapevole dei suoi limiti per non parlare di ciò che non
capiva, e abbastanza sincera da non esprimere ammirazione
per quel che non gli piaceva. Là, al contrario, si sentiva pervaso
da una sensazione esaltante, del tutto speciale; era conscio del
suo potere, e ne godeva. Nessun imprevisto era in grado di
turbarlo. Mentre operava, sembrava seguire un istinto preciso;
la mano e il cervello lavoravano in un modo quasi automatico.
Non esitava mai, non temeva di fallire. Il suo successo era stato
pari al suo coraggio, ed era chiaro che ben presto la sua
reputazione pubblica avrebbe eguagliato quella già conquistata
nella sua professione.
Il dottor Porhoët continuava distrattamente a tracciare figure
sulla ghiaia con il bastone da passeggio, e si rivolse ad Arthur
con il suo sorriso contagioso.
«Non smetterò mai di stupirmi dell’imprevedibilità della
natura umana» osservò. «È davvero sorprendente che un uomo
come te si innamori tanto intensamente di una ragazza come
Margaret Dauncey».
Arthur non rispose, e il dottor Porhoët, temendo che le sue
parole potessero suonare offensive, si affrettò a spiegarsi.
«Sai bene che la ritengo una ragazza affascinante. Ha
bellezza, grazia, simpatia. Ma i vostri caratteri sono diversi
quanto il sole e la luna. Nonostante tu sia nato in Oriente e
abbia trascorso l’infanzia in luoghi da mille e una notte, sei la
creatura più pratica che io abbia mai conosciuto».
«Dica pure di mentalità chiusa, non mi offendo» sorrise
Arthur. «Ammetto di non essere dotato né di immaginazione né
di senso dell’umorismo. Sono un uomo piuttosto semplice,
concreto, ma riesco a vedere con estrema chiarezza fino alla
punta del mio naso. E fortunatamente ce l’ho piuttosto lungo».
«Uno dei princìpi a me più cari è che è impossibile
innamorarsi se si è privi di immaginazione».
Ancora una volta Arthur Burdon non rispose, ma uno sguardo
strano gli guizzò negli occhi, fissi su un punto davanti a lui. Era
simile a quello che pervade gli occhi appassionati di un mistico
che, in un momento di estasi, veda la Vergine oggetto delle sue
incessanti preghiere.
«Ma Miss Dauncey non ha affatto quella ristrettezza di
vedute che, perdonami se lo dico, è forse il segreto della tua
forza. Dimostra un eccezionale entusiasmo per qualsiasi forma
di arte. La bellezza è il suo pane quotidiano. E si interessa con
passione ai più vari aspetti della vita».
«È giusto che Margaret ami la bellezza, perché ogni
millimetro in lei è bellezza» rispose Arthur.
Era estremamente restio ad analizzare i propri sentimenti,
ma sapeva di essere stato attratto da lei in primo luogo per la
sua perfezione fisica, che contrastava in modo stupefacente con
le innumerevoli deformità al cui studio aveva fino ad allora
consacrato la vita. Quasi contro la sua volontà, tuttavia, gli
sfuggì una frase.
«La prima volta che l’ho vista, mi è sembrato che dinanzi a
me si spalancasse un mondo nuovo».
Nelle parole di Arthur risuonava la musica divina dei versi di
Keats, e in quella passione il francese colse una nota
romantica, presaga di futura tragedia, quindi cercò di dissipare
l’ombra che la sua immaginazione aveva gettato su quella
bellissima storia d’amore.
«Sei molto fortunato, amico mio. Miss Margaret ti ammira
quanto tu l’adori. Non si stanca mai di ascoltare le storie noiose
che le racconto sulla tua infanzia ad Alessandria, e sono
assolutamente certo che si dimostrerà la più perfetta delle
mogli».
«Ho la stessa certezza» disse Arthur ridendo.
Si considerava un uomo felice. Amava Margaret con tutto il
cuore ed era sicuro che lei lo ricambiasse di pari affetto. Era
impossibile che qualcosa riuscisse a turbare la vita piacevole
che avevano progettato insieme. L’amore esaltava la magia del
suo lavoro, e il lavoro, viceversa, rendeva l’amore ancora più
coinvolgente.
«Abbiamo deciso di fissare la data delle nozze» disse. «Sto
già acquistando i mobili».
«Credo che soltanto un inglese si sarebbe comportato in
modo così strano, rimandando senza alcuna ragione il
matrimonio per due anni, due anni mortali».
«Sa, Margaret aveva dieci anni quando l’ho vista per la prima
volta, e solo diciassette quando le ho chiesto di sposarmi.
Credeva di avere buoni motivi per essermi grata, e mi avrebbe
sposato immediatamente. Ma io sapevo che desiderava con
tutta se stessa questi due anni a Parigi, e ho ritenuto che non
fosse giusto legarla a me finché non avesse visto almeno un po’
di mondo. Non mi sembrava neanche pronta per il matrimonio,
stava ancora maturando».
«Non ho forse detto che sei un giovanotto estremamente
pratico?» disse sorridendo il dottor Porhoët.
«Non che avessimo dei dubbi sui nostri sentimenti. Ci
volevamo bene e avevamo molto tempo davanti a noi. Potevamo
permetterci di aspettare».
In quel momento passò accanto a loro un uomo, un tipo
grosso, massiccio, con una vistosa giacca a quadri. Con gran
serietà si tolse il cappello per salutare il dottor Porhoët. Il
dottore sorrise e ricambiò il saluto.
«Quel grassone è un suo amico?» domandò Arthur.
«È un tuo compatriota. Si chiama Oliver Haddo».
«È uno studente d’arte?» chiese Arthur, con il tono un po’
sprezzante che usava per riferirsi a coloro che non svolgevano
un’attività concreta quanto la sua.
«Nient’affatto. L’ho incontrato qualche tempo fa, per puro
caso. Stavo raccogliendo materiale per il mio volumetto sugli
antichi alchimisti e ho consultato molti libri nella biblioteca
dell’Arsenal che, come forse saprai, è ricchissima di opere sulle
scienze occulte».
Il volto di Burdon assunse un’espressione di divertito
disprezzo. Non riusciva a capire perché il dottor Porhoët
occupasse il suo tempo libero con studi così infruttuosi. Aveva
letto il suo libro sui più celebri alchimisti, pubblicato di
recente; e per quanto ammirasse la profondità delle
conoscenze su cui si basava, non riusciva a giustificare lo
spreco di tempo che il suo amico avrebbe potuto più utilmente
dedicare a problemi di maggior peso.
«Non sono in molti a studiare in quella biblioteca» proseguì il
dottore «e ben presto ebbi modo di conoscere, almeno di vista,
coloro che la frequentavano regolarmente. Questo signore lo
incontravo ogni giorno. Quando arrivavo, il mattino presto, era
immerso in strani libri antichi, e quando me ne andavo,
esausto, lui ancora leggeva. A volte accadeva che i volumi da
me richiesti li avesse lui, e così scoprii che studiava i miei
stessi argomenti. Aveva un aspetto fuori del comune, ma non
particolarmente affabile. Così, benché intuissi che mi offriva
l’opportunità di rivolgergli la parola, non ne approfittai. Ma un
giorno stavo facendo ricerche su alcuni argomenti e,
curiosamente, pareva impossibile riuscire a trovare fonti
documentate. Il bibliotecario non sapeva aiutarmi e avevo
ormai rinunciato, quando lui mi portò proprio il libro di cui
avevo bisogno. Pensai che il bibliotecario gli avesse parlato
delle mie difficoltà e gli fui molto grato. Quel pomeriggio
andammo via insieme e i nostri comuni studi ci offrirono un
argomento di conversazione. Scoprii così che le sue conoscenze
erano incredibilmente vaste e che era in grado di darmi
informazioni su opere di cui non avevo mai sentito parlare.
Rispetto a me aveva un vantaggio: a quanto pareva sapeva
l’ebraico e l’arabo, e aveva studiato la Qabbalah in versione
originale».
«Ah, gli sarà stata certo di grande utilità» disse Arthur. «E
qual è la sua professione?».
Il dottor Porhoët fece un sorriso beffardo.
«Mio caro amico, non mi fa particolarmente piacere dirtelo.
Tremo in ogni fibra al pensiero del tuo illimitato disprezzo».
«Ebbene?».
«Devi sapere che Parigi è piena di personaggi bizzarri. È il
luogo eletto per ogni genere di eccentricità. Può sembrarti
incredibile, in quest’anno di grazia, ma il mio amico Oliver
Haddo sostiene di essere un mago. E credo che dica sul serio».
«Che stupido!» rispose Arthur con veemenza.
2
Margaret
Dauncey
divideva
con
Susie
Boyd
un
appartamentino nei pressi di boulevard du Montparnasse, e
quel pomeriggio Arthur si stava recando lì per il tè. Le due
giovani donne lo aspettavano. L’acqua bolliva sul fornello; tazze
e petits fours erano già disposti su un’alzatina per dolci. Susie
aspettava con interesse quell’incontro. Aveva sentito molto
parlare del giovanotto e sapeva che il rapporto tra lui e
Margaret non mancava di romanticismo. Per anni Susie aveva
condotto la vita monotona dell’istitutrice in una scuola
femminile e si era ormai rassegnata a quel tedio per il resto
della vita, quando un lascito testamentario da parte di un
lontano parente le aveva fornito una rendita sufficiente per
vivere, seppur in maniera modesta. Poco tempo dopo Margaret,
che era stata sua allieva, era andata a trovarla per annunciarle
la sua intenzione di trascorrere un paio d’anni a Parigi per
studiare arte, e Susie aveva accettato volentieri di
accompagnarla.
Frequentava
con
impegno
l’Académie
Colarossi, senza la minima illusione di avere qualche talento,
ma semplicemente per divertirsi. Non voleva rinunciare alla
piacevole idea di trovarsi in un ambiente un po’ perverso. Dopo
tanti anni di duro lavoro, era un sollievo affrontare le cose con
più leggerezza, e provava un appagamento infinito
nell’osservare la vita di chi le stava intorno.
Nutriva un affetto profondo per Margaret e, sebbene il suo
personale patrimonio di entusiasmo si stesse esaurendo,
riusciva a godere appieno del giovanile rapimento di lei per
ogni forma di raffinatezza. Era una donna insignificante, ma
non conosceva l’invidia, e l’avvenenza di Margaret le faceva
sinceramente piacere. Osservava con orgoglio quasi materno
come il trascorrere degli anni aggiungesse nuova grazia a
quella bellezza eccezionale. Ma Susie era dotata di un sano
buonsenso e faceva in modo, stuzzicandola bonariamente, di
stemperare gli elogi di cui gli ammiratori nella classe di
disegno ricoprivano quella splendida fanciulla, sia per il suo
aspetto sia per il suo talento. Si inorgogliva all’idea di aver
contribuito a formare il carattere della donna che avrebbe
consegnato ad Arthur Burdon, di averne coltivato le attrattive
con delicate cure.
Susie sapeva, in parte da frammenti di lettere che Margaret
le
leggeva,
in
parte
dalla
conversazione,
quanto
appassionatamente Arthur amasse la sua promessa sposa, e le
faceva piacere vedere che Margaret ricambiava quell’amore
con devozione e riconoscenza. La storia di quella visita a Parigi
l’aveva commossa. Margaret era figlia di un avvocato di
campagna, presso il quale un tempo Arthur aveva soggiornato
regolarmente; quando questi morì, molti anni dopo sua moglie,
Arthur si ritrovò tutore ed esecutore testamentario della
fanciulla. La mandò a scuola, fece in modo che avesse tutto
quel che poteva desiderare e acconsentì subito quando, a
diciassette anni, ella espresse il desiderio di andare a Parigi
per studiare disegno. Ma, sebbene non avesse mai cercato di
guidarla con autorità, le suggerì di non vivere da sola, e fu per
questo che lei si rivolse a Susie. I preparativi del viaggio erano
appena terminati, quando Margaret scoprì per caso che suo
padre era morto senza un soldo e che da allora lei aveva
vissuto a carico di Arthur. Andò dunque a trovarlo, con gli
occhi colmi di lacrime, e gli disse che ormai sapeva tutto;
Arthur ne fu profondamente imbarazzato, in modo quasi
paradossale.
«Ma perché lo hai fatto?» gli chiese. «Perché non mi hai detto
nulla?».
«Non mi sembrava giusto farti sentire in obbligo nei miei
confronti. Volevo che tu fossi completamente libera».
Margaret pianse. Non riuscì a impedirselo.
«Sciocchina» disse lui ridendo. «Non mi devi assolutamente
nulla. Ho fatto ben poco per te, e quel che ho fatto mi ha dato
un piacere immenso».
«Non so come potrò mai ripagarti».
«Non pensarci nemmeno» esclamò lui. «Mi rendi molto più
difficile parlarti delle mie intenzioni».
Ella gli lanciò uno sguardo veloce e arrossì. I suoi occhi, di un
azzurro intenso, erano velati di lacrime.
«Non sai che farei qualsiasi cosa per te?» disse.
«Non voglio che tu mi sia grata perché speravo... un giorno o
l’altro... di chiederti di sposarmi».
La risata di Margaret, mentre gli tendeva le mani, fu
irresistibile.
«Dovresti saperlo che ho sempre desiderato sentirtelo dire,
da quando avevo dieci anni».
Era più che pronta a rinunciare all’idea di Parigi e a sposarsi
senza indugio, ma Arthur insistette affinché non cambiasse i
suoi piani. Dapprima Margaret dichiarò che non sarebbe
partita, perché ormai sapeva di non aver denaro e non poteva
accettare che il suo innamorato pagasse per lei.
«Ma che importanza ha?» disse lui. «Sarò felice di continuare
a passarti una piccola rendita, come ho fatto finora. Dopotutto,
sono benestante. Mio padre mi ha lasciato una discreta fortuna,
e già guadagno molto bene con i miei interventi».
«Sì, ma ora è diverso. Prima non lo sapevo. Credevo di
spendere il mio denaro».
«Se morissi domani, ogni centesimo di quel che ho sarebbe
tuo. Ci sposeremo tra due anni, ormai ci conosciamo da troppo
tempo per cambiare idea. Credo che le nostre vite siano
irrevocabilmente unite».
Margaret desiderava moltissimo trascorrere quel periodo a
Parigi, e Arthur aveva ormai deciso, per correttezza nei suoi
confronti, che non si sarebbero sposati finché lei non avesse
compiuto diciannove anni. Margaret si consultò con Susie
Boyd, una donna a cui il buonsenso impediva di dare troppo
peso al lato romantico di una falsa delicatezza.
«Mia cara, se tu avessi già firmato il registro dei matrimoni,
questo denaro lo prenderesti senza alcuno scrupolo; poiché non
c’è alcun dubbio che vi sposerete, non vedo motivo per non
prenderlo ora. Oltretutto, non hai di che vivere, e non sei
assolutamente adatta a fare la governante o la dattilografa.
Quindi è una scelta obbligata, e faresti meglio a metter da
parte i tuoi squisiti sentimenti».
Miss Boyd, ora per un motivo ora per l’altro, non aveva mai
incontrato Arthur, ma ne aveva sentito parlare così spesso che
già le sembrava un vecchio amico. Lo ammirava tanto per il suo
talento e per la forza di carattere, quanto per la premurosa
tenerezza nei confronti di Margaret. Lo aveva visto in alcune
fotografie, ma secondo Margaret non era fotogenico e Susie le
aveva chiesto se fosse bello.
«No, direi di no,» aveva detto Margaret «ma è un buon
soggetto per un ritratto».
«Il bello di questa risposta è che suona molto bene e non dice
assolutamente nulla» aveva replicato Susie con un sorriso.
Dentro di sé riteneva che la passione di Margaret per l’arte
fosse una posa, non del tutto sgradevole, destinata a
scomparire una volta che lei fosse stata felicemente sposata.
Cinque o sei bambini, a suo modo di vedere, erano molto più
importanti della pittura. Il talento di Margaret non era certo da
disprezzare, ma Susie era convinta che degli insegnanti di
solito
insensibili
non
avrebbero
dimostrato
tutto
quell’entusiasmo se Margaret fosse stata insignificante e
vecchia come lei.
Miss Boyd aveva trent’anni, ma portava i segni di una vita
attiva e dimostrava più della sua età. Ma era una di quelle
bruttine la cui aria dimessa non ha importanza. Un francese
galante l’aveva apertamente definita una belle laide e lei, lungi
dal negare la giustezza dell’osservazione, se ne era sentita
quasi lusingata. Aveva la bocca larga, occhi piccoli, rotondi e
luminosi. La pelle era pallida, sciupata dalle lentiggini; il naso
lungo e sottile. Ma il viso era dolce, di una vivacità così
attraente che nessuno, in capo a dieci minuti, faceva più caso
alla sua bruttezza. E allora si notava che aveva bei capelli,
nonostante i fili di bianco qua e là, e che il suo aspetto era
incredibilmente lindo. Aveva mani candide e ben fatte, che
muoveva continuamente nel fervore del suo gesticolare. Ora
che disponeva di mezzi adeguati, curava molto l’abbigliamento,
e i suoi vestiti, che costavano molto più di quanto potesse
permettersi, erano sempre splendidi. Aveva un gusto raffinato
e una sensibilità sicura, che le consentiva di ottenere il meglio
da se stessa. Era ben decisa a far sì che chi la definiva brutta
fosse allo stesso tempo costretto ad ammettere che il suo modo
di vestire era perfetto. Il talento di Susie per gli abiti era
notevole e, grazie alla sua influenza, Margaret era sempre
vestita all’ultima moda. I gusti della fanciulla tendevano
all’artistico, e il suo senso del colore rischiava di farle
dimenticare l’equilibrio della discrezione. Se non fosse stato
per il deciso influsso di Susie, probabilmente non avrebbe
resistito al desiderio di indossare abiti ordinari dalle tinte
sgargianti. Ma Susie si esprimeva sempre senza esitazione.
«Mia cara, non credo che disegnerai peggio se indosserai un
corsetto ben fatto, e avvolgerti in pezze di flanella grigia non
accrescerà certo il tuo talento».
«Ma la moda è orribile» diceva sorridendo Margaret.
«Sciocchezze! La moda è sempre bella. L’anno scorso
andavano tanto quei cappellini schiacciati, con la falda rialzata;
e l’anno prossimo, per quanto ne so, magari sarà di moda
indossare un cappellino a semicupio poggiato sulla nuca. L’arte
non ha niente a che fare con un abito elegante, e che una
scarpa a punta con il tacco alto sia apprezzata o meno dai
pittori del Quartiere Latino non toglie che sia l’unica cosa nella
quale un piede femminile avrà un aspetto grazioso».
Susie Boyd dichiarò che non avrebbe accettato di vivere con
Margaret se non avesse avuto il permesso di sovrintendere al
suo guardaroba.
«E quando sarai sposata, per l’amor del cielo, invitami a casa
vostra almeno quattro volte l’anno, così potrò occuparmi dei
tuoi abiti. Non riuscirai mai a conservare l’affetto di tuo marito
se ti affiderai soltanto al tuo giudizio».
La ricompensa di Miss Boyd era arrivata la sera prima,
quando Margaret, rientrando dalla cena con Arthur, aveva
ripetuto un’osservazione del fidanzato.
«Sei elegantissima!» aveva detto lui. «Temevo quasi che ti
saresti presentata con una casacca da pittore».
«Spero non gli avrai detto che sono stata io a insistere per
farti comprare tutto quello che indossavi» esclamò Susie.
«Sì, invece» rispose Margaret con semplicità. «Gli ho detto
che non avevo alcun gusto, e che il merito era tutto tuo».
«È l’ultima cosa che avresti dovuto fare» rispose Miss Boyd.
Ma sentì un moto di simpatia per Margaret, perché quel banale
episodio le aveva dimostrato ancora una volta quanto la
fanciulla fosse sincera. Sapeva perfettamente che ben poche
delle sue amiche avrebbero ammesso una cosa del genere
davanti al complimento di un innamorato, ed erano in molte ad
approfittare dell’indubbio gusto di Susie.
Bussarono alla porta dell’appartamento, ed entrò Arthur.
«Ecco il principe azzurro» disse Margaret, guidandolo verso
l’amica.
«Sono felice di conoscerla, e voglio ringraziarla di tutto quel
che ha fatto per Margaret» disse lui sorridendo e prendendo
tra le sue la mano che Susie gli tendeva.
Susie notò che egli la osservava con aria amichevole, ma con
una certa superficialità, quasi fosse troppo attratto dalla sua
amata per notare davvero qualcun altro, e si chiese come fosse
possibile parlare con un uomo così palesemente assorto.
Mentre Margaret preparava il tè, gli occhi di lui ne seguivano i
movimenti con una devozione commovente, simile a quella di
un cane. Lo sguardo si spostava dalla bocca sorridente alle
agili mani. Sembrava che non avesse mai visto nulla che lo
estasiasse quanto il modo in cui lei si chinava sul bollitore.
Margaret sentì che la stava osservando e si voltò. I loro occhi si
incontrarono e per un lungo momento si fissarono in silenzio.
«Sembrate una coppia di perfetti idioti» esclamò Susie
allegramente. «Su, non vedo l’ora di prendere il tè».
I due innamorati risero, facendosi rossi in viso. Arthur pensò
che fosse giunto il momento di dire qualcosa di gentile.
«Spero che poi mi mostrerà i suoi disegni, Miss Boyd.
Margaret dice che sono eccezionali».
«La prego, non si senta obbligato a mostrare interesse per
me» rispose Susie schiettamente.
«Fa delle caricature deliziose» disse Margaret. «Te ne
porterò una tua, dove sarai orribile; la farà appena te ne sarai
andato».
«Non essere impertinente, Margaret».
Miss Boyd, tuttavia, non poté trattenersi dal pensare che
Arthur Burdon sarebbe stato davvero un ottimo soggetto per
una caricatura. Margaret aveva ragione quando diceva che non
era bello, ma il suo volto ben rasato era molto interessante per
chi, come lei, sapeva guardare attentamente. I due innamorati
restavano in silenzio, lasciando Susie a condurre la
conversazione. Ella chiacchierò senza sosta, e alla fine ebbe la
soddisfazione di attrarre la loro attenzione. Arthur sembrò
accorgersi della sua presenza e rise di cuore al buffo resoconto
sui compagni dell’Académie Colarossi. Nel frattempo Susie lo
osservava. Era molto alto e snello. Aveva la struttura solida di
un uomo dello Yorkshire, l’ossatura forte. Riusciva a non essere
goffo soprattutto grazie alla serena fiducia in se stesso. Aveva
gli zigomi alti, il volto lungo, magro. Il naso e la bocca erano
larghi, il colorito pallido. Ma c’erano in lui due caratteristiche
che affascinavano Susie: una enorme forza di volontà e una
singolare capacità di sopportazione. Sapeva bene quel che
voleva ed era deciso a ottenerlo; per lei era una presenza
ristoratrice, dopo l’estrema fragilità dei giovani pittori con cui
ultimamente aveva avuto a che fare. Ma quegli occhi vispi,
scuri, erano capaci di esprimere un’angoscia quasi
intollerabile, e la bocca mobile aveva un’intensità nervosa che
rivelava con quanta facilità avrebbe potuto soffrire i più
profondi tormenti.
Il tè era pronto e Arthur si alzò per prendere la sua tazza.
«Resta seduto» disse Margaret. «Ti porto io tutto quel che vuoi,
e so perfettamente quanto zucchero mettere. Mi piace
accudirti».
Con la grazia che distingueva tutti i suoi movimenti
attraversò la stanza, la tazza piena in una mano e il piatto dei
dolci nell’altra. Susie ebbe l’impressione che Arthur
traboccasse di gratitudine per la condiscendenza di Margaret. I
suoi occhi erano colmi di un’indescrivibile tenerezza mentre
prendeva i pasticcini che lei gli porgeva. Margaret sorrise,
felice e orgogliosa. Nonostante la sua buona indole, Susie non
riuscì a evitare la fitta che le trafisse il cuore. Anche lei era
capace di amare. Custodiva un tesoro di caldo affetto che
nessuno si era dato pena di cercare. Nessuno le aveva mai
sussurrato all’orecchio le allettanti sciocchezze che leggeva nei
libri. Sapeva bene di non avere la bellezza dalla sua, ma un
tempo, almeno, aveva il fascino vivace della giovinezza. Anche
quella se ne era andata, adesso, e la libertà di girare il mondo
era arrivata troppo tardi; eppure l’istinto le diceva che era fatta
per diventare moglie di un uomo degno e madre dei suoi figli.
Si interruppe nel bel mezzo dell’allegro chiacchierio, temendo
l’incertezza della propria voce, ma Margaret e Arthur erano
troppo occupati per accorgersi che aveva smesso di parlare.
Sedevano fianco a fianco, godendosi la felicità della reciproca
compagnia.
«Che stupida sono!» pensò Susie. Da lungo tempo aveva
imparato che buonsenso, intelligenza, un’indole affabile e forza
di carattere non avevano alcuna importanza rispetto a un viso
grazioso. Si strinse nelle spalle.
«Non so se voi ragazzi vi siete accorti che si sta facendo
tardi. Se desidera invitarci a cena allo Chien noir, dovrà
andarsene e lasciarci preparare».
«Benissimo» disse Arthur alzandosi. «Torno in albergo a
rinfrescarmi. Ci vediamo alle sette e mezzo».
Quando Margaret ebbe chiuso la porta alle sue spalle, si voltò
verso l’amica.
«Ebbene, che ne dici?» le chiese con un sorriso.
«Non ti aspetterai che mi sia formata un’opinione precisa di
un uomo che ho visto per così poco».
«Sciocchezze!» disse Margaret.
Susie esitò per un momento.
«Credo che abbia un viso molto bello» disse infine, seria.
«Non ho mai visto un uomo la cui onestà di intenzioni traspaia
in tal modo».
Susie Boyd era così pigra che era impossibile convincerla a
occuparsi delle faccende di casa e, mentre Margaret riponeva
le tazze, cominciò a disegnare una caricatura, come sempre
ispirata da un viso nuovo. Fece uno schizzo di Arthur,
spropositatamente alto e dinoccolato, con un naso gigantesco e
le ali, l’arco e le frecce del dio dell’amore, ma non era neanche
a metà dell’opera che la giudicò stupida, e la strappò stizzita.
Quando Margaret rientrò nella stanza, si voltò verso di lei,
fissandola.
«Che c’è?» disse la fanciulla, sorridendo al suo sguardo
severo.
Era in piedi, nel mezzo della stanza dall’alto soffitto. Alcune
tele incompiute erano poggiate contro il muro; oggetti vari
erano appesi qua e là, insieme a fotografie di quadri famosi.
Inconsapevolmente aveva assunto una posa magnifica, e la sua
bellezza le conferiva, nonostante la giovinezza, una rara
dignità. Susie sorrise, quasi prendendosi gioco di lei.
«Sembri una dea greca vestita alla parigina» disse.
«Cosa devi dirmi?» domandò Margaret, intuendo dallo
sguardo inquisitorio che qualcosa frullava nella mente
dell’amica.
Susie si alzò e le andò vicino.
«Sai, prima di conoscerlo speravo con tutto il cuore che ti
avrebbe resa felice. Nonostante quel che mi avevi detto di lui,
avevo qualche timore. Sapevo che era molto più vecchio di te, e
che era il primo uomo che avevi conosciuto. Mi era difficile
accettare di affidarti a lui, temevo che ti rendesse infelice».
«Non credo che tu debba avere timori».
«Ora invece spero con tutto il cuore che sia tu a rendere
felice lui. Non è per te che ho paura, adesso, ma per lui».
Margaret non rispose. Non riusciva a capire cosa volesse dire
Susie.
«Non ho mai visto nessuno tanto predisposto all’infelicità.
Credo che tu neanche immagini quanto disperata potrebbe
essere la sua sofferenza. Stai molto attenta, Margaret, sii
buona con lui, perché tu hai il potere di fare di lui il più infelice
degli esseri umani».
«Oh, ma io voglio che sia felice!» esclamò Margaret con
veemenza. «Tu lo sai che gli devo tutto. Farei qualsiasi cosa per
renderlo felice, anche a costo di sacrificarmi. Ma non ha senso
parlare di sacrificio, perché lo amo a tal punto che tutto ciò che
faccio è piacere puro».
Le si riempirono gli occhi di lacrime e la voce si spezzò.
Susie, con una risatina quasi isterica, le dette un bacio.
«Mia cara, per l’amor del cielo, non piangere! Sai bene che
non sopporto la gente che piange, e se ti fai vedere con gli
occhi rossi lui non mi perdonerà mai».
3
Lo Chien noir, dove Susie Boyd e Margaret cenavano di
solito, era il ristorante più caratteristico del quartiere. Al
pianoterra c’era una sala dove tutti apprezzavano il cibo. Il
piccolo locale, infatti, oltre a essere economico, godeva di
buona reputazione per la sua cucina; e il patron, un mercante
di cavalli in pensione che si era dato alla ristorazione per
avviare un’attività da lasciare al figlio, era un tipo allegro che
con la sua festosa socievolezza attirava la clientela. Ma al
primo piano c’era una saletta più piccola, con tre tavoli disposti
a ferro di cavallo, riservata a una combriccola di pittori inglesi
e americani con l’aggiunta di qualche francese, ciascuno con la
propria moglie o presunta tale: ma tanta era la rispettabilità
dei loro modi che Susie, quando lei e Margaret vennero
presentate alla comitiva, si disse che sarebbe stato volgare
starsene sulle sue. Secondo lei, era da puritani pretendere le
convenzioni di Notting Hill in boulevard du Montparnasse. Le
giovani che si accompagnavano ai pittori erano modeste nel
comportamento e sobrie nel vestire. Perfette donne di casa,
avevano mantenuto intatto il decoro nonostante una posizione
difficile; mancava forse la parolina sussurrata davanti a
Monsieur le Maire, ma non per questo si impegnavano con
minor serietà nel rapporto.
La saletta era piena quando entrò Arthur Burdon. Margaret
gli aveva conservato un posto tra sé e Miss Boyd. Stavano
parlando tutti insieme, in francese, a voce alta, ed era in corso
una furiosa discussione sul valore dei tardi impressionisti.
Arthur si accomodò e fu frettolosamente presentato a un
giovane dinoccolato, che sedeva di fianco a Margaret. Era
molto alto, molto magro, molto bello. Portava un colletto
rialzato fino al mento, capelli lunghissimi e aveva l’aria
languida di un giglio non più fresco.
«Mi fa sempre venire in mente un Aubrey Beardsley che ne
ha passate di tutti i colori» disse Susie sottovoce. «È una
creatura dolce, gentile, ma si chiama Jagson. È virtuoso,
diligente. Non ho visto nulla di suo, ma è assolutamente privo
di talento».
«Come fa a saperlo, se non ha visto i suoi quadri?» domandò
Arthur.
«È una delle nostre convenzioni, dire che nessuno ha talento»
rise Susie. «Ci sopportiamo a vicenda, ma non cadiamo certo
nell’errore di pensare che il lavoro del nostro vicino valga
qualcosa».
«Mi racconti chi sono, uno a uno».
«Dunque, guardi quell’omino calvo, nell’angolo. Quello è
Warren».
Arthur guardò l’uomo che lei gli indicava. Era basso, con la
pelata lucida come una palla da biliardo e la barbetta a punta.
Aveva occhi sporgenti, luminosi.
«Non avrà bevuto un po’ troppo?» domandò Arthur,
freddamente.
«Sì, certo,» si affrettò a rispondere Susie «ma è sempre in
quelle condizioni, e meno è sobrio, più riesce a essere
affascinante. È l’unico in questa sala dal quale non sentirà mai
una parola cattiva. La cosa strana è che potrebbe essere un
grande pittore. Ha un interessantissimo senso del colore, e
quanto più è in preda all’ebbrezza, tanto più delicata e bella è
la sua pittura. A volte, dopo un numero di apéritifs superiore al
solito, si siede in un caffè per fare uno schizzo, con la mano che
trema al punto di non riuscire a reggere il pennello; aspetta il
momento giusto e di getto traccia dei segni sul cartoncino.
Quel che fa rabbia è che ognuno di quei piccoli segni è
delizioso. Credo che lui, più di chiunque altro, riesca a
interpretare l’anima di Parigi. E quando avrà visto i suoi schizzi
– ne ha centinaia, di incredibile grazia, pieni di sentimento e
originalità – non potrà mai più guardare Parigi con gli stessi
occhi».
La minuta cameriera che si affannava a star dietro ai vari
desideri dei clienti era adesso davanti a loro, pronta a ricevere
l’ordinazione di Arthur. Era una creatura dal viso duro, di età
1
matura, linda nell’abito nero con la cuffietta bianca; aveva un
modo quasi materno di servire quella gente, e l’ampio sorriso
della sua grande bocca era pieno di fascino.
«Quello che mangio non ha importanza. Ci penserà Margaret
a ordinarmi la cena».
«Tanto valeva che la ordinassi io» rise Susie.
Cominciarono a discutere vivacemente con Marie i pregi dei
vari piatti, e furono interrotti soltanto dalle allegre proteste di
Warren. «Marie, mi prostro ai tuoi piedi e ti imploro: portami
del poule au riz».
«Oh, mi dia tempo, Monsieur» disse la cameriera.
«Non dar retta a quel tale, la sua moralità è pessima, vuole
solo allontanarti dall’impervio sentiero della virtù».
Arthur giurò che in quel momento era solo l’ardore della fame
a guidare il suo cuore, e questo escludeva ogni altro ardore.
«Marie, tu non mi ami più!» esclamò Warren. «Un tempo non
mi guardavi con tanta freddezza quando ordinavo una bottiglia
di vino bianco».
Il resto del gruppo fece eco alla sua lamentela, implorandola
di non mostrarsi così dura con il pittore calvo e rubizzo.
«Mais si, je vous aime, Monsieur Warren,» esclamò lei
ridendo «je vous aime tous, tous».
Corse di sotto, tra le grida degli uomini e delle donne, per
passare le ordinazioni.
«L’altro giorno lo Chien noir è stato teatro di una tragedia»
disse Susie. «Marie ha lasciato il suo spasimante, un cameriere
dell’Avenue, e non ne ha voluto sapere di una riconciliazione.
Lui ha aspettato di avere la serata libera, poi si è presentato
nella sala di sotto e ha ordinato la cena. Naturalmente lei è
stata costretta a servirlo, e ogni volta che gli portava i piatti lui
ricominciava a discutere e le loro lacrime si mescolavano».
«Ha pianto a dirotto» intervenne un giovane con i capelli ben
pettinati e il naso grosso. «Ha pianto sulle nostre portate e
tutto quello che abbiamo mangiato era salato di lacrime.
L’abbiamo implorata di non cedere e se non fosse stato per il
nostro incoraggiamento sarebbe tornata sui suoi passi, ma lui
la picchia».
Marie ricomparve con i piatti, senza che il corteggiamento di
poco prima avesse lasciato alcun segno in lei. Susie catturò
ancora una volta l’attenzione di Arthur Burdon.
«E ora, per favore, osservi l’uomo seduto accanto a Warren».
Arthur vide un tipo alto, scuro, spettinato, con lineamenti
molto marcati e ispidi baffi neri.
«Quello è O’Brien, un esempio di quanto, per fare un pittore,
non bastino forza di volontà e onestà d’intenti. È un fallito, lo
sa, e l’amarezza gli ha guastato l’anima. Se lo ascolta, lo
sentirà criticare aspramente ogni pittore di fama. Non riesce a
perdonare chi ha successo, e non riconosce meriti a nessuno
che non sia morto e sepolto».
«Proprio un’allegra compagnia» rispose Arthur. «E chi è
quella signora massiccia seduta accanto a lui, con quel cappello
vistoso?».
«Quella è la madre di Madame Rouge, la donnina pallida che
le siede accanto e che è l’amante di Rouge, l’illustratore della
“Semaine”. In un primo momento mi faceva sorridere l’idea che
la signora lo chiamasse mon gendre, mio genero, e che
accettasse l’unione irregolare di sua figlia, disinteressandosi
con tanta grandezza d’animo del decoro; ma ormai la cosa mi
sembra del tutto naturale».
La madre di Madame Rouge mostrava ancora qualche traccia
di bellezza e sedeva tutta impettita, mordicchiando con
estrema dignità una coscia di pollo. Arthur si affrettò a
distogliere lo sguardo perché, incontrando quello di lei, si era
visto lanciare un’occhiata sensuale. Rouge aveva l’aria di un
prospero commerciante, più che di un artista, ma era tutto
preso a discutere con O’Brien, il cui francese era perfetto, sul
valore di Cézanne. Per lui era un grande maestro, per l’altro un
impudente ciarlatano. Ciascuno dei due insisteva nella sua
opinione, accalorandosi come se bastasse continuare a ripetere
qualcosa per renderla più convincente.
«Accanto a me c’è Madame Meyer» continuò Susie. «Faceva
la governante in Polonia, ma era troppo graziosa per quel
lavoro; ora vive con il paesaggista seduto a fianco a lei».
Lo sguardo di Arthur seguì le sue parole e si posò su un uomo
ben rasato, con una gran massa di riccioli grigi. Aveva un bel
viso, palesemente da esteta, ed era vestito con eleganza. I suoi
modi e il suo eloquio avevano tutta la fastosità del pieno
romanticismo. Si esprimeva in un flusso di frasi sentenziose e
diceva cose giuste quanto ovvie. L’allegra dama che
condivideva le sue fortune ascoltava ammirata la sua saggezza,
ed egli ne era chiaramente lusingato.
Miss Boyd aveva descritto ad Arthur tutti i presenti, tranne il
giovane Raggles, discreto pittore di nature morte, e Clayson, lo
scultore americano. Allo Chien noir Raggles incarnava il rango
e la moda. Era vestito in modo assai ricercato, da cavallerizzo,
e camminava con le gambe un po’ arcuate, come se passasse il
tempo in sella. Era l’unico a usare una pomata profumata sui
capelli lisci. La particolarità che più lo distingueva era l’ampio
pastrano dalla fodera scarlatta; Warren, che aveva cattiva
memoria per i nomi, riusciva a ricordarlo solo per quel
dettaglio. Sembrava conoscere varie duchesse che vivevano
nelle strade frequentate dal bel mondo e di tanto in tanto
cenava con loro in un solenne splendore.
Clayson aveva il naso rubizzo e la noiosa abitudine di dire
cose brillanti. Con i suoi occhi luminosi, le guance arrossate e il
pizzetto chiaro somigliava in tutto e per tutto a Frans Hals, ma
era vestito come la caricatura di un francese in un giornale
umoristico. Parlava inglese con accento parigino.
Miss Boyd si apprestava a farlo allegramente a pezzi, quando
si spalancò la porta e un uomo dalla stazza notevole entrò nella
saletta. Si liberò del mantello con gesto teatrale.
«Marie, sgravami di questa palandrana e appendi a un piolo il
sombrero».
Parlava un francese esecrabile, ma con tale magniloquenza
che tutti risero.
«Questo non lo conosco» disse Susie.
«Io sì, almeno di vista» rispose Burdon. Si sporse verso il
dottor Porhoët, che, seduto di fronte a lui, mangiava in silenzio
e si godeva le sciocchezze dette dagli altri. «Quello non è il suo
mago?».
«Oliver Haddo» disse il dottor Porhoët, annuendo divertito.
Il nuovo arrivato era fermo in fondo alla sala, con gli sguardi
di tutti appuntati addosso. Assunse una postura imperiosa e per
un attimo rimase perfettamente immobile.
«Sembra in posa, Haddo» disse Warren con voce roca.
«Non può evitarlo, neanche se si sforza» disse Clayson.
Oliver Haddo spostò lentamente lo sguardo sul pittore.
«Mi duole vedere, o eccellentissimo Warren, che il succo
maturo dell’apéritif ha reso vitreo il suo occhio scintillante».
«Vuol forse dire che sono ubriaco?».
«Volendo usare una parola grossolana ma espressiva, sì,
ubriaco».
Con fare grottesco il pittore si abbandonò contro lo schienale,
come se fosse stato colpito. Haddo guardò fisso Clayson.
«Quante volte le ho spiegato, o Clayson, che la sua
deplorevole mancanza di educazione le impedisce di
raggiungere il livello di arguzia a cui aspira?».
Per un attimo Oliver Haddo riprese la sua posa a effetto, e
Susie lo osservò sorridendo. Era un uomo di mole notevole, sul
metro e novanta; ma la cosa che più lo caratterizzava era
un’incredibile obesità. Il ventre era di dimensioni imponenti, il
volto grosso e carnoso. Aveva assunto l’atteggiamento
arrogante di Del Borro nel ritratto di Velázquez conservato a
Berlino e sfoggiava volutamente lo stesso sorriso sprezzante. Si
fece avanti e strinse la mano al dottor Porhoët.
«Salve, fratello mago! In lei saluto, se non un maestro,
quanto meno uno studioso non indegno della mia stima».
Dinanzi a tanta pomposità Susie fu presa da un convulso di
riso, ed egli le si rivolse con grande serietà.
«Signora, la sua risata è più dolce al mio orecchio del canto
di Bulbul in un giardino persiano».
Il dottor Porhoët intervenne per fare le presentazioni. Il mago
si inchinò solennemente a Susie Boyd, a Margaret e ad Arthur
Burdon. Poi tese la mano all’arcigno pittore irlandese.
«Bene, mio caro O’Brien, lei come al solito ha mescolato le
acque dell’amarezza con il leggero chiaretto di Bordeaux».
«Perché non si siede e non pensa a mangiare?» rispose l’altro
con tono rude.
«Ah, amico mio, vorrei riuscire a ficcarle in testa che la
malcreanza non è sinonimo di spiritosaggine. Non avrò vissuto
invano se col tempo le avrò insegnato che lo stiletto dell’ironia
è uno strumento più efficace del manganello dell’insolenza».
O’Brien arrossì di stizza, ma su due piedi non riuscì a trovare
una risposta, e Haddo rivolse la sua attenzione al giovane
scialbo e innocuo che sedeva accanto a Margaret.
«I miei occhi mi ingannano o qui abbiamo quel Jagson il cui
nome, nella sua inanità, tanto bene si addice a chi lo porta?
Sono ansioso di sapere se lei continua a dedicarsi inutilmente
all’arte anziché più utilmente alla moda».
Lo sventurato, aggredito con tanta brutalità, arrossì
debolmente, senza replicare; Haddo passò al francese, Meyer,
come se lo ritenesse più degno del suo scherno.
«Temo che il mio arrivo vi abbia interrotti. Era forse in corso
la celebre arringa sulla grandezza di Michelangelo? Oppure
l’analisi minuziosa dell’arte di Wagner?».
«Stavamo per andarcene» disse Meyer, alzandosi corrucciato.
«Sono desolato di perdere le perle di saggezza che di solito
cadono dalle sue dotte labbra» replicò Haddo, mentre l’altro
spostava educatamente la sedia di Madame Meyer.
Haddo si accomodò con un sorriso.
«Ho visto che la sala era affollata, e con intuito napoleonico
ho pensato che avrei potuto trovar posto soltanto insultando
qualcuno. Dovreste congratularvi con me, perché le mie
canzonature, che quello sciocco di Raggles scambia per
spiritosaggini, hanno spinto ad andarsene una persona che vive
apertamente nel peccato, liberando così due sedie e
permettendomi di consumare un sobrio pasto con spazio
sufficiente per i miei gomiti».
Marie gli portò il menu ed egli lo studiò con grande serietà.
«Prenderò del gelato alla vaniglia, o beneamata, una tenera
ala di pollo, una sogliola fritta e della squisita zuppa di piselli».
«Bien, un potage, une sole, un pollo e un gelato».
«Ma perché vuoi servirmeli in quest’ordine, e non come ti ho
detto io?».
Marie e le due francesi dettero in esclamazioni dinanzi a
tanta stravaganza, ma Oliver Haddo sventagliò la sua mano
grassa.
«Voglio cominciare con il gelato, o Marie, per raffreddare la
passione di cui mi infiammano i tuoi occhi, e poi, senza
esitazione, divorerò l’ala di un pollo per essere più forte dinanzi
al tuo sorriso. Procederò quindi con una sogliola fresca, e con
la zuppa di piselli chiuderò un pasto alquanto sostanzioso».
Essendo riuscito a catturare l’attenzione generale nella sala,
Oliver Haddo cominciò a mangiare le portate nell’ordine da lui
indicato. Margaret e Burdon lo guardavano con occhi
sprezzanti, mentre Susie, per nulla disturbata dalla vanità che
cerca di attrarre l’altrui attenzione, lo osservava piena di
curiosità. Di aspetto non era vecchio, anche se la sua
corpulenza aggiungeva anni all’età che dimostrava. I
lineamenti erano belli, le orecchie piccole, il naso delicato.
Aveva denti grossi, ma bianchi e regolari. La bocca era larga, le
labbra turgide e umide. Aveva un collo taurino. I capelli scuri e
ricci erano radi sulla fronte e sulle tempie, tanto che il volto
glabro pareva di una sconcertante nudità. La calvizie sulla
sommità della testa rammentava vagamente una tonsura.
Aveva l’aria di un prete sensuale, malvagio. Margaret gli lanciò
un’occhiata di sottecchi mentre mangiava, e d’improvviso
tremò con violenza: la vista di quell’uomo la riempiva di un
disgusto incontrollabile. Egli sollevò lentamente lo sguardo e
lei lo distolse, arrossendo come se fosse stata colta in flagrante
indiscrezione. Gli occhi erano la cosa più singolare in lui. Non
erano grandi, ma di un azzurro chiarissimo, e fissavano
l’interlocutore in modo molto imbarazzante. Dapprima Susie
non riusciva a spiegarsi che cosa avessero di tanto particolare,
ma ben presto lo capì: gli occhi della maggior parte delle
persone convergono su chi guardano; quelli di Oliver Haddo,
invece,
rimanevano
paralleli,
spontaneamente
o
per
un’abitudine acquisita a effetto. Davano l’impressione di
attraversare il corpo con lo sguardo, riuscendo a vedere la
parete al di là. Era qualcosa di innaturale. Un’altra stranezza
era l’impossibilità di capire se fosse serio. C’era un’aria ironica
in quello sguardo bizzarro, un sorriso sardonico sulle labbra, e
non si sapeva come interpretare il suo sfrontato modo di
esprimersi. Era irritante non avere la certezza, mentre si rideva
di lui, di non essere in realtà vittime di un suo elaborato
scherzo.
La sua presenza gettò un insolito gelo sulla comitiva. I
francesi si alzarono e se ne andarono. Warren uscì barcollando
con O’Brien, il cui rozzo sarcasmo non riusciva a tener testa
agli aspri dileggi di Haddo. Raggles indossò il pastrano con la
fodera scarlatta e uscì in compagnia di Jagson, ancora scosso
dall’attacco insolente di Haddo. Lo scultore americano pagò il
conto in silenzio. Era sulla porta, quando Haddo lo fermò.
«Lei ha modellato leoni al Jardin des Plantes, mio caro
Clayson. Ma ne è mai andato a caccia nelle loro pianure
natie?».
«No, mai».
Clayson, pur non comprendendo perché Haddo gli avesse
fatto quella domanda, cominciò ad avvampare di un’ira
incipiente.
«Allora lei non ha visto gli sciacalli, intenti a divorare
un’antilope morta, darsi alla fuga terrorizzati quando il re degli
animali si avvicina lentamente per fare il suo pasto».
Clayson uscì sbattendo la porta. Haddo rimase con Margaret,
Arthur Burdon, il dottor Porhoët e Susie. Sorrise senza parlare.
«Perché, lei è un cacciatore di leoni?» domandò Susie con
tono un po’ sfacciato.
Lui le rivolse uno sguardo diretto e misterioso.
«Non c’è nessuno che mi stia alla pari nella caccia grossa. Ho
ucciso più leoni di chiunque altro. Credo che forse solo Jules
Gérard, che nell’Ottocento i francesi chiamavano le tueur de
lions, fosse alla mia altezza, ma non mi sovviene nessun altro».
L’affermazione, fatta con incredibile calma, fu seguita da un
momento di silenzio. Margaret lo fissò, stupefatta.
«Lei non soffre certo di falsa modestia» disse Arthur Burdon.
«La falsa modestia è un segno di cattiva educazione, da cui la
mia nascita mi protegge ampiamente».
Il dottor Porhoët lo guardò sorridendo, ironico.
«Vorrei che Mr Haddo cogliesse l’opportunità di svelarci il
mistero della sua nascita e della sua famiglia. Ho il sospetto
che, come l’immortale Cagliostro, egli sia nato da ignoti ma
nobili genitori, e sia stato allevato in segreto all’interno di
palazzi orientali».
«Quanto alle mie origini sono da paragonare più a Denis
Zachaire o a Raimondo Lullo. Il mio avo, George Haddo, giunse
in Scozia al seguito di Anna di Danimarca e si vide accordare i
possedimenti dello Staffordshire che ancora mi appartengono
quando Giacomo I, che di Anna era il consorte, salì sul trono
inglese. La mia famiglia si è imparentata con il sangue più
nobile d’Inghilterra, e i Mereston, i Parnaby, gli Hollington
sono stati onorati di offrire le loro figlie al mio casato».
«Questi fatti saranno certo verificabili nelle enciclopedie»
disse Arthur, secco.
«Naturalmente» ribatté Oliver.
«E i palazzi orientali nei quali ha passato la sua giovinezza,
gli schiavi neri che la servivano e gli sceicchi barbuti che le
svelavano i segreti della conoscenza?» esclamò il dottor
Porhoët.
«Ho studiato a Eton e mi sono laureato a Oxford nel 1896».
«Le spiacerebbe dirmi quale college ha frequentato?» chiese
Arthur.
«Ero al Christ Church».
«Allora era insieme a Frank Hurrell».
«Attualmente aiuto primario presso il St. Luke’s Hospital. Era
uno dei miei più cari amici».
«Gli scriverò per chiedergli di lei».
«Muoio dalla voglia di sapere cosa ha fatto di tutti i leoni che
ha ucciso» disse Susie Boyd.
La sfrontatezza di quell’uomo non la esasperava quanto
esasperava, con fin troppa evidenza, Margaret e Arthur. Haddo
la divertiva, ed era ansiosa di riuscire a farlo parlare.
«Fanno bella mostra di sé distesi sui pavimenti di Skene, la
mia residenza nello Staffordshire». Si interruppe un attimo per
accendersi un sigaro. «Sono l’unico essere vivente ad aver
ucciso tre leoni con tre colpi di seguito».
«Pensavo li avesse abbattuti a colpi di oratoria» disse Arthur.
Oliver si appoggiò contro lo schienale e posò le sue enormi
mani sul tavolo.
«Burkhardt, il tedesco che era a caccia con me, aveva la
febbre e non poteva muoversi dal letto. Una notte fui svegliato
dai miei buoi, molto irrequieti, e udii, vicinissimo, il ruggito dei
leoni. Presi la carabina e uscii dalla tenda. C’era solo una
pallida luce lunare. Mi avviai da solo, perché sapevo che gli
indigeni non mi sarebbero stati di alcuna utilità. Ben presto
trovai la carcassa di un’antilope, mezzo divorata, e decisi di
aspettare il ritorno dei leoni. Mi nascosi dietro alcune rocce, a
una ventina di passi dalla preda. Tutt’intorno a me l’immensità
dell’Africa, il silenzio. Attesi, immobile, ora dopo ora, finché
cominciò ad albeggiare. Finalmente apparvero, sopra una rupe,
tre leoni. Il giorno prima avevo notato le tracce di un maschio e
due femmine».
«Posso chiederle come aveva fatto a distinguere il sesso?»
domandò Arthur, incredulo.
«Le impronte delle zampe anteriori di un leone sono
sproporzionatamente più grandi rispetto a quelle delle zampe
posteriori. Le zampe delle leonesse sono tutte più o meno della
stessa dimensione».
«La prego, continui» disse Susie.
«Erano davanti a me, li vedevo perfettamente; protesi in
avanti, in quella debole luce, apparivano giganteschi come le
strane bestie delle Mille e una notte. Mirai alla leonessa che mi
era più vicina e feci fuoco. Senza un rumore, come un toro
abbattuto al primo colpo, crollò. Il maschio emise un ruggito
profondo. Rapido, infilai un’altra cartuccia nel fucile, poi mi
resi conto che mi aveva visto. Abbassò la testa, la criniera
gonfia, la coda dritta e ondeggiante, la bocca tirata a scoprire
le gengive rosse e le enormi zanne bianche. Continuava a
ringhiare, lo sguardo fiammeggiante. Poi avanzò di qualche
passo, a testa bassa; gli occhi fissi nei miei, rabbiosi.
D’improvviso drizzò la coda e, quando un leone fa così, sta per
caricare. Mirai al petto, velocemente, e feci fuoco. Si sollevò
sulle zampe posteriori, ruggendo forte e annaspando nell’aria.
Poi ricadde morto. Restava una leonessa, e in mezzo al fumo la
vidi lanciarsi su di me. Fuggire era impossibile, alle mie spalle
c’erano alte rocce che non potevo scalare. Lei avanzava con un
brontolio roco, convulso; animato dal coraggio della
disperazione sparai il colpo che mi restava. La mancai.
Indietreggiai di un passo, sperando di riuscire a mettere una
nuova cartuccia nel fucile, e caddi a nemmeno due lunghezze
da quella bestia feroce. Mi mancò. La caduta mi aveva salvato.
Poi, all’improvviso, la vidi crollare. Dunque l’avevo colpita! Il
proiettile le aveva trapassato il cuore, ma nello slancio lei
aveva continuato ad avanzare. Quando a fatica mi rialzai
scoprii che era moribonda. Tornai al campo e divorai una
sontuosa colazione».
La storia di Oliver Haddo fu accolta da un silenzio colmo di
stupore. Nessuno poteva asserire che non fosse vera, ma egli la
raccontava con tanta magniloquenza da riuscire poco
convincente. Arthur era pronto a scommettere una bella
somma che non ci fosse nulla di vero. Non aveva mai incontrato
una persona del genere e non riusciva a capire che gusto
potesse provare nell’inventare elaborate e improbabili
avventure.
«Lei è sicuramente molto coraggioso» disse.
«Seguire un leone ferito nel suo nascondiglio è
probabilmente la cosa più pericolosa al mondo» disse Haddo,
tranquillo. «Richiede freddezza assoluta e nervi d’acciaio».
La risposta fece un effetto strano ad Arthur. Lanciò un rapido
sguardo a Haddo e d’improvviso fu colto da un attacco di riso
incontrollabile.
Si
appoggiò
allo
schienale
e
rise
fragorosamente. La sua ilarità contagiò gli altri, e tutti
scoppiarono a ridere. Oliver li osservò, serissimo. Non
sembrava sconcertato e nemmeno sorpreso. Quando Arthur si
ricompose, scoprì che gli strani occhi di Haddo lo fissavano.
«La sua risata mi rammenta il crepitio dei pruni sotto una
pentola» disse.
Haddo si guardò attorno. Gli occhi mantennero tutta la loro
fissità, ma le labbra si schiusero in un sorriso bizzarro,
sardonico.
«Anche il più debole degli intelletti comprende con chiarezza
che un uomo può comandare gli spiriti elementari soltanto se in
lui non c’è alcun timore. Una mente capricciosa non potrà mai
governare le silfidi, né una disposizione mutevole le ondine».
Arthur lo fissò, stupefatto. Non aveva la minima idea di cosa
stesse dicendo quell’uomo. Ma Haddo non badò a lui.
«Al contrario, se l’adepto è attivo, adattabile, forte, il mondo
intero obbedirà al suo comando. Egli camminerà nella
tempesta, e la pioggia non bagnerà il suo capo. Il vento non
scomporrà neanche una piega del suo mantello. Traverserà il
fuoco e non si brucerà».
Il dottor Porhoët si lanciò in una spiegazione di queste
criptiche asserzioni.
«Cher ami, le signore, qui, non hanno alcuna conoscenza
degli esseri misteriosi di cui lei parla. È necessario che
sappiano che, nel Medioevo, la fantasia popolava i quattro
elementi di intelligenze, in genere invisibili; alcune erano
amiche dell’uomo, altre gli erano ostili. Si riteneva che fossero
potenti e consapevoli del loro potere, seppur coscienti di non
avere un’anima. La loro vita dipendeva dalla persistenza di un
qualche oggetto naturale, e dunque per loro non poteva esserci
immortalità. Alla fine sarebbero tornate nell’abisso della notte
perenne, e le tenebre della morte le avrebbero tormentate in
eterno. Tuttavia si riteneva che così come l’uomo, mediante la
sua unione con Dio, aveva conquistato un barlume di essenza
divina, anche le silfidi, gli gnomi, le ondine, le salamandre,
grazie alla loro associazione con l’uomo, fossero partecipi di
questa sua immortalità. E molte delle loro donne, la cui
bellezza era ben più che umana, conquistavano un’anima
amando un esponente della stirpe degli uomini. Accadeva però
anche il contrario, e spesso un giovane per amore perdeva la
sua immortalità, perché lasciava i luoghi sicuri abitati dalla sua
gente per dimorare con gli esseri senz’anima dell’acqua dei
ruscelli o dell’aria delle foreste».
«Non immaginavo che lei parlasse per simboli» disse Arthur a
Oliver Haddo.
Questi si strinse nelle spalle.
«Cos’altro è il mondo se non immagine simbolica? La vita
stessa non è che un simbolo. Solo il saggio può dire cos’è la
realtà».
«Confesso che, quando comincia a parlare di magia e di
misticismo, va al di là della mia portata».
«Eppure la magia non è altro che l’arte di impiegare
consapevolmente mezzi invisibili per produrre effetti visibili.
Volontà, amore, immaginazione sono poteri magici che
chiunque possiede; chi sa come svilupparli appieno è un mago.
La magia ha un solo dogma, ovvero che il visibile è la misura
dell’invisibile».
«Ci dica quali sono i poteri di un adepto».
«Sono elencati in un manoscritto ebraico del Cinquecento,
che è in mio possesso. Ventuno sono i privilegi di colui che
stringe nella mano destra le chiavi di Salomone e nella sinistra
il ramo del mandorlo in fiore. Costui può scorgere il volto di Dio
senza morire e conversare con i sette geni che comandano
l’armata celeste. È superiore a qualsivoglia afflizione e paura.
Regna in cielo, e gli inferi lo servono. Detiene il segreto della
resurrezione dei morti e la chiave dell’immortalità».
«Se tutto questo le appartiene, allora nulla le è precluso»
disse Arthur, ironico.
«Chiunque può prendersi gioco di quel che non conosce»
replicò Haddo, stringendosi nelle spalle possenti.
Arthur non rispose, osservandolo incuriosito. Si chiedeva se
credesse davvero a quelle assurdità, o se stesse volgarmente
divertendosi alle loro spalle. Haddo sembrava serio, ma
un’espressione strana aleggiava sulle sue labbra, uno scintillio
duro negli occhi; l’effetto che ne scaturiva aveva qualcosa di
falso. Susie si godeva lo spettacolo. La divertiva starsene in una
prosaica trattoria e sentir discutere, con apparente gravità, di
argomenti occulti. Il dottor Porhoët ruppe il silenzio.
«Arago, dal quale ha preso nome un boulevard nelle
vicinanze, sosteneva che il dubbio è un segno di modestia che
raramente ha ostacolato il progresso della scienza. Non
altrettanto può dirsi dell’incredulità, e manca di prudenza colui
che usa la parola “impossibile” al di fuori della matematica
pura. Va ricordato che secondo Lattanzio era insensato credere
all’esistenza degli antipodi, mentre per sant’Agostino era fuor
di questione, in ogni caso, immaginarli come terre abitate».
«Si direbbe che lei non è affatto scettico, caro dottore» disse
Miss Boyd.
«Da giovane non credevo in nulla, poiché la scienza mi aveva
insegnato a diffidare persino dell’evidenza dei miei cinque
sensi» replicò, stringendosi nelle spalle. «Ma in Oriente ho
visto molte cose impossibili da spiegare con i processi
scientifici a noi noti. Mr Haddo vi ha dato una definizione della
magia, io ve ne darò un’altra. Può essere semplicemente
descritta come l’impiego intelligente di forze sconosciute, che il
volgo non comprende o non tiene in alcun conto. Un giovane
che vada a vivere in Oriente al principio si fa gioco del concetto
imperante di magia, ma qualcosa nell’aria prosciuga la linfa del
suo scetticismo. Dopo qualche anno, arriva inconsapevolmente
a condividere l’opinione di molti saggi, i quali ritengono che, in
fondo, qualcosa di vero c’è».
Arthur Burdon ebbe un gesto di stizza.
«Non credo che, pur vivendo a lungo in un paese orientale,
potrei mai arrivare a credere in qualcosa che abbia contro di sé
tutto il peso della scienza. Se ci fosse anche una sola parola
vera in quel che dice Haddo, noi saremmo incapaci di costruire
una qualsiasi ragionevole teoria sull’universo».
«Per essere un uomo di scienza, lei ragiona con incredibile
superficialità» disse Haddo, gelido, e il suo tono era talmente
offensivo da risultare profondamente irritante. «Dovrebbe
sapere che la scienza, trattando solo gli aspetti generali, non
prende in considerazione i singoli casi che contraddicono la
maggior parte delle evenienze. Può talvolta capitare che il
cuore sia nella parte destra del corpo, ma lei non poggerebbe
mai lo stetoscopio in un punto diverso dal solito. È possibile
che, in particolari condizioni, non si applichi la legge di gravità,
eppure lei vive nella convinzione assoluta che essa sia
universalmente valida. Ora, ci sono alcuni di noi che scelgono
di considerare soltanto queste eccezioni alla norma. Lo stolto
che gioca al casinò di Montecarlo punta il suo denaro sul rosso
o sul nero, e in genere esce o l’uno o l’altro. Ma ogni tanto esce
lo zero, e lo stolto perde. Mentre noi, che abbiamo sempre
puntato sullo zero, vinciamo una posta moltiplicata. Esistono
uomini la cui immaginazione si innalza al di sopra della
banalità del genere umano. Essi sarebbero disposti a perdere
tutto quel che hanno in cambio di una grande ricompensa. Le
pare poco conoscere il futuro come i profeti del tempo antico e,
conoscendolo, forzare le porte dell’inconoscibile?».
D’improvviso la serietà giocosa con la quale parlava lo
abbandonò. Una luce singolare gli illuminò lo sguardo, e la
voce si arrochì. Finalmente compresero che era serio.
«Ma cosa può saperne lei di quella bramosia di grandi segreti
che mi consuma fin nel fondo dell’anima?».
«Comunque, sono proprio felice di aver incontrato un mago»
esclamò Susie allegramente.
«Ah, non mi definisca così» disse lui con un gesto plateale
delle mani grasse, riconquistando immediatamente la sua
incredibile disinvoltura. «Piuttosto, vorrei essere conosciuto
come il Fratello dell’Ombra».
«Avrei giurato che tra lei e una cosa tanto immateriale
potesse esserci solo una parentela lontanissima» disse Arthur
ridendo.
Il volto di Oliver si fece rosso per la furia. I suoi strani occhi
azzurri si raggelarono d’odio e le labbra scarlatte si tesero al
punto da fargli assumere l’espressione spietata di un Nerone.
La battuta sulla sua obesità lo aveva punto nel vivo. Susie
temeva che avrebbe dato una risposta insultante e che ne
sarebbe scaturita una lite.
«Bene, se vogliamo andare alla fiera dobbiamo proprio
muoverci» si affrettò a dire. «Marie non vede l’ora di liberarsi
di noi».
Si alzarono e scesero rumorosamente le scale, uscendo per
strada.
4
Si ritrovarono nella strada stretta e affollata che portava a
boulevard du Montparnasse. I tram elettrici la percorrevano tra
scampanellii acuti e una fiumana di gente si riversava sui
marciapiedi.
La fiera si teneva al Lion de Belfort, a poco meno di due
chilometri, e Arthur fermò una vettura. Susie disse al
conducente dove volevano scendere. Notò che Haddo,
nell’attesa che partissero, aveva posato la mano sul collo del
cavallo. D’improvviso, senza una ragione apparente, la bestia
cominciò a tremare. Il tremito gli percorse il corpo e scese fino
alle zampe; il poveretto fremeva dalla testa ai piedi come se
avesse il capostorno. Il cocchiere saltò giù da cassetta e gli
bloccò la testa. Margaret e Susie scesero. Era uno spettacolo
orribile, penoso. Il cavallo non dava l’impressione di patire un
dolore fisico, quanto piuttosto di essere terrorizzato. Senza
sapere perché, Susie ebbe un’idea.
«Tolga la mano, Mr Haddo» disse bruscamente.
Egli sorrise, e fece come gli era stato ordinato. In quello
stesso istante il tremito diminuì e dopo un attimo il povero
ronzino tornò in condizioni normali. Pareva ancora un po’
spaventato, ma comunque si era ripreso.
«Vorrei sapere cosa diavolo è stato» disse Arthur.
Oliver Haddo lo fissò con quei suoi occhi azzurri che
sembravano penetrare le persone; poi, toccandosi il cappello, si
allontanò. Susie si voltò di scatto verso il dottor Porhoët.
«Crede sia stato lui? È successo non appena gli ha posato la
mano sul collo, e quando l’ha tolta è cessato».
«Sciocchezze!» disse Arthur.
«Ho pensato che fosse uno dei suoi trucchi» disse il dottor
Porhoët, molto serio. «Una volta è venuto a trovarmi ed è
accaduta una cosa singolare. Io ho due gatti persiani,
educatissimi esemplari della loro specie. Passano giornate
intere davanti al fuoco a meditare su problemi di metafisica.
Ma non appena è entrato lui, sono saltati su col pelo dritto e
hanno cominciato a correre furiosamente per la stanza, come in
preda a un terrore incontrollabile. Ho aperto la porta, e sono
schizzati fuori. Non sono mai riuscito a capire con esattezza
cosa sia successo».
Margaret ebbe un brivido.
«Non ho mai incontrato nessuno che mi riempisse di tanto
disgusto» disse. «Non so cosa c’è in lui che mi spaventa. Anche
ora sento quei suoi occhi che mi fissano in modo strano. Spero
di non rivederlo mai più».
Arthur scoppiò in una risatina e le prese la mano. Margaret
strinse forte la sua e lui si accorse che tremava. Per quanto lo
riguardava, non aveva alcun dubbio. Non erano argomenti su
cui scherzare. O Haddo credeva in cose che solo un pazzo
avrebbe ritenuto vere, oppure era un ciarlatano, che cercava di
attirare l’attenzione con le sue stravaganze. In ogni caso era da
disprezzare. Per certo, comunque, né lui né altri erano in grado
di fare miracoli.
«Vi dico io cosa farò» disse Arthur. «Se davvero conosce
Frank Hurrell, scoprirò tutto su di lui. Stasera stessa scriverò
due righe al mio amico e gli chiederò di raccontarmi quel che
sa».
«Oh sì, la prego» rispose Susie. «Mi interessa moltissimo.
Non c’è posto migliore di Parigi per incontrare gente così
bizzarra. Prima o poi ti imbatti in persone che credono in
qualsiasi cosa. Non c’è forma di religione, non c’è eccentricità
o aberrazione che non abbia i suoi sostenitori. Basta pensare a
quale privilegio sia incontrare un uomo che, nel ventesimo
secolo, crede in tutta sincerità nelle forze occulte».
«Occupandomi di questi argomenti, mi sono imbattuto spesso
in strani individui,» disse tranquillamente il dottor Porhoët «ma
sono d’accordo con Miss Boyd: Oliver Haddo è il più
straordinario di tutti. Tanto per cominciare, è impossibile
sapere quanto davvero creda in ciò che dice. È un impostore o
un pazzo? È lui a ingannarsi, o se la ride alle spalle di quei folli
che lo prendono sul serio? Non saprei. Quel che so è che ha
viaggiato in lungo e in largo, e parla molte lingue. Ha una
conoscenza minuziosa della letteratura alchemica e non saprei
nominare un solo libro di magia nera che egli non conosca». Il
dottor Porhoët scosse lentamente la testa. «Su di lui non sarei
troppo categorico. So di fare oltraggio ai sentimenti del mio
amico Arthur, ma confesso che non mi stupirebbe scoprire che
possiede poteri grazie ai quali può fare cose apparentemente
prodigiose».
Arthur non poté ribattere, perché erano arrivati al Lion de
Belfort.
La fiera era in pieno fermento. Il rumore era assordante.
Organetti a vapore tuonavano le melodie più in voga, e le
giostre giravano al ritmo della musica. All’ingresso dei
baracconi uomini infervorati invitavano i passanti a entrare.
Dai banchi del tiro a segno arrivava il crepitio continuo dei
fucili giocattolo. In sottofondo, le voci della folla che si
accalcava nel viale e lo scalpiccio di una miriade di piedi. La
notte sfolgorava di torce ad acetilene, che fiammeggiavano con
un ruggito cupo e continuo. Era uno spettacolo strano, tra il
sordido e l’allegro. La gente sembrava in preda a una gaiezza
sfrenata, come se, stanca del penoso affanno quotidiano,
cercasse con uno sforzo disperato di divertirsi.
I tre inglesi e il dottor Porhoët, bonariamente ironico, erano
appena entrati quando Oliver Haddo li raggiunse, senza tenere
in alcun conto il fatto lampante che non desiderassero la sua
compagnia. Haddo attirava l’attenzione per l’originalità
dell’aspetto e dei modi, e Susie notò che godeva nel vedere la
gente indicarlo a dito. Indossava un mantello spagnolo, la capa,
e drappeggiava con noncuranza sulla spalla la fodera di velluto
rosso e verde. Portava un cappello ampio e floscio. La sua
statura era notevole, pur se resa meno evidente dall’obesità, e
torreggiava su quella moltitudine minuscola.
I cinque osservavano pigramente i vari spettacoli, resistendo
ai melodrammi, ai numeri circensi, alle esibizioni eccentriche
che cercavano rumorosamente di attirare spettatori. A un certo
punto giunsero vicini a un uomo che stava incidendo dei profili
su carta nera, e Haddo volle a tutti i costi posare per lui. Una
piccola folla gli si radunò attorno, e non gli vennero risparmiate
battute sul suo aspetto singolare. Egli assunse la sua postura
preferita, fiera e imperiosa. Margaret avrebbe voluto cogliere
l’occasione per lasciarlo lì, ma Miss Boyd insistette per restare.
«È la creatura più ridicola che abbia mai visto in vita mia»
sussurrò. «Non rinuncerei a osservarlo per nulla al mondo».
Quando il profilo fu ultimato, egli lo offrì a Margaret con un
profondo inchino.
«La supplico di voler accettare l’unico ritratto esistente di
Oliver Haddo» disse.
«Grazie» rispose lei freddamente.
Non aveva alcun desiderio di prenderlo, ma non ebbe la
presenza di spirito di rifiutarlo con una battuta e non le
garbava essere apertamente brusca. Certo che il dono fosse
stato apprezzato, Haddo lo ripose con cura in una busta.
Ripresero a camminare e d’un tratto arrivarono davanti a un
tendone con sopra un nome orientale. Sotto alcune parole in
arabo, era dipinta rozzamente l’immagine di un incantatore di
serpenti. All’entrata, un forestiero sedeva a gambe incrociate,
percuotendo incessantemente un tamburo. Quando li vide
fermarsi, si rivolse loro in pessimo francese.
«Dottor Porhoët, non le rammenta il torbido Nilo?» disse
Haddo. «Entriamo a vedere cos’ha da mostrarci».
Il dottor Porhoët fece un passo avanti e si rivolse
all’incantatore, che si illuminò nel sentire la lingua del suo
paese.
«È egiziano, di Asyut».
«Compro i biglietti per tutti» disse Haddo.
Tenne sollevata la tenda per consentire l’accesso al
baraccone, e Susie entrò. Margaret e Arthur Burdon, benché
controvoglia, si trovarono costretti a seguirla. Il forestiero
richiuse la tenda alle loro spalle. Si ritrovarono in un luogo
angusto e sporco, mal illuminato da due lampade fumose. Una
dozzina di sgabelli erano piazzati in circolo sulla nuda terra. In
un angolo, immobile, sedeva una fellah, avvolta in ampie vesti
di un nero sbiadito. Il suo volto era nascosto da un lungo velo,
fermato da uno strano ornamento d’ottone al centro della
fronte. Gli occhi erano l’unica parte visibile: grandi, neri, con le
ciglia scurite dal kohl. Le dita erano vivacemente dipinte con
l’henné. Si mosse appena quando entrarono i visitatori, e
l’uomo le affidò il tamburo. Cominciò a carezzarlo con un
movimento particolare, producendo un suono simile a un ronzio
arcano e misterioso. C’era un tanfo insolito, tanto che il dottor
Porhoët, per un attimo, fu come trasportato nelle strade
maleodoranti del Cairo. Era una mistura acre di incenso ed
essenza di rosa, insieme a ogni immaginabile putredine. Le due
donne ne furono soffocate, e Susie chiese una sigaretta. Il
forestiero fece una smorfia quando sentì parlare inglese. Mise
in mostra una fila di denti belli e scintillanti.
«Mio nome Mohammed» disse. «Sirdar Lord Kitchener ha
visto mio spettacolo di serpenti. Aspettate e vedrete. Serpenti
molto velenosi».
Indossava una tunica azzurra, più adatta alle rive assolate del
Nilo che a una fiera di Parigi, e il colore si intuiva a stento sotto
lo sporco. In testa portava un fez.
Da sotto un tappeto steso su un lato della tenda tirò fuori una
sacca di pelle di capra. La posò in mezzo al cerchio formato
dagli sgabelli e si accovacciò. Margaret rabbrividì, perché la
superficie rigonfia del sacco si muoveva in modo strano. Egli ne
aprì l’imboccatura. La donna nell’angolo continuava a
carezzare come in trance il tamburo, e di tanto in tanto
emetteva un grido barbarico. Con un lampeggiare sinistro della
smagliante dentatura, l’arabo infilò la mano nel sacco e vi frugò
come fosse pieno di grano. Ne estrasse un lungo serpente che
si contorceva. Lo posò a terra, rimase in attesa per un attimo,
poi gli sfiorò il dorso con la mano. Immediatamente il serpente
si fece rigido come una spranga di ferro, e se non fosse stato
per gli occhi, quegli occhi feroci ancora aperti, si sarebbe detto
che in lui non c’era più vita.
«Osservate,» disse Haddo «ecco il miracolo compiuto da
Mosè alla presenza del faraone».
L’arabo prese quindi uno strumento a canna, non troppo
diverso dal flauto che Pan suonava per le driadi sui colli della
Grecia. Intonò una nenia monotona, misteriosa. D’improvviso la
rigidità abbandonò il serpente, che sollevò la testa e si allungò
tutto, fin quasi a tenersi in equilibrio sulla punta della coda,
ondeggiando avanti e indietro.
Oliver Haddo sembrava profondamente affascinato. Si
protendeva con il volto avido, e i suoi occhi soprannaturali
fissavano l’incantatore con un’espressione indescrivibile.
Margaret si ritrasse in preda al terrore.
«Non devi aver paura» disse Arthur. «Questa gente lavora
soltanto con animali a cui sono stati estratti i denti del veleno».
Oliver Haddo lo fissò prima di rispondere. Ogni volta
sembrava riflettere su chi fosse l’uomo davanti a lui.
«Incantatore è soltanto colui che resiste al morso dei serpenti
più velenosi senza fare ricorso alla medicina».
«Lo crede davvero?» disse Arthur.
«Ho visto il più famoso incantatore di Madras morire due ore
dopo essere stato morso da un cobra» disse Haddo. «Avevo
sentito molto parlare della sua abilità e una sera pregai un
amico di condurmi da lui. Al nostro arrivo non c’era, ma lo
aspettammo finché tornò, accompagnato da alcuni amici. Gli
spiegammo cosa volevamo. Era stato a una festa di matrimonio
ed era ubriaco. Mandò comunque a prendere i suoi serpenti e
ci mostrò prodigi di cui quest’uomo non ha mai neppure sentito
parlare. Alla fine estrasse dalla sacca un grosso cobra e
cominciò a passarlo da una mano all’altra. D’improvviso il
cobra gli si lanciò contro il mento e lo morse. Gli lasciò due
segni simili a punture di spillo. L’incantatore trasalì. “Sono un
uomo morto” disse.
«Gli amici volevano uccidere il cobra, ma egli si oppose.
«“Lasciate vivere questa creatura” disse. “Può essere utile ad
altri che fanno il mio stesso mestiere. Per me, ormai, ucciderla
non sarebbe di alcun giovamento. Nulla può salvarmi”.
«I suoi amici e gli altri incantatori gli si strinsero attorno e lo
misero a sedere. Dopo due ore era morto. Nell’ebbrezza del
vino aveva dimenticato quella parte dell’incantesimo che
serviva a proteggerlo, e così era morto».
«Ha una gran bella collezione di storie incredibili» disse
Arthur. «Temo proprio di aver bisogno di ben altre prove per
credere che questi serpenti siano velenosi».
Oliver si rivolse all’incantatore, parlandogli in arabo. Poi
rispose ad Arthur.
«Quest’uomo possiede una vipera cornuta. Cerastes è il nome
con cui è nota a voi uomini di scienza, ed è il più mortale tra i
serpenti egiziani. È conosciuta comunemente come aspide di
Cleopatra, perché è il serpente che fu portato in una cesta di
fichi all’amante di Cesare per risparmiarle l’umiliazione del
trionfo di Augusto».
«Cosa ha intenzione di fare?» domandò Susie.
Egli sorrise, senza rispondere. Fece un passo avanti verso il
centro della tenda e cadde in ginocchio. Disse alcune parole in
arabo, che il dottor Porhoët tradusse per gli altri.
«O vipera, per il grande Dio onnipotente, ti ordino di farti
avanti. Tu sei solo un serpente e Dio è più grande di tutti i
serpenti. Obbedisci al mio richiamo e vieni».
Un tremito percorse la sacca di pelle di capra, e dopo un
attimo ne uscì una testa. Strisciò fuori un corpo flessuoso. Era
un serpente grigio chiaro, lievemente attorcigliato, con un
corno sopra ciascun occhio.
«Lo riconosce?» sussurrò Oliver al dottore.
«Sì».
L’incantatore sedeva immobile e la donna, nella penombra,
pose fine alla straniante percussione del tamburo. Haddo prese
il serpente, gli aprì la bocca ed esso gli si attaccò
immediatamente alla mano, con i denti che penetravano a
fondo nelle carni. Arthur lo scrutava per scorgere in lui segni di
dolore, ma egli non mosse un muscolo. Il serpente pendeva
dalla sua mano, contorcendosi. Haddo ripeté una frase in arabo
e, d’improvviso, come una goccia d’acqua da un tetto, il
serpente cadde a terra. Il sangue fluiva copioso. Haddo sputò
per tre volte sulla ferita, bisbigliando parole che gli altri non
riuscivano a udire, e per tre volte la strofinò con le dita. Il
sangue si arrestò. Tese la mano perché Arthur potesse
osservarla.
«Questo è senza dubbio ciò che un chirurgo definirebbe
“guarigione per prima intenzione”» disse.
Burdon era stupefatto, ma al tempo stesso irritato, e non
avrebbe mai ammesso che ci fosse qualcosa di strano in quella
improvvisa interruzione del flusso di sangue.
«Non mi ha ancora dimostrato che quel serpente fosse
velenoso».
«Non ho ancora finito» sorrise Haddo.
Parlò di nuovo all’egiziano, che dette un ordine alla moglie.
Senza dire una parola, ella si alzò in piedi ed estrasse da una
scatola un coniglio bianco. Lo tenne sollevato per le orecchie,
mentre dimenava le buffe zampette. Haddo lo mise davanti alla
vipera cornuta. In men che non si dica il serpente si avventò
come un fulmine contro il coniglio. La sventurata bestiola
emise un gridolino, fu percorsa da un brivido e crollò morta.
Margaret sussultò con un urlo.
«Oh, che crudeltà! Che odiosa crudeltà!».
«Adesso si sarà convinto» disse Haddo, gelido.
Le due donne si precipitarono verso l’uscita. Erano
spaventate, disgustate. Oliver Haddo fu lasciato solo con
l’incantatore di serpenti.
5
Il dottor Porhoët aveva invitato Arthur, con Margaret e Miss
Boyd, a fargli visita la domenica nel suo appartamento sull’Île
Saint-Louis; i due fidanzati avevano così programmato di
trascorrere un’ora al Louvre, che si trovava lungo la strada.
Susie preferì non accompagnarli per essere libera di stare con i
propri pensieri.
Per evitare la folla che sempre si accalca nelle gallerie della
pinacoteca durante i giorni di festa, Arthur e Margaret
visitarono quella parte del museo che ospita le sculture
antiche. Era relativamente vuota, e le sale avevano la
tranquillità tipica dei luoghi in cui sono raccolte le opere
d’arte. Margaret era colma di una sincera emozione e sebbene
non riuscisse ad analizzarla, come avrebbe invece fatto Susie,
che amava dissezionare il suo stato d’animo, ne era
curiosamente esaltata. Sentiva il cuore librarsi al di sopra delle
brutture terrene e provava un senso di libertà piacevole e a un
tempo indescrivibile. Arthur non si era mai interessato all’arte,
finché l’entusiasmo di Margaret non gli aveva rivelato un
aspetto della vita che aveva sempre trascurato. Sebbene la
bellezza avesse scarso significato per la sua indole pratica, il
grande amore per Margaret lo spingeva ad apprezzare le opere
che generavano in lei quell’estasi irresistibile. Camminava
docile al suo fianco e ascoltava quasi con deferenza le sue
esclamazioni. Ammirò la perfezione dell’anatomia greca, e una
statua di atleta attrasse a lungo la sua attenzione perché i
muscoli erano riprodotti con la precisione di una tavola
anatomica in un testo di chirurgia. Quando Margaret parlò
della compostezza olimpica dei greci e della loro spensierata
allegria, fu colpito dall’intelligenza di quelle osservazioni che,
se fossero venute da un uomo, avrebbero suscitato la sua
insofferenza.
Eppure c’era un’opera, la splendida Diana di Gabii, che
toccava in lui delle corde diverse, e insistette per andare a
vederla. Margaret protestò ridendo, ma nel suo intimo non era
dispiaciuta. Era consapevole che la passione di Arthur per
quella scultura scaturiva non dalla sua bellezza intrinseca, ma
dalla somiglianza che vi aveva scoperto con lei.
La statua si trovava nella bella e ampia galleria che ospita
anche l’Omero cieco e il Fauno ridente, festosa espressione di
un senso di comunione con la terra di matrice divina. La dea
non aveva l’arroganza della cacciatrice innamorata di
Endimione, né la maestà della fredda signora dei cieli. Aveva le
sembianze di una giovanetta, e con gesto riservato si
drappeggiava nel mantello. Non c’era nulla di divino in lei,
tranne un dolce, strano spirito virgineo. Un innamorato nella
Grecia antica, in procinto di offrire un sacrificio, avrebbe
potuto facilmente dimenticare di essere prostrato ai piedi di
una dea, vedendo invece in lei solo una fanciulla terrena, in
tutta la freschezza della gioventù, della castità e della bellezza.
Agli occhi di Arthur Margaret aveva la stessa grazia squisita di
quella statua, e il medesimo inconsapevole contegno; anche lei
esalava un profumo di primavera, di ineffabile purezza. I suoi
lineamenti erano cesellati con la netta, divina perfezione della
fanciulla greca; le sue orecchie erano altrettanto delicate e
finemente scolpite. Il colore della sua pelle aveva la leggiadria
delle cose belle ed eteree, la radiosità del tramonto e l’oscurità
della notte, il cuore delle rose e la profondità dell’acqua che
scorre. La mano che la dea portava alla spalla destra e quella
di Margaret erano ugualmente piccole, fini, bianche.
«Non esser sciocco» disse lei, mentre Arthur osservava la
statua in silenzio.
Egli volse lo sguardo lentamente, e i suoi occhi si posarono su
di lei. Margaret vide che erano velati di lacrime.
«Ma che ti succede?».
«Vorrei che tu non fossi così bella» rispose lui, imbarazzato,
come se solo a fatica potesse costringersi a dire simili banalità.
«Ho paura che qualcosa possa impedirci di essere felici. Mi
sembra troppo sperare di godere una fortuna tanto
straordinaria».
Margaret aveva sufficiente immaginazione da comprendere
quanto significasse per un uomo così pratico esprimersi in quel
modo. L’amore per lei lo estraniava dal suo modo di essere e,
benché gli fosse impossibile resistervi, ne mal sopportava
l’effetto. Non sapendo cosa rispondere, gli prese la mano.
«Finora mi è andato tutto bene» disse lui, parlando quasi tra
sé. «Ogni volta che ho davvero desiderato qualcosa, sono
riuscito a ottenerlo. Non c’è motivo che le cose ora mi si
rivoltino contro».
Cercava di proteggersi dal sospetto istintivo che le
circostanze gli fossero avverse, ma si riscosse e raddrizzò la
schiena.
«È stupido essere così morbosi» sussurrò.
Margaret rise. Uscirono dalla galleria e imboccarono il viale.
Attraversando il ponte e seguendo il fiume sarebbero giunti a
casa del dottor Porhoët.
Nel frattempo Susie passeggiava per un boulevard SaintMichel animato dalla folla domenicale, in direzione di quella
parte di Parigi che più era cara al suo cuore. L’Île Saint-Louis
rappresentava per lei una sintesi dello spirito francese, e le
piaceva infinitamente di più degli sgargianti boulevard nei
quali gli inglesi ricercano di solito il fascino locale. L’isola della
Senna aveva un fascino compatto. Le viuzze, con le vetrine
ricolme di prelibatezze, sembravano strade di una cittadina di
provincia. Avevano un’aria pittoresca che stimolava la fantasia,
ed erano molto tranquille. I loro nomi ricordavano la monarchia
che si era estinta nel sangue e nella poudre de riz. Persino i
platani avevano una sobrietà maggiore che altrove, quasi
fossero consapevoli di crescere in una Parigi in cui il progresso
si era fermato. Davanti a lei c’era la torbida Senna e, oltre, le
torri gemelle di Notre-Dame: Susie avrebbe potuto baciare le
dure pietre che lastricavano il lungofiume. Il suo viso affabile,
insignificante, si illuminò davanti alla piacevolezza della scena
e fu con una lieve fitta di dolore che ella volse le spalle a quello
spettacolo per entrare a casa del dottor Porhoët, la mente
ancora infiammata dai personaggi e dagli avvenimenti della
storia e dei romanzi.
Fu lieta che la prima impressione non contrastasse con le sue
fantasticherie. Salì una scalinata buia ma spaziosa e, seguendo
le indicazioni della concierge, suonò il campanello a una delle
porte che si trovò davanti. Venne ad aprire il dottor Porhoët in
persona.
«Arthur e Mademoiselle sono già qui» disse, e la fece entrare.
Traversarono un’elegante sala da pranzo alla francese, con
molto legno e pesanti tendaggi scarlatti, poi entrarono nello
studio. Era una stanza ampia, ma gli scaffali allineati lungo le
pareti e il grande scrittoio coperto di libri ne riducevano di
molto le dimensioni. C’erano libri ovunque, accatastati sul
pavimento, impilati su ogni sedia. Restava appena lo spazio per
muoversi. Susie ebbe un’esclamazione di piacere.
«Non parlatemi. Voglio guardare tutti i libri».
«Nulla potrebbe rendermi più felice» disse il dottor Porhoët.
«Temo tuttavia che ne resterà delusa. Sono volumi di ogni
genere, ma ben pochi potranno essere d’interesse per una
signorina inglese».
Frugò sul suo scrittoio finché trovò un pacchetto di sigarette
e ne offrì educatamente una a ciascuno degli ospiti. Susie era
stregata dallo strano odore di muffa dei libri antichi, e dette
una prima occhiata all’intorno. Quasi tutti avevano delle
sovraccoperte di carta; alcuni erano in buone condizioni, molti
avevano il dorso rotto e i bordi sporchi; erano disposti sugli
scaffali a ranghi serrati, disordinatamente, senza alcun metodo
o criterio. Ce n’erano di vecchi, con le rilegature in pelle di
vitello o di maiale, provenienti dalle librerie di mezza Europa,
insieme a enormi in-folio alti come granatieri prussiani, e
minuscoli elzeviri che erano stati letti da nobildonne veneziane.
Proprio come Arthur, che in sala operatoria diventava un altro,
così il dottor Porhoët cambiava quando era in mezzo ai suoi
libri. Pur mantenendo l’amabile serenità che lo rendeva tanto
affascinante, in quel luogo si comportava in un modo rude ma
divertente, che contrastava con la sua calma abituale.
«Quando lei è arrivata, stavo raccontando a questi giovani di
un antico Corano regalatomi ad Alessandria da uno studioso
che avevo operato di cataratta». Le mostrò un volume arabo,
splendidamente miniato, con meravigliosi capilettera e titoli in
oro. «Lei sa che è praticamente impossibile per un infedele
acquistare il libro sacro, e questa è una copia particolarmente
rara, perché opera di Qaitbay, il più grande dei sultani
mamelucchi».
Sfiorava le pagine delicate come un amante dei fiori avrebbe
maneggiato dei petali di rosa.
«E ha molti testi di scienze occulte?» domandò Susie.
Il dottor Porhoët sorrise.
«Oserei dire che non c’è biblioteca privata che disponga di
una collezione altrettanto completa, anche se non oso
mostrargliela in presenza del nostro amico Arthur. È troppo
educato per accusarmi di stoltezza, ma il suo sorriso sarcastico
lo tradirebbe».
Susie si diresse verso gli scaffali che il dottor Porhoët aveva
genericamente indicato e guardò quella misteriosa esposizione
in preda a una singolare euforia. I suoi occhi scorsero i titoli.
Le sembrò di entrare in una regione favolosa e sconosciuta. Si
sentiva un’audace principessa che cavalca il suo palafreno in
una foresta di grandi alberi spogli e mistici silenzi, dove forme
inconsistenti e ultraterrene le si affollano attorno, lungo la
strada.
«Un tempo pensavo di scrivere la biografia di quella
fantastica e magniloquente creatura che risponde al nome di
Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim,
detto Paracelso,» affermò il dottor Porhoët «perciò ho raccolto
molti suoi libri».
Prese un sottile volume in-dodicesimo, stampato nel Seicento,
con enigmatiche tavole sulle quali era rappresentato ogni
segno della Qabbalah. Le pagine avevano un odore particolare,
di muffa. Erano coperte di macchie brune.
«Ecco uno dei testi più interessanti sulla magia nera. È il
Grimoire di papa Onorio, il testo principale fra tutti quelli che
trattano di scienze occulte».
Poi indicò l’Hexameron di Torquemada e il Tableau de
l’inconstance des démons di De Lancre; fece scorrere il dito
lungo il dorso di pelle delle Disquisitiones magicae di Delrio e
raddrizzò la Pseudomonarchia daemonum di Wierus; i suoi
occhi si posarono per un istante sugli Acta et scripta magica di
Hauber, e soffiò via con cura la polvere dal più famoso e
famigerato di tutti, il Malleus maleficarum di Sprenger.
«Ecco il più grande dei miei tesori. È la Clavicula Salomonis;
ho buon motivo di credere che sia proprio la copia appartenuta
al più grande avventuriero del Settecento, Giacomo Casanova.
Vede? Il nome del proprietario è stato tagliato, ma rimane la
parte bassa delle lettere, che corrisponde esattamente alla
firma di Casanova, così come l’ho osservata alla Bibliothèque
Nationale. Egli narra nelle sue memorie che una copia di
questo libro gli fu portata via, insieme ai suoi effetti personali,
quando venne arrestato a Venezia per i suoi traffici occulti; e fu
proprio a Venezia che la trovai, durante uno dei miei viaggi da
Alessandria».
Rimise a posto la preziosa opera e il suo sguardo cadde su un
robusto volume rilegato in pergamena.
«Avevo quasi dimenticato il più splendido, il più misterioso di
tutti i libri che trattano di scienze occulte. Avrà certo sentito
parlare della Qabbalah, ma dubito che per lei sia qualcosa più
di un nome».
«Non ne so assolutamente nulla,» disse Susie ridendo «ma è
tutto così romanzesco, straordinario, ridicolo».
«Ecco dunque la sua storia. Mosè, che conosceva a fondo
tutta la saggezza dell’Egitto, fu iniziato alla Qabbalah nella sua
terra di nascita, ma giunse a padroneggiarla durante le
peregrinazioni nel deserto. Là, per quarant’anni, egli non solo
dedicò il suo tempo libero a questa scienza misteriosa, ma fu
istruito da un angelo misericordioso, e grazie alla Qabbalah fu
in grado di risolvere tutte le difficoltà sorte mentre era alla
guida degli israeliti – l’esilio, le guerre, le sventure di quella
nazione difficile da governare. Egli celò i princìpi della dottrina
nei primi quattro libri del Pentateuco, ma non nel
Deuteronomio, e iniziò ai suoi segreti anche i settanta saggi,
che a loro volta li tramandarono. Di tutti coloro che formavano
la linea ininterrotta della tradizione, Davide e Salomone furono
i più dotti nella Qabbalah. Nessuno, tuttavia, osò metterne per
iscritto i fondamenti fino a Shimon bar Yohai, che visse al
tempo della distruzione di Gerusalemme; dopo la sua morte,
Rabbi Eleazar, suo figlio, e Rabbi Abba, il suo segretario, ne
raccolsero i manoscritti e da essi composero il famoso trattato
chiamato Zohar».
«E quanta parte di questa meravigliosa storia ritiene che sia
vera?» chiese Arthur Burdon.
«Neanche una parola» rispose il dottor Porhoët con un
sorriso. «Gli studiosi hanno dimostrato che lo Zoharè di origine
moderna. Con singolare sfrontatezza, esso cita un autore che
sappiamo essere vissuto nell’undicesimo secolo, fa menzione
delle Crociate e registra eventi che ebbero luogo nel 1264 dopo
Cristo. Prima del 1291 alcune copie dello Zohar cominciarono a
circolare grazie a un ebreo spagnolo, un certo Moshe de León,
il quale dichiarava di possedere un manoscritto autografo del
presunto autore, Shimon bar Yohai. Ma quando Moshe de León
fu richiamato al seno del padre Abramo, un ricco ebreo,
Giuseppe d’Avila, promise alla vedova, rimasta in povertà, che
avrebbe dato il proprio figlio in sposo a sua figlia, insieme a
una cospicua dote, se lei gli avesse consegnato il manoscritto
originale dal quale erano state tratte le copie. Ma la vedova (è
facile immaginare con quale digrignar di denti) fu costretta a
confessare che non possedeva alcun manoscritto, perché lo
Zohar era frutto dell’invenzione di Moshe de León, che l’aveva
scritto di suo pugno».
Arthur si alzò per sgranchirsi le gambe e sbottò in una risata.
«Non capisco mai fino a che punto lei creda in quel che ci
racconta. Parla con tanta serietà che ci inganna tutti, e poi si
scopre che ci sta prendendo in giro».
«Mio caro amico, io stesso non so quanto ci credo» replicò il
dottor Porhoët.
«Mi chiedo se è per la stessa ragione che Mr Haddo ci
incuriosisce tanto» disse Susie.
«Ah, quello è un caso davvero interessante» ribatté il dottore.
«Le assicuro che, per quanto io lo conosca abbastanza bene,
non sono mai riuscito a capire se si tratti di un abile burlone, o
se sia realmente convinto, come sostiene, di avere tutti quegli
straordinari poteri».
«Per certo ieri sera abbiamo visto cose tutt’altro che
normali» disse Susie. «Perché quel serpente non ha avuto
alcun effetto su di lui, mentre in un attimo ha ucciso il coniglio?
E come spiega il tremito violento di quel cavallo, dottor
Burdon?».
«Non saprei spiegarlo,» rispose Arthur irritato «ma non sono
disposto a giudicare soprannaturale tutto ciò che non
comprendo immediatamente».
«Non so cosa sia, ma c’è in lui qualcosa che provoca in me
una specie di orrore» disse Margaret. «Non ho mai provato
un’antipatia così istintiva per qualcuno».
Era molto restia ad aprirsi, ma quella notte il ricordo delle
parole e delle azioni di Haddo le aveva fatto uno strano effetto.
Si era risvegliata più di una volta da un incubo nel quale egli
assumeva forme fantastiche e spettrali. La sua voce sarcastica
le risuonava nelle orecchie, e le sembrava ancora di vedere la
sua grande mole e il suo volto feroce e sensuale. Era come uno
spirito del male sul suo cammino, e lei ne era curiosamente
allarmata. Soltanto la fiducia nel buonsenso di Arthur le aveva
impedito di dare spazio a ridicoli terrori.
«Ho scritto a Frank Hurrell e gli ho chiesto di raccontarmi
tutto quel che sa di lui» disse Arthur. «Avrò presto una
risposta».
«Vorrei non averlo mai incontrato» esclamò Margaret con
forza. «Sento che ci porterà sfortuna».
«Siete tutti assurdamente pieni di pregiudizi» ribatté Susie,
allegra. «Io invece lo trovo molto interessante, e ho intenzione
di invitarlo a prendere il tè a casa nostra».
«Sarò felicissimo di accettare».
Margaret lanciò un grido; aveva riconosciuto il tono di voce
profondo e canzonatorio di Oliver Haddo e si voltò di scatto.
Furono tutti presi alla sprovvista, per un attimo nessuno parlò.
Erano raccolti attorno alla finestra e non lo avevano sentito
entrare. Si domandarono, sentendosi in colpa, da quanto tempo
fosse lì e quanto avesse udito.
«Come diavolo è entrato?» esclamò Susie, calma,
riprendendosi per prima.
«Nessuno stregone ben educato è indifferente ai sentimenti
più delicati al punto di entrare in una stanza dalla porta»
rispose lui con il suo sorriso ambiguo. «Eravate tutti attorno
alla finestra, e ho pensato che vi avrei fatto sobbalzare se
avessi scelto di entrare da lì; così sono sceso con incredibile
destrezza giù per la cappa del camino».
«Infatti ha un po’ di fuliggine sul gomito sinistro» replicò
Susie. «Spero che non si sia bruciato».
«Per nulla, grazie» rispose lui, spazzolandosi tutto serio il
cappotto.
«In qualunque modo sia entrato, lei è il benvenuto» disse il
dottor Porhoët, tendendogli amichevolmente la mano.
Ma Arthur si rivolse con insofferenza al padrone di casa.
«Vorrei proprio sapere che cosa l’ha spinta a intraprendere
questi studi» disse. «Credevo che la professione medica
bastasse a proteggerla da ogni debolezza nei confronti della
superstizione».
Il dottor Porhoët si strinse nelle spalle.
«Ho sempre provato interesse per le stranezze del genere
umano. Un tempo leggevo molti testi di filosofia e scienze, così
ho imparato che non esiste nulla di certo. Alcuni, seguendo la
scienza, sono impressionati dalla dignità dell’uomo, mentre io
diventavo sempre più consapevole della sua insignificanza. Le
grandi domande vengono sviscerate sin da quando egli ha
acquisito i fondamenti della civiltà, e mai come ora si è lontani
dalla soluzione. L’uomo non è in grado di conoscere nulla,
perché i suoi sensi sono gli unici mezzi della conoscenza e non
possono dare alcuna certezza. C’è un solo argomento del quale
può parlare con autorevolezza, ed è la propria mente; ma anche
in questo caso egli è circondato dalle tenebre. Io credo che
ignoreremo sempre le questioni che pure sarebbe più
necessario conoscere, pertanto non posso occuparmene.
Preferisco accantonarle tutte e, poiché la conoscenza è
irraggiungibile, ho scelto di occuparmi soltanto della follia».
«È un punto di vista che non posso condividere» disse Arthur.
«Eppure non sono persuaso che tutto sia follia» riprese il
francese, come riflettendo tra sé. Fissò Arthur con ironia mista
a serietà. «Credi che ti abbia mentito quando ho promesso di
dire la verità?».
«Sicuramente no».
«Vorrei raccontarti un’esperienza vissuta una volta ad
Alessandria. Per quanto ne so, nessuno dei princìpi noti alla
scienza può spiegarla. Ti prego solo di credere che non ti sto
ingannando consapevolmente».
La solennità con cui si esprimeva conferiva autorevolezza alle
sue parole. Era chiaro persino ad Arthur che raccontava
l’accaduto esattamente come si era verificato.
«Avevo tanto sentito parlare di un certo sceicco il quale,
grazie a uno specchio magico, era in grado di mostrare a chi lo
richiedesse persone assenti o morte; un mio amico del posto mi
aveva spesso sollecitato a incontrarlo. Io avevo sempre pensato
che non ne valesse la pena, ma giunse un momento in cui la
mia mente era profondamente turbata. La mia povera madre
era una donna anziana, vedova, e non avevo sue notizie da
settimane. Pur avendole scritto più volte, non avevo ricevuto
risposta. Ero molto in ansia, e molto infelice. Pensai che non
sarebbe accaduto nulla di male se avessi mandato a chiamare
quello stregone, il quale forse, in fondo, possedeva davvero i
poteri che gli venivano attribuiti. Il mio amico, che era
interprete al consolato francese, lo accompagnò da me una
sera. Era un bell’uomo, alto e robusto, di carnagione chiara, ma
con la barba scura. Era vestito miseramente e, essendo un
discendente del Profeta, indossava un turbante verde. La sua
conversazione era gioviale e priva di affettazione. Gli domandai
che genere di persone potessero leggere nel suo specchio
magico, ed egli rispose che potevano farlo un ragazzo non
ancora giunto alla pubertà, una vergine, una schiava di pelle
scura e una donna incinta. Per essere sicuro che non ci fosse
collusione, spedii il mio domestico da un amico intimo e gli
chiesi di mandarmi suo figlio. Mentre aspettavamo, seguendo
le indicazioni del mago preparai dell’incenso, dei semi di
coriandolo e un fornello con del carbone ardente. Nel
frattempo, egli scrisse delle formule propiziatorie su sei
striscioline di carta. Quando giunse il ragazzo, lo stregone
gettò l’incenso e una delle striscioline di carta nel fornello, poi
prese la mano destra del ragazzo e sul palmo tracciò un
quadrato e dei segni mistici. Al centro del quadrato versò un
po’ d’inchiostro, che formò lo specchio magico. Chiese al
ragazzo di guardarvi dentro, fissamente, senza sollevare la
testa. Le esalazioni dell’incenso riempivano la stanza di fumo.
Lo stregone borbottò in arabo alcune parole indistinte e
continuò così per tutto il tempo, interrompendosi solo per porre
alcune domande al ragazzo.
«“Vedi nulla nell’inchiostro?” disse.
«“No” rispose il ragazzo.
«Ma, poco dopo, cominciò a tremare e sembrò molto
spaventato.
«“Vedo un uomo che spazza a terra” disse.
«“Quando ha finito di spazzare, avvisami” disse lo sceicco.
«“Ha finito” disse il ragazzo.
«Lo stregone si voltò verso di me e mi chiese chi volevo che il
ragazzo vedesse.
«“Desidero che veda la vedova Jeanne-Marie Porhoët”.
«Il mago gettò la seconda e la terza strisciolina di carta nel
fornello, e venne aggiunto altro incenso. I fumi mi ferivano gli
occhi. Il ragazzo cominciò a parlare.
«“Vedo una vecchia stesa su un letto. Ha un abito nero, e
sulla testa una cuffietta bianca. Ha il viso rugoso e gli occhi
chiusi. Ha una sciarpa legata sotto il mento. Il letto è in una
specie di nicchia nel muro, con degli sportelli”.
«Il ragazzo stava descrivendo un letto bretone, e la cuffietta
bianca era la coiffe che mia madre era solita indossare. E se
portava il suo abito nero, con una sciarpa legata sotto il mento,
sapevo che voleva dire una cosa sola.
«“Cos’altro vede?” domandai allo stregone.
«Egli ripeté la mia domanda, e il ragazzo parlò di nuovo.
«“Vedo quattro uomini che entrano con una lunga cassa. Ci
sono delle donne che piangono. Indossano tutte delle cuffie
bianche e degli abiti neri. E vedo un uomo con una cotta bianca
e una grande croce tra le mani, e un ragazzino con una lunga
veste rossa. Gli uomini si tolgono il cappello. Adesso si stanno
inginocchiando tutti”.
«“Non voglio sentire altro” dissi. “Basta così”.
«Sapevo che mia madre era morta.
«Dopo un po’ di tempo, ricevetti una lettera dal prete del
paese in cui viveva. L’avevano sepolta proprio il giorno in cui il
ragazzo aveva avuto la visione nello specchio d’inchiostro».
Il dottor Porhoët si passò la mano sugli occhi e per un po’
rimanemmo in silenzio.
«Cosa ne dite?» domandò infine Oliver Haddo.
«Nulla» rispose Arthur.
Haddo lo guardò per qualche istante con quegli strani occhi
che sembravano fissare il muro alle sue spalle.
«Ha mai sentito parlare di Eliphas Lévi?» domandò. «È
l’occultista più famoso dei nostri tempi. Si dice che di scienze
occulte sappia più di qualunque altro adepto sin dai tempi del
divino Paracelso».
«L’ho incontrato una volta» lo interruppe il dottor Porhoët.
«Mai visto nessuno che somigliasse meno a un mago. Il suo viso
irradiava cordialità, aveva una lunga barba grigia che gli
arrivava fino a metà del petto. Era di bassa statura, molto
corpulento».
«La pratica delle arti magiche evidentemente dispone
all’obesità» disse Arthur, gelido.
Susie notò che questa volta Oliver Haddo non aveva dato
segno di essere toccato da quel sarcasmo. I suoi occhi
immobili, fissi, rimasero posati su Arthur, senza alcuna
espressione.
«Lévi si chiamava in realtà Alphonse-Louis Constant, ma
adottò il nome con il quale è noto per motivi fin troppo chiari a
una mente romantica. Suo padre faceva il calzolaio. Egli era
destinato al sacerdozio, ma si innamorò di una bella fanciulla e
la sposò. La loro unione fu infelice. La stessa sorte è toccata a
uomini anche più grandi di lui: la moglie, poco dopo,
abbandonò il tetto coniugale con l’amante. Per consolarsi egli
si dedicò a serie ricerche nel campo dell’occulto, e nel tempo
pubblicò un gran numero di trattati mistici su ogni aspetto
della magia».
«Sono certa che Mr Haddo stava per dirci qualcosa di molto
interessante su di lui» disse Susie.
«Desideravo soltanto darvi un resoconto di come egli evocò lo
spirito di Apollonio di Tiana a Londra».
Susie si mise comoda sulla poltrona e accese una sigaretta.
«Egli si recò a Londra nella primavera del 1856 per sfuggire
a un’intima inquietudine e per dedicarsi ai suoi studi senza che
nulla potesse distrarlo. Aveva lettere di presentazione per vari
illustri studiosi del soprannaturale, ma, avendoli trovati banali
e indifferenti, si immerse nello studio della somma Qabbalah.
Un giorno, rientrando in albergo, trovò nella sua stanza un
messaggio. Nella busta c’era una mezza carta, divisa
trasversalmente, su cui riconobbe subito il simbolo del sigillo di
Salomone, e un bigliettino con scritto a matita: “L’altra metà di
questa carta le sarà consegnata domani alle tre davanti
all’abbazia di Westminster”. Il giorno successivo, recandosi al
luogo indicato con la sua parte di carta in mano, trovò ad
attenderlo una carrozza baronale. Un valletto gli si avvicinò e,
facendogli un cenno, aprì la porta della carrozza. All’interno
c’era una dama in un abito di raso nero, il volto nascosto da un
fitto velo. Gli indicò il posto accanto a sé e gli mostrò l’altra
metà della carta. La porta fu chiusa e la carrozza partì. Quando
la dama sollevò il velo, Eliphas Lévi vide che era di età matura,
e sotto le sopracciglia grigie splendevano due occhi scuri e
luminosi, di una fissità soprannaturale».
Susie Boyd batté le mani per l’entusiasmo.
«È fantastico, e sono sicura che è tutto vero» esclamò. «Sono
stregata da questo misterioso incontro all’abbazia di
Westminster in piena età vittoriana. Mi pare di vedere l’anziana
dama con un’enorme crinolina e un cappellino nero allacciato
sotto il mento, e il mago con un buffo copricapo, una redingote
verde bottiglia e una cravatta di seta nera».
«Eliphas osservò che la dama parlava francese con un forte
accento inglese» continuò Haddo imperturbabile. «Ella si
rivolse a lui con queste parole: “Signore, sono consapevole che
la legge della segretezza è rigorosa fra gli adepti e so che lei è
stato invitato a parlare di fenomeni rari, ma si è sempre
rifiutato di gratificare la curiosità di gente frivola. Può darsi
che lei non possieda tutto il materiale necessario. Io posso
mostrarle un gabinetto di magia completamente attrezzato, ma
prima devo esigere da lei il più inviolabile silenzio. Se non me
lo garantirà sul suo onore, darò ordine di riaccompagnarla a
casa”».
Oliver Haddo raccontava questa storia con una certa
eloquenza, ma con un’aria tra il serio e il faceto, perciò non si
sapeva come prenderla esattamente.
«Dopo la promessa, Eliphas Lévi fu ammesso a vedere una
collezione di vesti e strumenti magici. La dama gli prestò alcuni
libri dei quali aveva bisogno e, dopo molti colloqui, lo convinse
a tentare a casa sua l’esperimento di un’evocazione completa.
Egli
si
preparò
per
ventuno
giorni,
osservando
scrupolosamente le regole previste dal rituale. Alla fine tutto fu
pronto. Decisero di evocare lo spirito del divino Apollonio e di
interrogarlo su due argomenti, il primo riguardante Eliphas
Lévi, l’altro la dama dalla crinolina. Dapprima ella aveva
pensato di assistere all’evocazione con una persona di fiducia,
ma all’ultimo momento il suo amico si tirò indietro. E poiché i
riti magici prescrivono rigorosamente la triade o l’unità,
Eliphas fu lasciato solo. Lo studiolo preparato per
l’esperimento si trovava in una torre. Vi erano appesi quattro
specchi concavi, e c’era un altare di marmo bianco circondato
da una catena di ferro magnetico, sulla quale era inciso il
simbolo del Pentalfa, riprodotto anche sul bianco vello di
montone steso a terra e ancora intatto. Sull’altare era posato
un braciere di rame, con dentro carbone di ontano e legno di
alloro; di fronte, su un tripode, c’era un secondo braciere.
Eliphas Lévi indossava una veste bianca, più lunga e più ampia
della cotta di un prete, e sulla testa aveva una ghirlanda di
foglie di verbena intrecciate con una catena d’oro. In una mano
stringeva una spada nuova fiammante, nell’altra il Rituale».
La passione di Susie per la caricatura si ridestò
immediatamente, ed ella rise nell’immaginare il tarchiato
francese, dal viso tondo e rubizzo, abbigliato in quel modo
eccezionale.
«Egli accese due fuochi con gli ingredienti che aveva
preparato e dette inizio, dapprima a bassa voce, poi sempre più
forte, alle invocazioni del rituale. Le fiamme si posavano con
luce tremula su tutti gli oggetti, poi d’improvviso si estinsero.
Egli aggiunse altri ramoscelli ed essenze nel braciere e, quando
la fiamma riprese a divampare, vide distintamente davanti
all’altare una figura umana, di dimensioni più grandi del reale,
che si dissolse e scomparve. Riprese le invocazioni ed entrò
all’interno di un cerchio che aveva precedentemente tracciato
fra l’altare e il tripode. La profondità dello specchio che aveva
dinanzi cominciò a farsi sempre più luminosa e da essa scaturì
una forma pallida, che pareva pian piano avvicinarsi. Egli
chiuse gli occhi e per tre volte chiamò Apollonio. Quando li
riaprì, davanti a lui c’era un uomo, completamente avviluppato
in un sudario che pareva più grigio che nero. Era gracile,
malinconico, glabro. Eliphas sentì un freddo intenso e, quando
cercò di porgli le domande, si accorse che non riusciva a
parlare. Posò allora la mano sul Pentalfa e rivolse la punta della
spada verso la figura, ingiungendole mentalmente di non
terrorizzarlo, ma anzi di obbedirgli. L’entità d’improvviso si
fece indistinta e poi, misteriosamente, scomparve. Egli le
ordinò di ritornare, e allora si sentì sfiorare come da un soffio;
qualcosa gli toccò la mano che reggeva la spada e subito il
braccio si intorpidì fino alla spalla. Immaginando che l’arma
avesse contrariato lo spirito, Eliphas la posò all’interno del
cerchio. La figura umana ricomparve immediatamente, ma
Eliphas fu colto da un tale improvviso sfinimento in tutte le
membra che fu obbligato a sedersi. Cadde in una sorta di coma
profondo e fece strani sogni dei quali, quando si riprese, non
serbò che un vago ricordo. Il braccio rimase intorpidito e
dolente per giorni. La figura non gli aveva parlato, ma Eliphas
Lévi aveva l’impressione di aver ricevuto, nella propria mente,
tutte le risposte. Perché, a ciascuna domanda, una voce
interiore replicava con un’unica, sinistra parola: morto».
«A quanto pare il suo amico non temeva i fantasmi, proprio
come lei non teme i leoni» disse Burdon. «A me sembra chiaro
che tutti questi preparativi, le essenze, gli specchi, i Pentalfa,
colpiscano enormemente l’immaginazione. L’unica cosa che mi
sorprende è che il suo mago non abbia visto nulla di più».
«Fu lo stesso Eliphas Lévi a parlarmi di questa evocazione»
disse il dottor Porhoët. «Mi disse che ebbe un’enorme influenza
su di lui. Dopo non fu più lo stesso, perché gli sembrava che
qualcosa dall’aldilà fosse passato nella sua anima».
«Mi stupisce che lei non abbia provato di persona un
esperimento così interessante» disse Arthur a Oliver Haddo.
«L’ho fatto» rispose l’altro, tranquillamente. «Mio padre
perse la facoltà di parlare poco prima di morire, ed era chiaro
che cercava con tutte le forze di dirmi qualcosa. Un anno dopo
la sua morte, richiamai il suo spirito dalla tomba, perché mi
mettesse a parte delle sue ultime volontà. L’apparizione
avvenne in circostanze molto simili a quelle che vi ho appena
raccontato, e vi annoierebbe sentirle di nuovo. L’unica
differenza fu che mio padre parlò».
«E cosa disse?» domandò Susie.
«Disse solennemente: “Compra le Ashanti, saliranno”. Io feci
come mi aveva ordinato. Ma mio padre era sempre stato
sfortunato con le speculazioni, e quelle azioni scendevano
regolarmente. Le rivendetti con una perdita considerevole e
conclusi che nell’aldilà ignorano le tendenze della borsa
proprio come le ignoriamo noi in questa valle di lacrime».
Susie non riuscì a trattenere una risata. Ma Arthur si strinse
nelle spalle con insofferenza. Disturbava la sua mente
pragmatica non sapere mai con certezza se Haddo fosse serio o
se, come ora, stesse semplicemente prendendosi gioco di loro.
6
Due giorni dopo, Arthur ricevette la risposta di Frank Hurrell
alla sua lettera. Era tipico di Frank darsi pena di rispondere a
una domanda con dovizia di particolari, ed era evidente che
non aveva affatto perduto il suo antico interesse per le
personalità eccentriche. Egli analizzava il carattere di Oliver
Haddo con la pazienza di uno scienziato che studi con zelo e
passione una nuova specie.
«Mio caro Burdon,
«è singolare che tu mi scriva proprio adesso per chiedermi
cosa so di Oliver Haddo; l’altra sera, in Queen Anne’s Gate, ho
infatti cenato con un uomo che aveva molto da raccontare su di
lui. Sono curioso di conoscere il motivo del tuo interesse, visto
che le sue peculiarità lo rendono senza dubbio ripugnante a
una persona dotata del tuo solido buonsenso. Non riesco a
immaginare due uomini destinati ad andare meno d’accordo.
Benché non veda Haddo ormai da anni, posso comunque
raccontarti molte cose su di lui. Ha sbagliato a descrivermi
come un suo amico intimo. È vero che un tempo ci vedevamo
spesso, ma io non ho mai smesso di detestarlo cordialmente.
Arrivò a Oxford da Eton con la reputazione di atleta e di
eccentrico. Ma tu sai che niente più dell’eccentricità suscita la
malevolenza dei giovani, ed egli divenne incredibilmente
impopolare. Si scoprì che era un eccellente calciatore e, se non
fosse stato per la sua sprezzante indolenza, sarebbe riuscito
senza difficoltà a entrare nella squadra del college. Ma si
prendeva gioco del diffuso entusiasmo per lo sport e soleva dire
che il cricket è perfetto per i giovani, ma non è certo un
passatempo adatto a un uomo (a quel tempo aveva diciotto
anni!). Parlava con grande pomposità di caccia grossa e
alpinismo, definendoli sport che richiedono coraggio e fiducia
in se stessi. Sembrava amare il calcio, ma lo praticava con tale
feroce brutalità che gli altri giocatori naturalmente se ne
risentivano. Divenne voce comune che anche in altre attività
non rispettasse le regole. Non faceva nulla di palesemente
scorretto, ma si prendeva delle libertà che altri avrebbero
giudicato sleali; giocando con lui era più duro accettare la
sconfitta, perché esultava sui vinti con il volgare scherno che i
giovani trovano tanto difficile da sopportare.
«Sembra incredibile, eppure a quel tempo era molto
avvenente. Adesso è ingrassato, ma allora era bellissimo.
Ricordava una di quelle statue colossali di Apollo, nelle quali il
dio è rappresentato con una delicatezza e una morbidezza
tipicamente femminee. Era molto alto, e aveva una figura
splendida. Era così prestante per la sua età che c’era da
prevedere la sua precoce corpulenza. Il suo portamento era
straordinariamente eretto. Molti lo definivano uno spaccone
insolente. I suoi lineamenti erano fini, regolari. Aveva una gran
massa di capelli ricci, che portava lunghi, quasi con grazia
poetica: mi hanno detto che ora è calvo, e posso immaginare
che brutto colpo debba essere stato per lui, perché era
vanitosissimo. Ricordo un particolare dei suoi occhi, che dubito
fosse naturale, anche se non so come sia riuscito ad acquisirlo.
Di solito gli occhi delle persone convergono sull’oggetto
osservato, mentre i suoi restavano paralleli. Ciò gli conferiva
uno sguardo singolare, come se scrutasse i più intimi pensieri
della persona con cui parlava. Era famoso anche per la
stravaganza del suo vestiario ma, a differenza degli esteti del
tempo, che si abbigliavano con artistica noncuranza, amava i
colori sgargianti. Talvolta, per uno strano capriccio, si vestiva
con una formalità eccessiva, inadatta al momento. È l’unico
studente universitario che io abbia mai visto passeggiare per
High Street con il cappello a cilindro e una redingote
abbottonata fino al collo.
«Ti ho detto che era molto impopolare, ma questo non
significa che gli altri lo ignorassero lasciandolo in compagnia di
se stesso. Haddo conosceva tutti, e capitava di incontrarlo nei
posti più impensati. Sebbene la gente lo detestasse, provava
uno strano piacere nel frequentarlo, ed egli era, probabilmente,
l’uomo più richiesto di tutta Oxford. Ogni volta che lo vedevo
era sempre circondato da una piccola folla che, pur
prendendosi gioco di lui alle sue spalle, non riusciva a resistere
al suo fascino.
«Ho spesso cercato di analizzare questo fenomeno poiché
riguardava anche me; sebbene in tutta onestà non riuscissi a
sopportare Haddo, non potevo fare a meno di ricercare la sua
compagnia ogni volta che se ne presentava l’occasione.
Suppongo che avesse il fascino dell’insolito per la gran massa
di studenti universitari che, sotto una scorza di pragmatica
disinvoltura, nascondevano un’insospettata indole avventurosa.
Era impossibile prevedere cosa avrebbe detto o fatto un attimo
dopo, e con lui si stava perennemente in guardia. Di certo non
era spiritoso, ma il suo umorismo grossolano eccitava il gusto
giovanile per il ridicolo. Aveva un’ingegnosa attitudine alla
caricatura, una sicurezza imperturbabile e una particolare
predisposizione al linguaggio blasfemo. La sua inventiva in
questo campo esercitava un vero potere sui giovani, la cui
fantasia non andava oltre le forme più scontate della volgarità.
L’ho sentito predicare, con gli stessi accenti del defunto decano
del Christ Church, un sermone dei più sacrileghi, offensivo ma
al tempo stesso irresistibile per chiunque lo ascoltasse. Aveva
una cultura più variegata rispetto agli altri studenti e poiché
nel contempo aveva una grande capacità mnemonica e una
considerevole prontezza, assumeva un atteggiamento di
onniscienza suggestivo quanto irritante. Mai che abbia
ammesso di non aver letto un libro. Spesso, quando cercavo di
coglierlo in fallo, egli mi confondeva citando parola per parola
brani di opere che avrei giurato non avesse mai letto. Sarei
portato a dire che fossero meri giochi di destrezza, come quelli
del prestigiatore, che dà l’illusione di far scegliere una carta,
mentre in effetti la impone. Egli, con estrema abilità, guidava la
conversazione proprio al punto in cui avrei dovuto per forza
citare un certo libro. Parlava molto bene, in un flusso
travolgente e pomposo che rendeva particolarmente spassose
le cose divertenti che diceva. Il suo linguaggio ricercato
contrastava in modo stridente con i discorsi semplici di chi gli
stava intorno e conferiva maggiore autorevolezza alle sue
parole. Era orgoglioso della sua famiglia e non esitava a
raccontare ai curiosi della sua illustre casata. A meno che non
sia molto cambiato, sicuramente l’avrai sentito parlare dei suoi
rapporti con più di una nobile famiglia. In effetti, è
strettamente imparentato con persone di rilievo, e la sua
ascendenza è insigne quanto egli asserisce. Suo padre è morto
e ha una proprietà storica nello Staffordshire. Ho visto alcune
foto, è bellissima. I suoi antenati si sono distinti nella storia
d’Inghilterra fin dai tempi del cortigiano che accompagnò in
Scozia Anna di Danimarca: ha dunque buoni motivi per andare
orgoglioso della sua famiglia. Nel tempo che visse a Oxford era
detestato cordialmente, ma sempre rispettato, pur senza
godere della fiducia altrui. Aveva fama di bugiardo e canaglia,
ma la sua influenza sugli altri era innegabile. Divertiva, faceva
infuriare, irritava, interessava chiunque venisse in contatto con
lui. Aveva un che di misterioso e amava ammantarsi di una
romantica impenetrabilità. Benché conoscesse tanta gente,
nessuno conosceva lui, e fino alla fine rimase un estraneo nella
nostra cerchia. Attorno a lui sorse una leggenda, che egli
alimentava con cura: si raccontava che avesse dei vizi segreti,
di cui si poteva solo parlare sottovoce. Pareva che facesse uso
di droghe orientali e frequentasse le più malfamate fumerie
d’oppio dei quartieri a est di Londra. La sorpresa più grande la
serbò per ultima: benché nessuno l’avesse mai visto studiare,
tra lo stupore generale riuscì a ottenere la laurea con il
massimo dei voti. Dopodiché ripartì e, a quanto mi risulta, a
Oxford non lo si è più visto.
«Ho sentito accennare vagamente ai suoi viaggi per il mondo,
e quando mi capitava di incontrare qualcuno che lo aveva
conosciuto all’università, mi giungevano all’orecchio strane
chiacchiere. C’era chi diceva che girovagava per l’America,
guadagnandosi da vivere qua e là; chi raccontava di averlo
visto in un monastero in India; chi sosteneva che aveva sposato
una ballerina di Milano, e chi dichiarava con assoluta certezza
che si era dato al bere. Un’opinione, però, era comune a tutti i
miei informatori: quel che faceva era sicuramente al di fuori
della norma. Era chiaro che non si trattava di una persona
disposta a adattarsi alla monotona vita del gentiluomo di
campagna, come la sua posizione e il suo patrimonio avrebbero
potuto consigliare. Un giorno, dopo tanto tempo, lo incontrai a
Piccadilly e cenammo insieme al Savoy. Quasi feci fatica a
riconoscerlo, giacché era diventato molto robusto e i suoi
capelli si erano diradati. Sebbene non potesse avere più di
venticinque anni, sembrava notevolmente più vecchio. Cercai
di scoprire che cosa avesse fatto nel frattempo, ma, con l’aria
di mistero che soleva ostentare, evitò di scendere in particolari.
Mi dette a intendere di essere stato in terre dove l’uomo bianco
non si era mai visto prima e di aver appreso segreti esoterici
che sconvolgevano le fondamenta della scienza moderna. Mi
sembrò involgarito di mente e di aspetto. Non so se per via
della mia maturazione rispetto ai tempi di Oxford, e della mia
maggior conoscenza del mondo, ma non mi parve brillante
quanto lo ricordavo. La sua propensione allo scherzo era
piuttosto sciocca e lui, a dirla tutta, mi annoiava. Quella posa
che sembrava divertente in un giovane appena uscito da Eton
era intollerabile, e fui lieto quando ci salutammo. Non si
smentì: dopo avermi invitato a cena, con il suo fare da gran
signore lasciò che fossi io a pagare il conto.
«Poi non ho più sentito parlare di lui fino all’altro giorno,
quando la nostra amica, Miss Ley, mi ha invitato a cena
insieme
all’esploratore
tedesco
Burkhardt.
Ricorderai
sicuramente che Burkhardt ha pubblicato, qualche tempo fa, un
libro sulle sue avventure nell’Asia centrale. Sapevo che Oliver
Haddo l’aveva accompagnato in quel viaggio, e proprio per
questo mi ero riproposto di leggere il libro, ma avevo avuto
troppo da fare e non c’ero ancora riuscito. Ho colto l’occasione
per chiedere al tedesco della nostra comune conoscenza, e così
abbiamo fatto una lunga chiacchierata. Burkhardt l’aveva
incontrato per caso a Mombasa, nell’Africa orientale, dove
stava organizzando una spedizione di caccia grossa, e si erano
accordati per partire insieme. Mi ha raccontato che Haddo
aveva una mira infallibile ed era un cacciatore eccellente.
Burkhardt diffidava di chi si vantava continuamente delle
proprie imprese, ma fu ben presto costretto ad ammettere che
le vanterie di Haddo non erano infondate. Egli fu protagonista
di un episodio straordinario, del quale Burkhardt fu testimone.
Una notte uscì da solo sulle tracce di tre leoni e li uccise tutti
prima dell’alba, e tutti al primo colpo. Io non mi intendo di
queste cose, ma da come ne parlava Burkhardt direi che si
tratta di un caso pressoché unico. Ovviamente, nessuno più di
Haddo era consapevole della singolarità dell’impresa, ed egli
rese dunque la vita insopportabile al suo compagno di viaggio.
Burkhardt è convinto che Haddo sia davvero eccezionale nel
dare la caccia alle grosse prede. Ha una sorta di istinto che lo
guida nei posti più opportuni e un prodigioso senso
dell’orientamento, che gli consente di intercettare e
sorprendere animali di cui ha notato le tracce. Ha un coraggio
immenso. Seguire un leone ferito nel suo nascondiglio è il
comportamento più pericoloso del mondo e richiede
un’assoluta freddezza. L’animale infallibilmente vede il
cacciatore prima di essere visto, e nella maggior parte dei casi
lo aggredisce. Ma Haddo, in occasioni simili, non ha mai
esitato, e Burkhardt non ha potuto fare a meno di esprimere la
più totale ammirazione per tanta audacia. Haddo non è quel
che si dice un cacciatore sportivo. Uccide per capriccio, senza
una ragione plausibile, per il semplice piacere di farlo e, con
grande indignazione di Burkhardt, spesso non si curava
nemmeno di portare via le pelli e le corna delle prede. Quando
le antilopi erano talmente lontane che era impossibile
ucciderle, e l’approssimarsi della notte rendeva inutile
l’inseguimento, egli sparava lo stesso, per poi abbandonare la
povera bestia ferita a morire lentamente. Il suo egoismo era
estremo e non condivideva mai nessuna informazione con
l’amico,
temendo
che
potesse
togliergli
il
piacere
dell’inseguimento della preda. Nonostante tutto, Burkhardt
aveva un’opinione talmente elevata delle sue capacità e delle
sue risorse che, quando organizzò il viaggio in Asia, lo cercò
per chiedergli di andare con lui. Haddo acconsentì, e il libro di
Burkhardt fornisce ulteriori prove, se mai ce ne fosse bisogno,
delle sue straordinarie qualità. Il tedesco mi ha confessato che
in più di un’occasione il singolare intuito di Haddo gli ha
salvato la vita. Ma alla fine litigarono per il trattamento
dispotico che Haddo riservava agli indigeni. Burkhardt già lo
sospettava di crudeltà, ma ben presto apparve chiaro che
Haddo si comportava con loro in modo ingiustificabile. Infine
ebbe una violentissima lite con uno degli inservienti del campo,
che si concluse con l’uccisione dell’uomo. Haddo giurò di aver
sparato per difendersi, ma il suo gesto provocò una diserzione
generale e i due viaggiatori si ritrovarono in una situazione
estremamente pericolosa. Burkhardt pensava che Haddo fosse
da condannare senza esitazione e rifiutò di avere ancora a che
fare con lui. Si separarono. Burkhardt rientrò in Inghilterra e
Haddo, inseguito dagli amici dell’uomo assassinato, ebbe serie
difficoltà a salvare la pelle. Non ho più sentito parlare di lui,
finché non ho ricevuto la tua lettera.
«Insomma, un uomo fuori del comune. Confesso di non capire
nulla di lui. Niente che lo riguardi potrà mai sorprendermi. Ti
raccomando di evitarlo come la peste. Non può essere amico di
nessuno. Come conoscente, è ingannevole e insincero; come
nemico, incline a comportarsi in modo spietato e privo di
scrupoli.
«Che lettera lunghissima!
«Arrivederci, ragazzo mio. Spero che gli studi sui metodi
chirurgici francesi abbiano accresciuto la tua saggezza. La tua
industriosità mi è di esempio e sono certo che alla fine riuscirai
a diventare baronetto e presidente del Royal College of
Surgeons, liberando i membri della famiglia reale dalla loro
appendice vermiforme.
Con affetto,
Frank Hurrell».
Arthur, dopo aver letto due volte questa lettera, la mise in
una busta e la lasciò, senza alcun commento, a Miss Boyd. La
risposta della donna arrivò di lì a due ore: «L’ho invitato per il
tè mercoledì, non posso disdire. Venga ad aiutarci, ma la prego,
sia garbato con lui; faccia conto che, come la maggior parte di
noi, si sia preso
comandamenti».
qualche
libertà
mentale
con
i
dieci
7
La mattina del tè, Oliver Haddo lasciò sulla porta di Margaret
enormi mazzi di crisantemi. Ce n’erano così tanti da mutare
l’aspetto dell’austero appartamentino, conferendogli quella
luminosità effimera che Margaret non era mai riuscita a dargli,
nonostante i drappi di seta appesi qua e là alle pareti. Quando
Arthur arrivò, si dolse che la cosa non fosse venuta in mente a
lui.
«Mi dispiace davvero» disse. «Non ho dato gran prova di
urbanità».
Margaret sorrise e gli tese la mano.
«Mi piaci proprio perché non ti preoccupi delle banali,
piccole attenzioni degli innamorati».
«Margaret è una ragazza saggia» sorrise Susie. «Sa bene che
quando un uomo manda dei fiori, vuol dire che ha corteggiato
più di una donna».
«Non credo che questi fiori siano stati mandati a me in
particolare».
Arthur Burdon si sedette e osservò con piacere il fuoco
allegro. Le tende chiuse e le lampade creavano una gradevole
intimità e si respirava quella speciale aria romantica tipica
degli appartamenti degli artisti, dove un senso di libertà
dispone la mente a liete speculazioni. In un’atmosfera simile si
può essere seri senza pomposità, allegri senza essere fatui.
Nei pochi giorni della loro conoscenza, Arthur e Susie erano
giunti a instaurare un rapporto piacevolmente familiare. Susie,
dal suo piedistallo di donna nubile e non più giovane, lo
trattava con bonaria ironia. Per lei era un innamorato giovane e
svanito, e si stupiva che persino il più intelligente degli uomini,
in quella condizione, si comportasse come un perfetto idiota.
Ma Margaret sapeva che, se la sua amica lo prendeva in giro,
era soltanto perché lo approvava incondizionatamente. Man
mano che cresceva la loro confidenza, Susie imparava ad
apprezzare il carattere equilibrato di Arthur. Ne ammirava la
capacità di gestire le questioni di cui aveva competenza, e la
semplicità con cui evitava di immischiarsi laddove non si
sentiva all’altezza. In lui non c’era alcuna posa. Susie era
inoltre commossa dall’ingenuo candore che conferiva un
fascino suadente ai suoi modi sbrigativi; benché ella attribuisse
alla bellezza il valore che può darle una donna piuttosto
scialba, le fattezze di Arthur, abbozzate come in una statua di
porfido, le piacevano in modo particolare. Erano un riflesso del
suo carattere. Il suo aspetto dava l’idea dell’uomo forte ma
gentile, probo e semplice, non troppo fantasioso né troppo
brillante, ma del tutto affidabile e onesto fin nel profondo
dell’anima. In quel momento egli sedeva con il terrier di
Margaret sulle ginocchia e gli carezzava le orecchie; Susie,
guardandolo, si chiese con una piccola stretta al cuore perché
nessun uomo simile ad Arthur si fosse mai interessato a lei. Era
evidente che sarebbe stato un compagno perfetto e il suo
amore, una volta conquistato, era di quelli che non mutano mai.
Il dottor Porhoët entrò e prese posto con la sobria tranquillità
che costituiva una delle sue attrattive. Non era un gran
parlatore, preferiva ascoltare in silenzio le chiacchiere dei
giovani. Il cane saltò giù dalle ginocchia di Arthur, andò verso il
dottore e gli si strofinò con aria amichevole sulle gambe. In
quella luce soffusa, cominciarono a parlare e quasi
dimenticarono che aspettavano un altro ospite. Margaret
sperava con tutta se stessa che non arrivasse. Non era mai
stata attraente come quel pomeriggio, ed era intenta a
preparare il tè con una grazia domestica che aggiungeva un
tocco delicato alla sua bellezza. La sua perfezione circonfusa di
tenera dignità rammentava quelle dolci sante familiari che
stemperano l’intensità di certe pagine dei codici miniati.
«C’est tellement intime ici» sorrise il dottor Porhoët
ricorrendo al francese nell’impossibilità di esprimere in inglese
la sensazione esatta che quella scena gli procurava.
Pareva il quadro di un pittore di genere. Non sembrava un
caso che i colori assumessero toni così gradevoli, o che le linee
della parete e delle persone sedute raggiungessero una tale
garbata
armonia.
L’atmosfera
era
straordinariamente
tranquilla.
Si sentì bussare alla porta e Arthur si alzò per aprire, seguito
dal terrier. Entrò Oliver Haddo. Susie osservò il cane e stavolta
non fu sorpresa dal suo cambiamento. Con la coda tra le
zampe, quella bestiola affettuosa scivolò lungo il muro fino
all’angolo più lontano. Rivolse a Haddo uno sguardo
sospettoso, pieno di paura, poi nascose la testa. L’ospite,
impegnato nei saluti, non aveva neppure notato la presenza di
un animale. Con una semplicità e una cortesia inaspettate,
accolse i ringraziamenti di Margaret per i fiori. Il suo
comportamento li sorprese. Aveva abbandonato ogni posa.
Sembrava
ammirare
sinceramente
l’accogliente
appartamentino. Chiese a Margaret di mostrargli i suoi schizzi
e li osservò senza ostentare interesse. I suoi commenti erano
acuti e denotavano una certa consapevolezza. Si definiva un
amatore, ovvero «colui che sa quel che gli piace» ed è spesso
oggetto della derisione dei pittori; ma le sue considerazioni,
per quanto generose, dimostravano che non era uno sciocco. Le
due donne erano impressionate. Messi da parte i disegni,
Haddo cominciò a parlare, una volta tanto non di se stesso, ma,
in modo brillante e spontaneo, dei molti luoghi che aveva visto.
Era evidente che cercava di piacere. Susie cominciò a capire
per quale motivo, nonostante gli atteggiamenti affettati, avesse
esercitato un’influenza così forte sugli studenti di Oxford. Nella
sua conversazione c’era qualcosa di avvincente e allegro; non
era spiritoso, come aveva detto Frank Hurrell, ma compensava
tale carenza con un’amena piacevolezza che poteva facilmente
venir scambiata per umorismo. Eppure Susie, per quanto
divertita, sentiva che non era questo lo scopo per cui gli aveva
chiesto di venire. Il dottor Porhoët le aveva prestato la sua
pregevole opera sugli antichi alchimisti, e questo le offriva
l’occasione di portare il discorso su argomenti di cui Haddo era
esperto. Aveva letto il libro con molto piacere; la sua mente era
infiammata da quelle strane storie in cui realtà e fantasia si
intrecciavano in maniera così mirabolante, ed era ansiosa di
saperne di più. Gli affanni dei tanti che avevano perso tutto,
spesso patendo persecuzioni e torture, la interessavano non
meno dei racconti ben documentati di coloro che erano riusciti
nella loro straordinaria impresa.
Si rivolse al dottor Porhoët.
«Lei ha un bell’ardire ad affermare che talvolta gli alchimisti
di un tempo riuscissero davvero a creare l’oro» disse.
«Non arrivo a tanto» sorrise lui. «Mi limito a dire che, se
venisse fornita una prova parimenti decisiva di altri eventi
storici, vi si crederebbe al di là di ogni dubbio. Possiamo
rifiutarci di prestare fede a questi dettagli di secondaria
importanza soltanto partendo dalla premessa che non siano
veri».
«Vorrei proprio che lei scrivesse quella biografia di Paracelso
cui accenna nella prefazione».
Il dottor Porhoët scosse la testa sorridendo.
«Non credo che lo farò» disse. «Eppure è il più interessante
di tutti gli alchimisti, una figura estremamente complessa che
pone un enigma intrigante. È impossibile sapere fino a che
punto fosse un ciarlatano e fino a che punto un serio uomo di
scienza».
Susie lanciò un’occhiata a Oliver Haddo, che sedeva in
silenzio, il viso pesante avvolto nell’ombra e gli occhi fissi sul
dottore che parlava. L’immobilità di quella mole immensa era
straordinaria.
«Il suo nome non è ridicolo quanto alcune associazioni
successive farebbero pensare» continuò il dottore. «Egli
apparteneva infatti all’illustre casata dei Bombast, che prese
poi il nome di Hohenheim dalla residenza avita, un castello nei
pressi di Stoccarda, nel Württemberg. La parte più
interessante della sua esistenza è proprio quella che è
impossibile circostanziare accuratamente, per mancanza di
documenti. Paracelso viaggiò in Germania, Italia, Francia, nei
Paesi Bassi, in Danimarca, Svezia e Russia. Arrivò persino in
India. Fu fatto prigioniero dai tartari e condotto alla presenza
del Gran Khan, il cui figlio in seguito accompagnò a
Costantinopoli. Davvero ottusa dev’essere la mente che non si
esalti al pensiero di questo genio vagabondo che traversò la
terra in un tempo di grandi eventi storici. Fu a Costantinopoli
che, secondo un certo aureum vellus stampato a Rorschach nel
Cinquecento, egli ricevette la pietra filosofale da Salomone
Trismosino. Costui possedeva anche la panacea universale e si
diceva che fosse stato visto ancora in vita da un viaggiatore
francese alla fine del Seicento. Paracelso, quindi, raggiunse
l’Italia attraverso i paesi che costeggiano il Danubio, e lì prestò
servizio come medico nell’esercito imperiale. Con tutta
probabilità prese parte alla battaglia di Pavia. Raccolse
informazioni da medici, chirurghi, alchimisti; da boia, barbieri,
pastori, ebrei, zingari, levatrici, cartomanti; da gente di alta e
bassa estrazione; da dotti e incolti. Nella breve storia della sua
carriera da me delineata, ho riportato alcune sue frasi
sull’acquisizione della conoscenza che suscitano in me una
particolare emozione».
Il dottor Porhoët prese il libro dalle mani di Miss Boyd e lo
aprì con volto pensoso. Lesse ad alta voce un estratto della
prefazione del Paragrano:
«“Sono andato in cerca della mia arte, spesso rischiando la
vita. Non mi sono vergognato di apprendere quel che mi pareva
utile anche dai vagabondi, dai boia, dai barbieri. Sappiamo che
un amante percorrerà molta strada per incontrare la sua
amata; tanto più l’amante della Saggezza sarà allora tentato di
andare alla ricerca della sua divina passione”».
Voltò pagina per leggere ancora qualche riga:
«“Dovremmo cercare la sapienza dove ci aspettiamo di
trovarla, perché dunque disprezzare chi la persegue? Coloro
che restano a casa possono arricchirsi e vivere più
confortevolmente di chi vaga; ma io non desidero né vivere
confortevolmente né arricchirmi”».
«Per Giove, questo è parlare» disse Arthur alzandosi in piedi.
La coraggiosa semplicità di quelle parole lo aveva commosso
quanto nessuna retorica sarebbe riuscita a fare, ed esse
alimentavano in lui il desiderio di dedicare la vita all’ardua
conquista della conoscenza. Il dottor Porhoët gli regalò il suo
sorriso ironico.
«Eppure, l’uomo che si espresse in questi termini era per
molti versi un vero buffone, che decantava i pregi delle sue
merci con la volgare abilità di un ciarlatano. Era vanesio ed
esibizionista, sfrenato e vanaglorioso. Ascolta: “Dopo di me,
Avicenna, Galeno, Rasis e Montagnana! Dopo di me, non io
dopo di voi, uomini di Parigi, Montpellier, Meissen e Colonia;
voi tutti che venite dai paesi lungo il Danubio e il Reno, e voi
che venite dalle isole del mare. Non mi si addice seguirvi,
perché mia è la signoria. Verrà il tempo in cui ciascuno di voi,
relegato nel suo angolo oscuro, sarà oggetto di disprezzo per il
mondo, perché io sarò il Re, e la Monarchia sarà mia”».
Il dottor Porhoët chiuse il libro.
«Avete mai sentito un simile vaniloquio in vita vostra? Eppure
Paracelso fece una cosa coraggiosa. Scrisse in tedesco, anziché
in latino, e così, indebolendo l’antica fede nell’autorità,
contribuì a dare avvio alla diffusione del libero pensiero nella
scienza. Continuò a viaggiare di luogo in luogo, seguito da una
folla di discepoli, a volte attratto in una ricca città dalla
speranza di guadagni, a volte raggiungendo una piccola corte
su invito di un principe. La sua follia e la malevolenza dei suoi
nemici gli impedivano di restare a lungo in un posto. Inventò
molte cure prodigiose. I medici di Norimberga lo denunciarono
come ciarlatano e impostore. Per confutarli, egli chiese al
consiglio cittadino di affidargli pazienti dichiarati incurabili. Gli
mandarono diversi casi di elefantiasi, ed egli li guarì: esistono
testimonianze in merito, ancora rintracciabili negli archivi di
Norimberga. Morì in una rissa da taverna e fu sepolto a
Salisburgo. La tradizione narra che, essendo il suo corpo
astrale diventato autocosciente nel corso della sua esistenza
fisica, egli è ora un adepto vivente e dimora con altri della sua
stessa specie in un certo luogo dell’Asia. Da lì ancora agisce
sulle menti dei seguaci, e talvolta appare loro in sostanza
visibile e tangibile».
«Ma mi dica un po’,» domandò Arthur «Paracelso, come molti
di questi antichi, non fece anche qualche scoperta dotata di
utilità pratica, nel corso delle sue ricerche?».
«Io preferisco quelle prive di utilità pratica,» confessò il
dottore con un sorriso «ad esempio la tinctura physicorum, che
né papi né imperatori poterono mai comprare, nonostante le
loro ricchezze. Fu uno dei più grandi misteri alchemici, e
sebbene sia menzionata in molte opere di occultismo con il
nome di Leone rosso, in realtà, prima di Paracelso, era nota a
ben pochi, se si escludono Ermete Trismegisto e Alberto
Magno. La sua preparazione era estremamente complessa,
essendo necessaria la presenza di due persone in perfetta
armonia e di pari competenza. Si diceva che fosse un fluido
rosso ed etereo. La meno portentosa delle sue virtù era il
potere di trasformare tutti i metalli vili in oro. Si dice che della
tintura sia ancora sepolta sotto una vecchia chiesa in Baviera.
Nel 1698 una piccola quantità di fluido filtrò dal terreno e
molte persone furono testimoni di questo fenomeno, ritenuto
un miracolo. La chiesa che fu eretta sul posto è un famoso
luogo di pellegrinaggio. Paracelso conclude le sue indicazioni
per la preparazione della tintura con queste parole: “Ma se ciò
vi risulta incomprensibile, rammentate che soltanto colui che
vuole con tutto il cuore troverà, e soltanto a colui che bussa
con forza la porta sarà aperta”».
«Io non cercherò mai di prepararla» sorrise Arthur.
«C’era poi l’electrum magicum, con il quale i sapienti
facevano degli specchi per poter vedere non solo i grandi
avvenimenti del passato e del presente, ma anche le azioni
compiute dagli uomini, di giorno e di notte. Potevano vedere
qualunque cosa fosse stata scritta o detta, colui che l’aveva
detta e i motivi che l’avevano spinto a farlo. Ma quello che
preferisco è il primum ens melissae. Per la sua preparazione
occorre seguire un’elaborata ricetta. È un rimedio per
prolungare la vita, e non solo Paracelso, ma anche i suoi
predecessori Galeno, Arnaldo da Villanova e Raimondo Lullo si
erano adoperati con zelo nella sua ricerca».
«Riuscirà a farmi tornare ai miei diciotto anni?» esclamò
Susie.
«Sicuramente» rispose serio il dottor Porhoët. «Lesebren,
uno dei medici di Luigi XIV, dà un resoconto di alcuni
esperimenti di cui egli stesso fu testimone. Pare che uno dei
suoi amici avesse preparato il rimedio, ed egli non trovò pace
finché non ne ebbe visto con i propri occhi l’effetto».
«Ecco un vero atteggiamento scientifico» rise Arthur.
«Ogni mattina, al sorgere del sole, egli beveva un bicchiere di
vino bianco con una goccia di questo preparato. Dopo
quattordici giorni, cominciarono a cadergli le unghie, senza che
sentisse alcun dolore. A quel punto gli mancò il coraggio e
somministrò la stessa dose a una vecchia serva. Con suo
grande stupore, poiché non sapeva di aver preso una medicina,
la donna riconquistò almeno in parte l’aspetto che aveva da
giovane; e, spaventata, si rifiutò di continuare. Lo
sperimentatore, allora, prese del grano, lo immerse nella
tintura e lo dette a una vecchia gallina. Il sesto giorno questa
cominciò a perdere le piume fino a ritrovarsene, ben presto,
completamente priva, come un pulcino appena nato; ma, dopo
neppure due settimane, le crebbe un nuovo piumaggio, molto
più bello e colorato di quanto lo avesse mai avuto. Le si drizzò
di nuovo la cresta e riprese a deporre le uova».
Arthur rise di cuore.
«Devo confessare che questa storia mi piace molto di più. Il
primum ens melissae quanto meno offre un beneficio meno
futile rispetto agli altri segreti magici».
«E lei definisce futile la ricerca dell’oro?» domandò Haddo,
che era rimasto a lungo in perfetto silenzio.
«Io la definirei sordida».
«Lei è un essere superiore».
«Perché giudico gli intenti di questi mistici invariabilmente
grossolani o volgari? A mio modo di vedere, è vano far
risorgere i morti solo per udire dalle loro labbra spettrali dei
banali luoghi comuni. E, in realtà, non vedo proprio perché
l’alchimista che dedicò la vita al tentativo di creare l’oro debba
essere più rispettabile di un operatore di borsa della civiltà
moderna».
«Ma se cercava l’oro, era per il potere che gli avrebbe
assicurato, ed era al potere che mirava quando meditava notte
e giorno su nebulosi segreti. Il potere era l’oggetto di tutti i
suoi sogni, ma non il potere limitato, meschino, sull’una o
sull’altra cosa; bensì il potere su tutto il creato, il potere sugli
stessi elementi, il potere su Dio. La sua bramosia era così
sfrenata da non dargli pace finché il corso delle stelle non
avesse obbedito alla sua volontà».
Per una volta Haddo aveva perso i suoi modi enigmatici. Era
ormai chiaro che le sue stesse parole lo inebriavano, e aveva
sul volto una nuova, strana espressione. Un’arroganza tutta
particolare gli lampeggiava negli occhi luminosi.
«E cos’altro cercherebbero gli uomini nella vita se non il
potere? Se vogliono denaro, è solo per il potere che esso
assicura; e la conquista della conoscenza è sempre una lotta
per il potere. Miserabili e stolti mirano alla felicità, ma gli
uomini mirano solo al potere. Il mago, lo stregone, l’alchimista
sono conquistati dal fascino dell’ignoto e anelano a una
grandezza inaccessibile al genere umano. Pensano che, grazie
alla scienza studiata tanto pazientemente, grazie alla
sopportazione e alla forza, alla volontà e all’immaginazione –
perché queste sono le grandi armi del mago –, potranno
finalmente conquistare un potere che consenta loro di sfidare il
Dio dei cieli».
Oliver Haddo sollevò l’immensa mole dalla bassa poltrona
nella quale era seduto e cominciò a camminare avanti e
indietro per la stanza. Era curioso vedere quell’omone dalla
serietà sempre indecifrabile in preda a una curiosa eccitazione.
«A proposito di Paracelso,» disse «c’è un suo esperimento
che il dottore vi ha taciuto. Vi renderete conto che non è né
gretto né interessato, ma terribile. Io non so se quel che se ne
dice sia vero, ma sarebbe molto interessante poterlo
verificare».
Fece correre lo sguardo sui quattro che lo fissavano con
attenzione. C’era una singolare agitazione nei suoi modi, come
se ciò di cui parlava gli stesse molto a cuore.
«Gli antichi alchimisti credevano che la generazione
spontanea fosse possibile. Mediante la combinazione di energie
psichiche e di strane essenze, essi sostengono di aver creato
forme nelle quali si manifestava la vita. Di queste, le più
meravigliose erano alcuni misteriosi esseri, maschi e femmine,
che chiamarono homunculi. Gli antichi filosofi dubitavano che
questa operazione fosse realizzabile, ma Paracelso ne era
convinto. Una volta, per quattro soldi, acquistai un libretto in
tedesco su un carrettino vicino al London Bridge. Era sporco e
gualcito, molte pagine erano strappate e la legatura teneva a
stento insieme i fogli. Si intitolava Die Sphinx, ed era curato da
un certo dottor Emil Besetzny. Conteneva il resoconto più
straordinario che io abbia mai letto sulla generazione di alcuni
spiriti a opera di Johann Ferdinand, conte von Kufstein, in
Tirolo, nel 1775. Le fonti sono manoscritti massonici, ma
soprattutto un diario tenuto da un certo James Kammerer,
maggiordomo e famiglio del conte. Le prove sono dieci volte
più forti di quelle a sostegno di qualsiasi articolo di religione, in
cui gli uomini pur credono. Se gli argomenti fossero meno
sensazionali, non si esiterebbe a dar credito a ogni parola.
Dieci homunculi –Kammerer li chiama spiriti profetici – erano
tenuti dentro robusti vasi di vetro come quelli usati per
conservare la frutta, pieni d’acqua e chiusi con un sigillo
magico. Erano stati creati in cinque settimane dal conte von
Kufstein e da un mistico Rosacroce italiano, l’abate Geloni.
Erano alti circa una spanna e il conte non vedeva l’ora che
crescessero. I vasi vennero pertanto ricoperti con abbondanza
di sterco e sul tumulo veniva spruzzata ogni giorno un’essenza
preparata con estrema cura dagli adepti, finché esso cominciò
a fermentare e a esalare vapore, quasi fosse scaldato da un
fuoco sotterraneo. Quando i vasi furono rimossi, si scoprì che
gli spiriti erano alti fino a una spanna e mezzo; a tutti erano
cresciute le unghie, e ai maschi barbe fluenti. In due dei vasi
non si vedeva nient’altro che acqua limpida, ma quando l’abate
picchiò tre volte sul sigillo, pronunciando alcune parole in
ebraico, l’acqua assunse uno strano colore e apparvero dei
volti, dapprima erano molto piccoli, poi via via più grandi fino a
raggiungere le dimensioni di un volto umano. Avevano un
aspetto orribile, demoniaco».
Haddo parlava piano; gli tremava la voce ed era
profondamente scosso. La storia lo turbava tanto da fargli
quasi perdere il controllo. Continuò.
«Queste creature venivano nutrite dal conte ogni tre giorni
con una sostanza rosa conservata in una scatola d’argento. Una
volta alla settimana i vasi venivano vuotati e riempiti di nuovo
con pura acqua piovana. L’operazione doveva svolgersi
rapidamente, perché quando gli homunculi erano esposti
all’aria sembravano indebolirsi e perdere coscienza, come se
stessero per morire. Nell’acqua degli spiriti invisibili, invece, a
intervalli di tempo stabiliti veniva versato del sangue, che
scompariva immediatamente e inspiegabilmente senza colorare
o mutare l’essenza dell’acqua. Un giorno uno dei vasi cadde e
si ruppe. L’homunculus che c’era dentro morì dopo pochi
penosi respiri, nonostante tutti gli sforzi fatti per salvarlo, e il
suo corpo venne sepolto nel giardino. Il conte tentò di
generarne un altro ma, senza l’assistenza dell’abate, che nel
frattempo era partito, fallì. Riuscì a produrre solo un esserino
piccolo come una sanguisuga, con ben poca vitalità, che presto
morì».
Haddo smise di parlare, e Arthur lo guardò con stupore.
«Ammettiamo pure che la cosa sia possibile, ma qual è mai
l’utilità di creare queste strane bestiole?» domandò.
«L’utilità!» esclamò Haddo con ardore. «Secondo lei che
sensazioni prova un uomo dopo aver risolto il grande mistero
dell’esistenza, dopo aver visto con i propri occhi una sostanza
inerte prendere vita? Questi homunculi furono visti da
personaggi storicamente esistiti, dal conte Max Lemberg, dal
conte Franz Josef von Thun e da molti altri. Io non ho alcun
dubbio che siano stati effettivamente creati. Ma con i nostri
strumenti moderni, con le nostre possibilità, che cosa saremmo
in grado di fare se solo avessimo il coraggio? Ci sono chimici
che nei loro laboratori lavorano per creare il protoplasma
primitivo da una materia morta, l’organico dall’inorganico. Io
ho studiato i loro esperimenti. So tutto quello che sanno loro.
Perché non si dovrebbe lavorare su più ampia scala,
coniugando la conoscenza degli antichi adepti con le scoperte
scientifiche dei moderni? Non so quale risultato si potrebbe
ottenere. Molto strano, e molto prodigioso. A volte la mia
mente è ossessionata dal desiderio di vedere una sostanza
inerte prendere vita grazie ai miei incantesimi; sono
ossessionato dal desiderio di essere come Dio».
Emise una risata bassa, disumana, tra il crudele e il
voluttuoso. Margaret rabbrividì, colta da un’improvvisa paura.
Haddo si era lasciato cadere su una poltrona, avvolto
nell’ombra più totale. Per un singolare effetto, i suoi occhi
apparivano iniettati di sangue e fissavano il vuoto, stranamente
paralleli, con un’intensità terrificante. Arthur ebbe un lieve
sobbalzo e gli lanciò uno sguardo inquisitorio. La risata, lo
sguardo innaturale, l’insondabile emozione parlavano da sé.
Poteva esserci una sola spiegazione: che Oliver Haddo fosse
pazzo.
Scese un silenzio imbarazzato. Le parole di Haddo erano
state fuori luogo rispetto al tono della conversazione. Il dottor
Porhoët aveva parlato di magia con un’ironia venata di
scetticismo che aveva reso quasi umoristico l’argomento, e
Susie ci aveva scherzato sopra. Ma la veemenza di Haddo li
aveva lasciati increduli e sgomenti. Il dottor Porhoët si alzò per
andarsene. Strinse la mano a Susie e a Margaret; Arthur lo
accompagnò alla porta. Il garbato scienziato cercò con gli occhi
il terrier di Margaret.
«Devo salutare il suo cagnolino».
La bestiola era stata così tranquilla che avevano dimenticato
la sua presenza.
«Vieni qui, Copper» disse Margaret.
Il cane, lentamente, si trascinò verso di loro, e con
espressione terrorizzata si accucciò ai piedi di Margaret.
«Che diavolo ti prende?» disse lei.
«Ha paura di me» disse Haddo, con quella sua risata roca che
lasciava un’impressione tanto sgradevole.
«Sciocchezze!».
Il dottor Porhoët si chinò, carezzò il cane sul dorso e gli
strinse la zampa. Margaret lo sollevò e lo mise sul tavolo.
«Su, fai il bravo» disse, sollevando un dito.
Il dottor Porhoët se ne andò con un sorriso e Arthur chiuse la
porta alle sue spalle. D’improvviso, come se il male si fosse
impadronito di lui, il terrier si avventò contro Oliver Haddo e
gli conficcò i denti nella mano. Haddo lanciò un grido e, dopo
averlo scosso via, gli dette un calcio violento. Il cane ruzzolò
con un guaito acuto, quasi un grido di dolore; poi giacque
immobile, come se fosse gravemente ferito. Margaret gridò,
inorridita, indignata. D’improvviso Arthur fu preso da una
rabbia feroce, al punto di non rendersi conto di quel che
faceva. La sofferenza della povera bestia, il terrore di
Margaret, il suo odio istintivo per quell’uomo si mescolarono in
un folle impulso febbrile. «Maledetto» disse tra i denti.
Colpì Haddo con un pugno in pieno viso. L’uomo crollò a
terra di peso e Arthur, afferrandolo per il colletto, cominciò a
tempestarlo di calci con tutte le sue forze. Lo scosse come un
cane scuote un topo, poi lo scaraventò violentemente a terra.
Per qualche misterioso motivo, Haddo non oppose resistenza.
Rimase dove era caduto, del tutto inerme. Arthur si voltò verso
Margaret, che teneva fra le braccia il povero cane ferito e,
piangendo, cercava di dare conforto alla sua sofferenza. Con
grande delicatezza egli lo esaminò per vedere se il calcio
brutale di Haddo gli avesse spezzato un osso. Si sedettero
accanto al camino. Susie, per calmare i nervi, si accese una
sigaretta. Avvertiva la presenza inquietante di quell’uomo,
riverso con tutta la sua stazza sul pavimento alle loro spalle.
Che cosa avrebbe fatto, adesso? Perché non se ne andava?
Provò vergogna per la sua umiliazione. Poi sentì il cuore
fermarsi; si rese conto che Haddo si stava alzando in piedi,
lentamente, con la difficoltà di una persona molto grassa. Egli
si appoggiò alla parete e li fissò, senza muovere un muscolo. La
sua immobilità la innervosiva e, sentendosi puntare addosso
quegli occhi innaturali, la cui espressione non osava neppure
immaginare, Susie avrebbe avuto voglia di urlare.
Infine non riuscì più a resistere e si voltò quel tanto che
bastava per vederlo. Gli occhi di Haddo fissavano Margaret con
tale intensità che egli non si rese conto di essere a sua volta
osservato. Il viso, stravolto dall’ira, era orribile a vedersi.
Quella vasta massa di carne aveva una malignità inumana,
orrendamente deformata da un odio satanico. Ma poi mutò
espressione. La vampa cedette a un pallore spettrale. Il perfido
sguardo vendicativo scomparve, e un torpido sorriso si diffuse
pian piano sui suoi tratti, un sorriso ancor più terrificante di
quel ghigno malefico. Che voleva dire? Susie avrebbe voluto
gridare, ma la lingua era come inchiodata alla gola. Il sorriso
svanì e il volto di Haddo si fece di nuovo impassibile. Dopo un
po’ anche Margaret e Arthur si resero conto del potere di
quegli occhi inumani e rimasero impietriti. Il cane smise di
guaire. Il silenzio era talmente profondo che ciascuno sentiva il
battito del proprio cuore. Era intollerabile.
Poi Oliver Haddo si mosse. Avanzò adagio.
«Vi prego di perdonarmi per quel che ho fatto» disse. «Il
dolore per il morso del cane è stato talmente acuto che ho
perso il controllo. Sono costernato di avergli dato un calcio. Il
dottor Burdon ha fatto benissimo a colpirmi. Era quel che
meritavo».
Parlava a voce bassa, ma con estrema chiarezza. Susie ne fu
sorpresa. Quell’umile apologia era l’ultima cosa che si sarebbe
aspettata.
Haddo tacque e attese la risposta di Margaret, ma lei non
riusciva neanche a guardarlo. Quando parlò, le sue parole
quasi non si udirono. Non sapeva perché, ma le sue scuse glielo
rendevano ancora più odioso.
«Se non le dispiace, credo che farebbe meglio ad andarsene».
Haddo accennò un inchino, poi si rivolse a Burdon.
«Desidero informarla che non provo risentimento per quel
che lei ha fatto. Mi rendo conto di quanto fosse giusta la sua
ira».
Arthur non rispose. Haddo esitò un attimo, mentre i suoi
occhi si posavano lenti su di loro. A Susie sembrò di vedervi
guizzare l’ombra di un sorriso. Lo osservò con profondo
stupore.
Egli prese il cappello, si inchinò di nuovo e se ne andò.
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Susie non riusciva a convincersi che il dispiacere di Haddo
fosse sincero. L’umiltà con cui era stato espresso la
insospettiva. Non riusciva a togliersi di mente l’insidia orrenda
del sorriso che, sul suo volto, aveva sostituito lo sguardo d’odio
mortale del primo impulso. La fantasia le suggeriva che Oliver
Haddo avrebbe potuto vendicarsi del suo nemico in tanti modi
misteriosi e non sapeva come mettere in guardia Arthur. Ma
egli si limitò a riderne.
«Quell’uomo è un codardo» disse. «Se avesse avuto un po’ di
fegato non mi avrebbe consentito di prenderlo a pugni senza
neppure tentare di difendersi».
La vigliaccheria di Haddo accresceva il disgusto che Arthur
provava per lui. La trepidazione di Susie lo divertiva.
«Che mai potrà fare? Non può certo tirarmi una tegola in
testa. Se mi spara mette a repentaglio la sua vita, e non è tanto
stupido da rischiare in questo modo!».
Margaret era lieta che quell’incidente li avesse liberati della
compagnia di Haddo. Lo incontrò per strada un paio di giorni
dopo e, poiché egli si tolse il cappello all’uso francese, senza
attendere che lei lo salutasse, poté fingere di non vederlo.
Cominciò a programmare con Arthur la data del matrimonio.
Le pareva di aver ormai avuto da Parigi tutto quel che la città
poteva darle e desiderava cominciare una nuova vita. L’amore
per Arthur le appariva all’improvviso più pressante, e il
pensiero della felicità che gli avrebbe dato la riempiva di
piacere.
Un paio di giorni dopo Susie ricevette un telegramma.
Diceva:
«Vediamoci alla Gare du Nord, 2.40.
Nancy Clerk».
Era una sua vecchia amica e, a quanto pareva, arrivava a
Parigi quel pomeriggio. Sul camino c’era una sua foto,
corredata di una vistosa firma; Susie le lanciò uno sguardo
inquisitorio. Non vedeva Nancy da molto tempo e quel
messaggio così urgente la sorprendeva.
«Che seccatura! Mi toccherà proprio andare».
Lei e Margaret erano state invitate a un tè sull’altra sponda
del fiume, ma il tragitto per la stazione era talmente lungo che
a Susie non sarebbe convenuto tornare a casa dopo aver visto
Nancy; decisero dunque di incontrarsi direttamente sul luogo
dell’appuntamento. Susie si avviò un po’ prima delle due.
Margaret quel pomeriggio aveva lezione e uscì qualche
minuto dopo. Mentre attraversava il cortile sussultò, perché le
passò accanto Oliver Haddo. Camminava piano e sembrava non
averla vista. D’un tratto si fermò, si portò la mano al cuore e
cadde pesantemente a terra. La concierge, l’unica persona nei
pressi, corse verso di lui con un grido. Si inginocchiò e,
guardandosi attorno terrorizzata, si accorse di Margaret.
«Oh, Mademoiselle, venez vite!» urlò. Margaret fu costretta
ad avvicinarsi, con il cuore che batteva all’impazzata. Chinò lo
sguardo su Oliver e le sembrò morto. Dimenticò quanto lo
detestasse. D’istinto gli si inginocchiò accanto e gli allentò il
colletto. Egli aprì gli occhi. Un’espressione di orribile angoscia
gli si diffuse sul volto.
«Per l’amor di Dio, mi porti dentro un momento» disse con un
singulto. «O morirò per la strada».
Il cuore di lei fu commosso. Non poteva certo portarlo
nell’angusto stanzino, maleodorante e privo d’aria, della
concierge. Sorreggendolo insieme a quest’ultima, Margaret lo
portò nel suo appartamento. Con aria sofferente, egli sprofondò
in una poltrona.
«Desidera dell’acqua?» gli domandò Margaret.
«Potrebbe prendermi una pasticca dalla tasca?».
Inghiottì una compressa bianca, che Margaret tirò fuori da un
astuccio attaccato alla catena dell’orologio.
«Sono mortificato, non volevo causarle tutto questo fastidio»
disse lui ansimando. «Soffro di cuore, e a volte mi ritrovo a un
passo dalla morte».
«Sono contenta di averla potuta aiutare» disse lei.
Sembrava che respirasse meglio. Margaret lo lasciò
tranquillo, a recuperare le forze. Prese un libro e cominciò a
leggere. D’improvviso, senza muoversi dalla poltrona, Haddo
parlò.
«Mi odierà, per questa mia intrusione».
La sua voce era più forte e la pietà di lei scomparve man
mano che egli si riprendeva. Gli rispose con gelida indifferenza.
«Non avrei potuto fare altrimenti. Avrei portato dentro anche
un cane, se mi fossi accorta che era ferito».
«Capisco. Vuole che me ne vada».
Si alzò e fece per andare verso la porta, ma inciampò e cadde
sulle ginocchia con un gemito. Margaret accorse ad aiutarlo. Si
rimproverò aspramente per le sue parole sprezzanti.
Quell’uomo era appena scampato alla morte e lei era stata
crudele.
«La prego, rimanga pure quanto desidera» esclamò. «Mi
perdoni, non avevo intenzione di offenderla».
Egli si trascinò a fatica verso la poltrona e lei, presa dal
rimorso, gli restò accanto senza sapere cosa fare. Gli versò un
bicchiere d’acqua, ma egli lo rifiutò con un cenno, come se non
volesse esserle debitore neanche di quello.
«C’è qualcosa che posso fare per lei?» esclamò Margaret
dispiaciuta.
«Nulla, se non lasciarmi riposare su questa poltrona» rispose
lui con affanno.
«Rimanga pure quanto vuole».
Egli tacque e Margaret tornò a sedersi, fingendo di leggere.
Dopo un po’, Haddo riprese a parlare. La sua voce sembrava
giungere da una grande distanza.
«Potrà mai perdonarmi per quel che ho fatto l’altro giorno?».
Lei gli rispose senza guardarlo, dandogli le spalle.
«Le importa davvero il mio perdono?».
«Lei non ha pietà. Le ho già espresso il mio dispiacere per un
improvviso e incontrollabile dolore che mi ha spinto a fare una
cosa di cui mi sono subito pentito amaramente. Non crede che
sia stato difficile per me, in quelle circostanze, ammettere la
mia colpa?».
«Preferirei non parlarne. Non voglio ripensare a quella scena
orribile».
«Se lei avesse capito quanto ero solo e infelice, avrebbe avuto
un po’ di compassione».
La sua voce era stranamente commossa. Margaret non
dubitava della sua sincerità.
«Lei pensa che io sia un ciarlatano perché mi occupo di cose
che non conosce. Non vuole cercare di capire. Non mi
riconosce il merito di lottare con tutto me stesso per uno scopo
assai nobile».
Margaret non rispose e per qualche tempo scese il silenzio.
La voce di Haddo si fece diversa, curiosamente seducente.
«Lei mi guarda con disgusto e disprezzo. Era pronta a
lasciarmi morire per la strada piuttosto che tendere una mano
in mio aiuto. E se in quel momento non fosse stata caritatevole
quasi controvoglia, io sarei morto».
«Non credo che faccia alcuna differenza quello che io penso
di lei» sussurrò Margaret.
Non sapeva per quale motivo i toni profondi, carezzevoli di
Haddo facessero misteriosamente vibrare le corde del suo
cuore. Aveva il battito accelerato.
«E invece ne fa molta, di differenza. È orribile pensare che lei
mi disprezzi. Io percepisco la sua bontà e la sua purezza, ma
non riesco a sopportare la mia indegnità. Lei distoglie da me i
suoi occhi come se fossi infetto».
Ella girò appena la sedia e lo guardò. Era stupita dal
cambiamento nel suo aspetto. La sua orribile obesità non le
sembrava più repellente, perché i suoi occhi avevano
un’espressione nuova: erano tenerissimi, quasi umidi di
lacrime. La bocca era torturata da una profonda angoscia, che
Margaret non aveva mai visto sul volto di un uomo; un rimorso
incontrollabile si impadronì di lei.
«Non voglio essere scortese» disse.
«Ora andrò via. È il modo migliore per ripagarla di quel che
ha fatto per me».
Le sue parole erano così amare, così piene di umiliazione, che
le guance di Margaret avvamparono.
«La prego, resti. Ma parliamo d’altro».
Per un attimo egli rimase in silenzio. Sembrava non vedere
più Margaret, e lei lo osservava pensosa. Lo sguardo di lui era
posato su una riproduzione della Gioconda appesa a una
parete. D’improvviso, Haddo cominciò a parlare. Declamò le
parole mielate con cui Walter Pater aveva espresso la sua
ammirazione per quel quadro perfetto.
«“Suo è il capo su cui convergono tutte le fini del mondo, e le
palpebre ne sono come appesantite. È una bellezza che
dall’interno raggiunge la carne; il sedimento, cellula su cellula,
di singolari pensieri, sogni fantastici e squisite passioni.
Accostatela per un attimo a una di quelle marmoree dee greche
o alle donne più belle dell’antichità: quanto la loro bellezza
sarebbe offuscata da questo distillato dell’anima e dei suoi
malanni! Tutto ciò che al mondo è stato pensato e vissuto ha
agito su di essa, incidendo, plasmando, affinandone la forma
esteriore, fino a dar corpo alla carnalità della Grecia, alla
lascivia di Roma, al misticismo del Medioevo col suo anelito
spirituale e i suoi immaginosi amori, al ritorno del mondo
pagano, ai peccati dei Borgia”».
La sua voce, intensa e musicale, si mescolava con la musica
soave delle sue parole; a Margaret pareva di non averne mai
compreso prima il divino significato. Era inebriata dalla loro
bellezza. Desiderava che egli continuasse, ma non aveva la
forza di chiederglielo. Quasi intuendo il suo pensiero, Haddo
riprese a parlare e ora la sua voce aveva la ricchezza di un
organo udito di lontano. Era come una fragranza penetrante e
Margaret quasi non riusciva a sopportarla.
«“È più antica delle rocce tra le quali siede; come il vampiro,
è morta molte volte e ha appreso i segreti del sepolcro; si è
immersa in mari profondi e si ammanta dei loro crepuscoli; ha
trafficato in arcane dissolutezze con mercanti orientali; come
Leda, è stata madre di Elena di Troia e, come sant’Anna, madre
di Maria; e tutto questo per lei è stato null’altro che suono di
lire e flauti, vivo solo nella delicatezza che plasma i suoi tratti
mutevoli e sfuma di colore le palpebre e le mani”».
Oliver Haddo cominciò quindi a parlare di Leonardo da Vinci,
mescolando le sue personali fantasie alle parole perfette del
saggio di Pater che, con memoria prodigiosa, sembrava
conoscere a mente. Scoprì esotiche fantasie nella somiglianza
tra san Giovanni Battista, con le sue carni morbide e i capelli
ondulati, e Bacco dall’ambiguo sorriso. Vista attraverso i suoi
occhi, la marina alle spalle di sant’Anna acquistò la soffocante
immobilità di una cappella drappeggiata di damaschi in un
monastero spagnolo, mentre sopra i paesaggi si librava un
inquietante e vago spirito del male. Egli amava quei quadri
misteriosi in cui l’artista, al di là dei limiti della pittura, aveva
cercato di esprimere qualcosa, un desiderio inappagato, un
anelito a passioni non umane. Oliver Haddo riscontrava questa
qualità in particolari impensati e le sue parole conferivano un
nuovo significato a quadri che Margaret aveva sfiorato con
sguardo inconsapevole. Nella Grande Galerie del Louvre c’era
il ritratto di uno scultore, opera del Bronzino. I lineamenti
erano piuttosto netti, il viso largo; l’espressione era ombrosa,
quasi cupa, nell’immobilità della tela dipinta, e gli occhi erano
scuri, allungati, come quelli di un orientale. Le labbra rosse
erano modellate con un tratto squisito e una sensualità elusiva
e conturbante; i capelli scuri, dal taglio corto, si arricciavano
sulla testa con grazia infinita. La pelle era come avorio
ammorbidito da un delicato tocco di carminio. C’era, in quel
volto, più che la bellezza: ciò che maggiormente affascinava
l’osservatore era una suprema e sprezzante indifferenza per le
passioni altrui. Era un volto corrotto, se mai la bellezza può
essere corrotta; un volto crudele, se mai l’indolenza può essere
crudele.
Era
un
volto
che
ossessionava,
destando
un’ammirazione pervasa da un irragionevole terrore. Le mani,
dalle lunghe dita affusolate, erano agili e nervose; si avvertiva
che, al loro tocco, l’argilla quasi si plasmava da sola in forme
armoniose. Grazie alle acute parole di Haddo il carattere di
quell’uomo si palesò dinanzi a Margaret, crudele ma
indifferente, indolente e appassionato, freddo ma sensuale.
Segreti non umani dimoravano nella sua mente, misteriosi
crimini e un’arcana bramosia di conoscenza. Oliver Haddo era
attratto da tutto ciò che era insolito, deforme, mostruoso, da
quadri che rappresentavano la spregevolezza dell’uomo o
rammentavano la sua mortalità. Egli rievocò per Margaret la
schiera di mostruosi nani dello Spagnoletto, con il loro sorriso
astuto, la malizia, la luce folle negli occhi: si soffermò con
orrida fascinazione sulle loro malformazioni, sulle gobbe, sui
piedi equini, sugli idrocefali. Descrisse il quadro di Valdés Leal,
conservato da qualche parte a Siviglia, che rappresenta un
prete davanti a un altare dorato sontuosamente scolpito. Il
prete indossa una splendida cappa e una cotta di pizzo
sopraffino, ma si ha l’impressione che non ne sopporti il peso;
dalle sue mani scarne e tremanti, dal volto bianco, cereo, dalla
scura cavità degli occhi traspare la terrificante corruzione del
corpo. Tiene insieme a fatica i vincoli della carne, ma non per
via dell’irrefrenabile aspirazione dell’anima ad abbattere la sua
prigione, bensì grazie alla sola forza della disperazione; è come
se Dio onnipotente lo avesse abbandonato e il cielo fosse
incapace di dare consolazione. Tutta la bellezza della vita
sembra dimenticata, e al mondo nulla resta se non decadenza.
Un’agghiacciante putrefazione ha attaccato l’uomo ancora vivo;
i vermi della tomba, l’orrore pietoso della mortalità e le tenebre
dinanzi a lui non offrono altro che paura. Oltre la sua figura si
vedono una notte buia e un mare turbolento, l’oscura notte
dell’anima descritta dai mistici e il mare tempestoso della vita,
che non dà scampo ai cuori stanchi e sofferenti.
Poi, come seguendo un piano preciso, Haddo analizzò con
intensità inquisitoria, veemente, l’originale talento di un
francese moderno, Gustave Moreau. Poco tempo prima
Margaret aveva visitato il Luxembourg e in lei era ancora vivo
il ricordo dei suoi quadri. Vi aveva trovato poco più che un
gusto decorativo rovinato da un’imperfetta abilità nel disegno.
Ma Oliver Haddo riuscì con un solo tocco a conferire ai dipinti
un nuovo, esoterico significato. Gli effetti tipici di un gioiello
fiorentino, grappoli di colore, smeraldo e rubino, l’azzurro
profondo dello zaffiro, l’atmosfera di stanze profumate, i mistici
sempre impegnati in riti religiosi segreti: tutto ciò si fondeva
nelle sue abili frasi per creare nell’anima di lei una sorta di
disegno di morbosa e sfuggente intricatezza. Quei quadri erano
ricolmi di uno strano senso del peccato, e la mente che li
contemplava era gravata dalla decadenza di Roma e dal vizio
sfrenato del Rinascimento, e torturata dall’introspezione dei
tempi moderni.
Margaret ascoltava, trattenendo il fiato, con l’eccitazione di
un esploratore che veda aprirsi dinanzi ai suoi occhi la distesa
di un continente ancora vergine. I pittori che conosceva
parlavano della loro arte da un punto di vista tecnico e questo
approccio basato sull’immaginazione le era del tutto nuovo.
Subiva il macabro fascino della personalità che ispirava quelle
frasi elaborate. Gli occhi di Haddo erano fissi nei suoi ed ella
rispondeva alle sue parole come un sensibile strumento
deputato a registrare i battiti del cuore. Sentiva un languore
insostenibile. Egli, infine, tacque. Margaret non si mosse, né
parlò. Era come sotto un incantesimo. Le sembrava di non
avere forza nelle membra.
«Desidero fare qualcosa per lei, in cambio di quel che lei ha
fatto per me» disse Haddo.
Si alzò e andò al pianoforte.
«Sieda in questa poltrona» disse.
Neanche per un attimo Margaret pensò di disobbedire. Egli
cominciò a suonare e Margaret quasi non fu sorpresa che
suonasse in modo meraviglioso; eppure sembrava incredibile
che quelle mani grandi e grosse potessero avere un tocco così
delicato. Le sue dita carezzavano le note con infinita soavità ed
egli traeva dal pianoforte effetti che Margaret avrebbe ritenuto
impossibili. Sembrava infondere nelle note una passione
ambigua, conturbante, e lo strumento aveva la tremula
emozione di un essere umano. Era strano e terrificante. Le
pareva di conoscere la musica che stava ascoltando e che, sotto
le dita di lui, assumeva accenti esotici, in sintonia con tutto ciò
che egli aveva detto quel pomeriggio. La memoria di Haddo era
stupefacente. Doveva avere una sensibilità infinita per
conoscere le sensazioni che albergavano nel cuore di Margaret
e scegliere proprio ciò di cui, in quel momento, ella aveva un
bisogno assoluto. Poi cominciò a suonare dei brani che lei non
conosceva. Mai Margaret aveva udito una musica simile,
barbarica, fatta di gemiti singolari che evocavano nella sua
fantasia le notti di luna nei deserti, con le palme mute nell’aria
immobile, e bruni paesaggi persi in lontananza. Pareva scoprire
strade strette e tortuose, silenziose case bianche con strane
ombre proiettate dalla luna, e all’interno un riverbero di luce
gialla, il tintinnio di strumenti primitivi e l’acre odore di
essenze orientali. Era come se nella sua mente sfilasse una
processione di esseri non umani eppure misteriosamente vivi,
con un’esistenza di vampiri. Monna Lisa e san Giovanni
Battista, Bacco e la madre di Maria le scorrevano davanti con
misteriosi movimenti. Ma la figlia di Erodiade, prigioniera di un
eterno rito mistico, levò le mani come a invocare divinità
straniere. Il suo volto era pallidissimo, insonni gli occhi bruni; i
gioielli della cintura risplendevano di cupi bagliori e il suo abito
era di colori da lungo tempo perduti. Il sorriso, che racchiudeva
tutto il dolore e tutta la malvagità del mondo, era fisso sulla
smunta testa del santo, e con voce fredda di un gelo di morte
ella mormorò le parole del poeta:
«“Io sono presa d’amore per il tuo corpo, Iokanaan! Il tuo
corpo è bianco come i gigli d’un campo mai arato. Il tuo corpo è
bianco come le nevi che ammantano le montagne di Giudea e
scendono fin nelle valli. Le rose nel giardino della regina
d’Arabia non hanno il candore del tuo corpo. Né le rose nel
giardino della regina d’Arabia, il giardino delle spezie della
regina d’Arabia, né i piedi dell’alba quando sfiorano le foglie,
né il seno della luna quando giace nel grembo del mare... nulla
al mondo è bianco come il tuo corpo. Consentimi di toccare il
tuo corpo”».
Oliver Haddo smise di suonare. Nessuno dei due si mosse.
Alla fine Margaret, con uno sforzo, cercò di riconquistare il
controllo.
«Comincio davvero a credere che lei sia un mago» disse con
disinvoltura.
«Potrei mostrarle strane cose, se solo volesse vederle»
rispose lui sollevando di nuovo lo sguardo.
«Dubito che potrà mai spingermi a credere nella filosofia
occulta» rise Margaret.
«Eppure, essa dominò in Persia con i magi, e donò all’India
meravigliose tradizioni; civilizzò la Grecia al suono della lira di
Orfeo».
Egli rimase in piedi dinanzi a Margaret, torreggiando su di lei
con la sua stazza possente, e c’era nel suo sguardo un fascino
singolare. Sembrava parlare con l’unico scopo di nasconderle
che in quel momento stava sfruttando tutto il suo potere.
«Questa filosofia celò i primi princìpi della scienza nei calcoli
di Pitagora. Creò imperi con i suoi oracoli e alla sua voce i
tiranni sbiancavano sui loro troni. Alcune menti le governò
facendo leva sulla curiosità, altre le governò con la paura».
La voce di Haddo si fece bassissima, ed era così suadente che
la mente di Margaret vacillò. Il suo suono prevaleva su tutto,
come una fragranza troppo dolce.
«Io le dico che nulla è impossibile per quest’arte. Essa
comanda gli elementi, conosce il linguaggio delle stelle e guida
il corso dei pianeti. La luna, al suo ordine, scende dal cielo
rossa come sangue. I morti risorgono e dalle loro parole
spaventevoli scaturisce il vento della notte che gemendo
traversa i loro teschi. Il cielo e l’inferno sono sotto il suo
dominio, e così tutte le forme, belle o orrende; così l’amore e
l’odio. Con la bacchetta di Circe essa può mutare gli uomini in
bestie, e alle bestie può conferire una mostruosa umanità. Vita
e morte sono nella mano destra e nella sinistra di colui che ne
conosce i segreti. Essa dona ricchezze con la trasmutazione dei
metalli e immortalità con la sua quintessenza».
Margaret non riusciva a udire quel che egli diceva. Sotto il
suo sguardo dardeggiante, una sonnolenza si impadronì
lentamente di lei e non trovò la forza né il desiderio di
liberarsene. Sembrava già avvinta a Haddo da misteriose
catene.
«Se lei ha dei poteri, li mostri» sussurrò, quasi senza rendersi
conto di parlare.
Improvvisamente egli spezzò l’enorme tensione con cui la
assoggettava. Come chi abbia esercitato tutta la sua forza per
raggiungere uno scopo, una volta conquistata la vittoria rilassò
i muscoli, con un lieve sospiro esausto. Margaret taceva, ma
sapeva che stava per accadere qualcosa di orribile. Il suo cuore
batteva come un uccello prigioniero, svolazzando impotente,
ma ormai le sembrava troppo tardi per tirarsi indietro. Le sue
parole, con un’influenza mistica, avevano provocato qualcosa
che era impossibile fermare.
Sulla stufa c’era una piccola ciotola di ottone lucido, nella
quale tenevano dell’acqua per umidificare l’aria. Oliver Haddo
si mise la mano in tasca e ne trasse una scatoletta d’argento.
Sorridendo vi batté sopra come fosse una tabacchiera, ed essa
si aprì. Prese una quantità infinitesimale della polvere azzurra
che vi era contenuta e la gettò sull’acqua della ciotola. Se ne
sprigionò una viva lingua di fuoco e Margaret proruppe in un
grido spaventato. Lanciandole uno sguardo, Oliver le fece
segno di non muoversi. L’acqua era in fiamme. Bruciava
emanando luce e calore, come fosse gas. Bruciava con lo stesso
ruggito roco e asciutto. Poi d’un tratto si spense. Margaret si
protese e vide che la coppa era vuota. L’acqua si era
consumata come paglia, non ne restava una goccia. Con aria
smarrita si passò la mano sulla fronte.
«Ma l’acqua non può bruciare» sussurrò tra sé.
Quasi intuisse i suoi pensieri, Haddo sorrise in modo strano.
«Forse lei non sa che non è possibile inventare nulla di più
distruttivo di questa polvere azzurra, e io ne possiedo a
sufficienza per bruciare tutta l’acqua di Parigi. L’avrebbe mai
detto che l’acqua potesse bruciare come un mucchio di
stoppie?».
Si arrestò, quasi dimentico della presenza di Margaret.
Osservava pensoso la scatoletta d’argento.
«Si può fabbricare solo in minime quantità, con ingente spesa
e incredibile fatica. Ed è così volatile che non si può
conservarla per più di tre giorni. Talvolta ho pensato che, con
un po’ di ingegno, sarei forse riuscito a stabilizzarla e a far sì
che non perdesse la sua forza mentre bruciava, come il radio; e
allora avrei posseduto il più grande segreto che mai mente
d’uomo abbia partorito. Perché sarebbe impossibile fermarla.
Continuerebbe a bruciare finché ci fosse una sola goccia
d’acqua sulla terra, e tutto il mondo sarebbe consumato. Ma
sarebbe spaventoso possederla, poiché, una volta gettata
nell’acqua, il fato di tutto quel che esiste sarebbe segnato
senza appello».
Emise un respiro profondo, con gli occhi che scintillavano di
un ardore diabolico. La sua voce era roca per l’emozione che lo
sopraffaceva.
«A volte sono ossessionato dal folle desiderio di assistere alla
grande scena finale: fiamme che si riversano inarrestabili lungo
il fiume, precipitano per i rivoli, cercano ogni goccia d’acqua,
strappandola persino alle rocce eterne; fiamme che si riversano
con il furore del vento spazzando via tutto quel che vive, finché
giungono al mare, e il mare stesso si consuma nella furia del
fuoco».
Margaret tremò, ma non pensava che Haddo fosse pazzo.
Aveva smesso di giudicarlo. Egli prese un altro pizzico di quella
polvere esiziale e lo mise nella ciotola. Ancora una volta infilò
la mano in tasca, traendone una manciata di qualcosa, forse
foglie secche sminuzzate, foglie di tipi diversi ridotte in
polvere. Contenevano ancora una traccia di umidità, perché
una fiammella si levò immediatamente sul fondo della ciotola e
un vapore denso invase la stanza. Aveva un odore pungente,
particolare, che Margaret non conosceva. Faticava a respirare,
tossiva. Avrebbe voluto pregare Oliver di fermarsi, ma non ci
riusciva. Egli prese la ciotola tra le mani e la portò verso di lei.
«Guardi» le ordinò.
Ella si chinò e sul fondo vide una fiammella azzurra,
stranamente solida, quasi fosse metallo fuso. Non era
immobile, ma si agitava in modo insolito, come fosse fatta di
serpenti di fuoco torturati dal loro stesso ardore, che nulla
aveva di terreno.
«Respiri molto profondamente».
Ella obbedì. Fu presa da un tremito improvviso e il buio calò
sui suoi occhi. Cercò di gridare, ma non riusciva a emettere
suono. La sua mente vacillava. Le pareva che Haddo le
ordinasse di coprirsi il volto. Cercò affannosamente di
respirare; era come se la terra le girasse sotto i piedi facendola
viaggiare a velocità incredibile. Accennò un movimento e
Haddo le ordinò di non guardarsi attorno. Un terrore immenso
la pervase. Non sapeva dove fossero diretti, eppure andavano
così veloci che persino un uragano sarebbe rimasto indietro.
Alla fine il moto cessò; Oliver la teneva per un braccio.
«Non abbia paura» disse. «Apra gli occhi e si alzi in piedi».
Era scesa la notte, ma non la dolce notte che allevia gli
affanni delle menti mortali; era una notte che agitava
misteriosamente l’anima, tanto che ogni nervo del suo corpo
vibrava. Una cinerea oscurità rivelava e a un tempo distorceva
gli oggetti attorno a loro. Nel cielo non splendeva la luna, ma
piccole stelle parevano danzare sull’erica e fuochi notturni
vagavano come spiriti di dannati. Margaret e Haddo si
ritrovarono in un’immensa e desolata distesa, punteggiata di
enormi massi e di alberi spogli, raggrinziti e contorti come
anime torturate e afflitte. Sembrava ci fosse stata una bufera
devastante e la campagna riposasse dopo la pioggia
torrenziale, il vento impetuoso, i fulmini. Tutto attorno a loro
sembrava soffrire in silenzio, come un uomo che, dilaniato dal
tormento, non abbia neppure la forza di rendersi conto che la
sua agonia è terminata. Margaret udì il volo di uccelli
mostruosi, che parevano sussurrarle strane cose al loro
passaggio. Oliver le prese la mano. La condusse sicuro verso
l’incrocio di due strade, e lei non sapeva se camminavano tra
rocce o tombe.
Udì il suono di una tromba e da ogni parte, comparendo
misteriosamente laddove prima non c’era nulla, si levò attorno
a lei una turbolenta assemblea. Quel luogo vasto e spoglio si
popolò all’improvviso di ombre, che sfilavano accalcandosi
l’una sull’altra come onde del mare. Pareva che tutti gli spiriti
dei potenti sorgessero dinanzi a lei, e Margaret vide feroci
tiranni, cortigiani imbellettati, imperatori romani nelle loro
toghe listate di porpora, sultani orientali. Dinanzi a lei
passarono tutte le fiere e perfide donne dell’antichità, Monna
Lisa e l’astuta figlia di Erodiade. Jezabel la fissò da sotto le
sopracciglia dipinte, Cleopatra distolse il volto pallido e lascivo;
Margaret vide la bocca insaziabile e gli occhi bramosi di
Messalina, e Faustina, segnata dal fuoco eterno della lussuria.
Vide cardinali in vesti scarlatte e guerrieri ricoperti d’acciaio,
cicisbei imparruccati e dame incipriate con nei posticci.
D’improvviso, come foglie catturate dal vento, tutti furono
trascinati dinanzi alle folle silenziose degli oppressi: infiniti,
come la sabbia del mare. La miseria trapelava dai volti smunti,
scavati dalla malattia, e gli occhi erano ottenebrati dalla
disperazione. Passavano nei loro stracci variegati, alcuni nei
fantasiosi cenci dei mendicanti di Albrecht Dürer, altri nei
logori abiti grigi dei contadini di Le Nain; molti indossavano le
bluse e le cuffie del popolino di Francia, molti altri le gramaglie
dei pezzenti d’Inghilterra, sudice di nerofumo. E si levavano
come una folla riottosa, fuggendo terrorizzati per i vicoli
dinanzi alle truppe a cavallo. Pareva che tutto il mondo si fosse
raccolto lì, in una confusa baraonda.
Poi d’improvviso fu il vuoto; lo sguardo di Margaret si
concentrò sullo scheletro di un grande albero che si ergeva,
solitario, in quella distesa, in quella spettrale desolazione;
benché fosse una cosa morta, pareva soffrire un dolore
sovrumano. Il fulmine lo aveva spezzato in due, ma inutilmente
il vento dei secoli aveva cercato di estirpare le sue radici. I
rami tormentati, spogli di ogni getto, erano come braccia
titaniche, contratte convulsamente in un’insostenibile angoscia.
In un attimo Margaret venne meno per la paura, perché
l’albero ebbe un mutamento e fu pervaso dal tremulo vibrare
della vita. La corteccia disseccata si trasformò in carne
animale, i rami contorti in braccia umane. Divenne una cosa
mostruosa, con zampe di capra, più grande di una creatura da
incubo. Margaret vide le corna e la lunga barba, le zampe
pelose e gli zoccoli, le mani rapaci da uomo. Il volto era
orrendo nella sua lussuria e crudeltà, eppure era il volto di un
dio. Era Pan, che suonava il flauto, e i suoi occhi bramosi la
carezzavano con ripugnante tenerezza. Sotto lo sguardo di
Margaret, mentre la bruma dell’alba, dissipandosi, svelava
un’amena campagna, quella creatura rivoltante sembrò
spogliarsi della sua parte animale, ed ella vide un giovane,
titanico ma splendido, poggiato contro una roccia possente. Era
più bello dell’Adamo di Michelangelo, svegliato alla vita dalla
voce dell’Onnipotente; e come lui, appena creato, aveva
l’incantevole languore di chi senta ancora, nelle membra, la
pioggia lieve sulla soffice terra bruna. Giaceva nudo e
maestoso, figlio reietto del mattino, ed ella non osava fissare il
suo volto, poiché sapeva che era impossibile sopportare il
dolore incessante che lo oscurava con le sue ombre impietose.
Spinta da una forte curiosità, cercò di avvicinarsi, ma quella
figura enorme sembrò stranamente dissolversi in una nube, e
subito ella si sentì circondata da una folla che le si accalcava
attorno. Poi giunsero tutti i mostri leggendari e le orride bestie
della fantasia di un folle; nell’oscurità scorse rospi enormi con
le zampe costrette lungo i fianchi e scarabei giganteschi
dall’andatura incerta; creature con il guscio, mai viste, e
rumorosi animali coperti di scaglie cornee con tondi occhi di
granchio; goffi esseri primordiali, serpenti alati e bestie
striscianti nate dal fango. Udì grida acute e scoppi di risa, e il
rantolo terrificante di uomini in agonia. Donne macilente,
scarmigliate e lascive trasportavano vino che, cadendo a terra,
formava macchie simili a sangue. Margaret aveva l’impressione
che un fuoco le ardesse nelle vene e l’anima le volasse via dal
corpo, lasciando il posto a un’anima nuova; improvvisamente
ella comprese tutto ciò che era turpe. Stava prendendo parte a
un festino di immonda lussuria e la malvagità del mondo
appariva chiara ai suoi occhi. Vide cose talmente abiette da
urlare per il terrore e udì la risata di scherno di Oliver al suo
fianco. Era una scena di orrore indescrivibile, e Margaret si
coprì gli occhi per non vedere.
Sentì Oliver Haddo che le prendeva le mani. Non voleva che
la costringesse a guardare. Poi lo sentì parlare.
«Non c’è da aver paura».
La sua voce era tornata naturale ed ella comprese con un
sussulto di essere di nuovo seduta nel suo appartamento. Si
guardò attorno con occhi impauriti. Ogni cosa era esattamente
al suo posto. La precoce notte autunnale era ormai calata, e
l’unica luce giungeva dal fuoco nel camino. C’era ancora quel
vago, acre sentore della sostanza che Haddo aveva bruciato.
«Vuole che accenda le candele?» domandò lui.
Sfregò un fiammifero e accese quelle sul pianoforte, che
mandarono una luce strana. Poi Margaret, d’improvviso,
ricordò tutto quello che aveva visto, e ricordò che Haddo le era
stato accanto. Fu presa dalla vergogna, una vergogna
intollerabile, tanto che il rossore le salì alle guance facendole
avvampare. Nascose il volto tra le mani e scoppiò in lacrime.
«Se ne vada» disse. «Per l’amor di Dio, se ne vada».
Egli la guardò per un attimo, e sulle sue labbra aleggiò quel
sorriso che Susie aveva visto dopo lo scontro con Arthur, la
prima volta che era stato nell’appartamento.
«Se ha bisogno di me, può trovarmi al 209 di rue de
Vaugirard» disse. «Seconda porta a sinistra, terzo piano».
Ella non rispose. Riusciva a pensare solo alla sua spaventosa
vergogna.
«Glielo scrivo, nel caso lo dimentichi».
Scribacchiò l’indirizzo su un foglio di carta trovato sul tavolo.
Margaret non gli prestava attenzione, e singhiozzava come se
le si fosse spezzato il cuore. D’improvviso, alzando gli occhi in
un sussulto, vide che se ne era andato. Non lo aveva sentito
aprire né chiudere la porta. Cadde in ginocchio e pregò
disperatamente, come se un terribile pericolo la minacciasse.
Quando sentì Susie girare la chiave nella porta, balzò in
piedi. Si mise con le spalle al camino, le mani dietro la schiena,
nell’atteggiamento di un prigioniero che protesti la propria
innocenza. Susie era troppo seccata per notare la sua
agitazione.
«Perché diavolo non sei venuta per il tè?» le domandò. «Non
avevo idea di cosa ti fosse successo».
«Avevo una tremenda emicrania» rispose Margaret cercando
di controllarsi.
Susie sprofondò con aria stanca in una poltrona. Margaret si
sforzò di parlare.
«Che cosa aveva da dirti Nancy?» domandò.
«Non è mai arrivata» rispose Susie indispettita. «Non
capisco. Ho aspettato il treno, ma di lei non c’era traccia.
Allora ho pensato che avesse indicato un orario approssimativo
e che non venisse dall’Inghilterra, così ho passeggiato avanti e
indietro nella stazione per mezz’ora».
Andò verso il caminetto sul quale era rimasto il telegramma,
quindi lanciò un gridolino di sorpresa.
«Che stupida! Non avevo notato il timbro postale. È stato
spedito da rue Littré».
La via era a meno di dieci minuti a piedi dall’appartamento.
Susie osservò il messaggio con aria perplessa.
«Ho l’impressione che qualcuno mi abbia fatto uno stupido
scherzo». Alzò le spalle. «Ma sarebbe troppo sciocco. Se fossi
sospettosa,» sorrise «penserei che me lo hai mandato tu stessa
per togliermi dai piedi».
Margaret fu colpita d’un tratto dall’idea che il responsabile
fosse Oliver Haddo. Poteva aver visto il nome di Nancy sulla
foto, durante la sua visita all’appartamento. Ma rispose quasi
distrattamente, senza avere il tempo di riflettere.
«Se volessi liberarmi di te, non esiterei a dirtelo».
«Immagino che tu non abbia ricevuto visite» disse Susie.
«Nessuna visita». La bugia scivolò dalle labbra di Margaret
ancor prima che avesse deciso di dirla. Con il cuore che le
sobbalzava in petto, si sentì avvampare. Susie si alzò per
accendersi una sigaretta. Voleva calmare i nervi. Il pacchetto
era sul tavolo e lo sguardo le cadde inconsapevolmente
sull’indirizzo lasciato da Haddo. Lo prese e lo lesse ad alta
voce.
«Chi diavolo vive qui?» domandò.
«Non ne ho la minima idea» rispose Margaret.
Si preparò ad affrontare altre domande, ma Susie, senza
interesse, posò il foglio e accese un fiammifero.
Margaret provava vergogna. Aveva un’indole incredibilmente
sincera e la turbava moltissimo il pensiero di aver mentito alla
sua migliore amica. Qualcosa più forte di lei sembrava averla
costretta. Avrebbe dato molto per confessare le sue bugie, ma
non ne aveva il coraggio. Non riusciva a sopportare che
l’implicita fiducia di Susie nella sua dirittura morale potesse
essere distrutta. E riconoscere che Oliver Haddo era stato lì
avrebbe comportato un’ulteriore ammissione degli orrori
indicibili di cui era stata testimone. Susie avrebbe pensato che
era pazza.
Qualcuno bussò alla porta e Margaret, con i nervi scossi da
tutto quel che aveva vissuto, si lasciò sfuggire un grido di
terrore. Temeva che Haddo fosse tornato. Ma era Arthur
Burdon. Ella lo salutò con un caldo sollievo, insolito per lei, che
di natura era una donna molto controllata. Si sentiva
debolissima, fisicamente provata, come se avesse affrontato un
lungo viaggio, e la sua mente era sconvolta. Ricordò che in
quella stessa condizione si era trovata al suo arrivo a Parigi,
quando, tutta presa dal desiderio di dare una prima occhiata
alle meraviglie della città, non aveva fatto che correre da un
monumento all’altro fino a farsi dolere le ossa. Cominciarono a
parlare del più e del meno. Margaret cercò di stare calma e di
unirsi alla conversazione, ma la sua voce suonava innaturale ed
ebbe l’impressione che più di una volta Arthur le lanciasse uno
sguardo strano. Alla fine non riuscì più a controllarsi e scoppiò
a piangere. In un attimo, senza capire ma pieno d’affetto, egli
la prese tra le braccia. Dolcemente le chiese cosa succedeva,
cercò di confortarla. Margaret piangeva senza ritegno,
aggrappandosi a lui in cerca di protezione.
«Oh, non è nulla» disse affannosamente. «Non so che mi
prende. Sono solo nervosa e spaventata».
Arthur era convinto che le donne fossero spesso afflitte da
qualcosa cui ben si attagliava l’antiquato termine di «vapori» e
non era disposto a dare troppo peso a quel dolore violento. La
calmò come avrebbe fatto con un bambino.
«Oh, abbi cura di me, Arthur. Ho tanta paura che mi accada
qualcosa di terribile. Ho bisogno di tutta la tua forza.
Promettimi che non mi abbandonerai mai».
Arthur rise asciugandole le lacrime con un bacio ed ella cercò
di sorridere.
«Perché non possiamo sposarci subito?» domandò. «Non
voglio più aspettare. Non mi sentirò al sicuro finché non sarò a
tutti gli effetti tua moglie».
Egli ragionò tranquillamente con lei. Dopotutto, dovevano
sposarsi di lì a poche settimane. Non sarebbe stato facile
affrettare il matrimonio, la casa non era ancora pronta e
Margaret aveva bisogno di tempo per il guardaroba. Era stata
proprio lei a fissare la data. Ella ascoltò con aria attonita le sue
parole. Erano di una saggezza fin troppo evidente e non riuscì a
trovare il modo di insistere. Anche se gli avesse raccontato
tutto quel che era accaduto, Arthur non le avrebbe creduto e
avrebbe pensato che fosse la sua fantasia malata a giocarle
qualche strano tiro.
«Se mi succede qualcosa,» rispose lei con gli occhi
angosciati, ombrosi, da bestia braccata «sarà colpa tua».
«Ti prometto che non succederà nulla».
9
Margaret trascorse una notte inquieta, e il giorno successivo
non fu in grado di dedicarsi alle proprie occupazioni con la
solita tranquillità. Cercò di darsi da sola una spiegazione logica
dell’accaduto. Il telegramma che Susie aveva ricevuto rivelava
un piano preciso da parte di Haddo e faceva pensare che il suo
improvviso malore non fosse che un trucco per insinuarsi in
casa loro. Una volta lì, aveva sfruttato l’istintiva umanità di
Margaret come un mezzo per esercitare il suo potere ipnotico e
tutto ciò che ella aveva visto era semplicemente il frutto della
fantasia libidinosa dell’uomo. Ma benché si sforzasse di
convincersi che, con un tiro meschino, egli aveva
vergognosamente
approfittato
della
sua
compassione,
Margaret non riusciva a provare rabbia. Il suo disprezzo per
Haddo, il suo profondo disgusto erano congiunti a un
sentimento che le suscitava orrore e sgomento. Non riusciva a
togliersi quell’uomo dalla testa. Tutto quel che egli aveva detto,
tutto quel che lei aveva visto, sembrava inspiegabilmente
conquistarla, quasi avesse il potere di crescere dentro di lei.
Era come se nel suo cuore fosse stata seminata una pianta
infestante, che insinuava i lunghi tentacoli velenosi in ogni
arteria, fino ad avviluppare tutto il suo corpo. Gli impegni
accademici non riuscivano a distrarla, la conversazione,
l’esercizio, l’arte la rendevano inquieta; tra lei e le normali
azioni della vita si ergeva la stazza possente e florida di Oliver
Haddo. Ora come non mai ne era atterrita, ma stranamente non
provava più quella repulsione fisica che fino a quel momento
aveva dominato tutti gli altri sentimenti. Per quanto ripetesse a
se stessa di non volerlo mai più rivedere, non resisteva al
desiderio violento di andare da lui. Era stata privata della sua
volontà: era un automa. Lottava come un uccello che batta
inutilmente le ali nella rete di un bracconiere; ma nel profondo
del cuore aveva la vaga consapevolezza di non voler resistere.
Se Haddo le aveva dato quell’indirizzo, era perché sapeva che
lo avrebbe usato. Perché mai voleva andare da lui? Non aveva
nulla da dirgli; sapeva soltanto che doveva andare. Pochi giorni
prima aveva visto la Phèdre di Racine e d’un tratto provava gli
stessi tormenti che dilaniavano il cuore di quell’infelice regina;
anche lei lottava inutilmente per sfuggire al veleno che gli dèi
immortali le avevano instillato nelle vene. In preda a
un’angoscia febbrile si chiedeva se fosse vittima di un
incantesimo, perché ormai era incline a credere che il potere di
Haddo fosse assoluto. Margaret sapeva che, se avesse ceduto a
quell’orribile tentazione, nulla avrebbe potuto salvarla dalla
perdizione. Avrebbe voluto chiedere aiuto ad Arthur o a Susie,
ma qualcosa che non riusciva a identificare glielo impediva.
Alla fine, quasi sull’orlo della follia, pensò che il dottor Porhoët
avrebbe potuto aiutarla. Almeno lui avrebbe compreso la sua
infelicità. Le parve che non ci fosse un momento da perdere e
corse verso casa sua. Le dissero che era fuori. Margaret si
sentì venir meno, anche l’ultima speranza le sembrava svanita.
Come chi stia per annegare e si aggrappi a una roccia,
avvertiva le onde schiantarsi contro di lei e sferzare le sue
mani sanguinanti con una malvagità fin troppo umana, quasi a
volerle strappare alla loro ultima salvezza.
Invece di andare alla lezione di disegno, in programma per le
sei del pomeriggio, Margaret si precipitò all’indirizzo datole da
Oliver Haddo. Traversò le strade affollate con il cuore in
subbuglio e con passo furtivo, quasi temesse di essere vista.
Desiderava con tutta se stessa non andare e cercò di
impedirselo a forza, ma, nonostante tutto, andò. Corse su per le
scale e bussò alla porta. Ricordava chiaramente le indicazioni.
Un attimo dopo, Oliver Haddo era davanti a lei. Non sembrava
stupito di vederla. Là, sulla soglia, a Margaret venne in mente
di non avere alcun motivo che giustificasse la visita, ma le
parole di lui la salvarono dalla necessità di una spiegazione.
«L’aspettavo» disse.
Haddo la condusse in salotto. Aveva un appartamento in una
maison meublée; i pesanti tendaggi e i mobili robusti che in
genere arredano quel tipo di casa parigina non erano in
sintonia con il personaggio. Ogni cosa era talmente normale da
mettere in risalto la sua originalità. Si notava soprattutto una
mancanza di comodità, che pareva suggerire quanto egli fosse
indifferente alle cose materiali. La stanza era ampia, ma
talmente affollata di oggetti da dare un senso di costrizione.
Haddo viveva in quel luogo come se fosse un estraneo a casa
propria. Si muoveva con circospezione tra i mobili massicci,
che esaltavano la sua obesità. Si percepiva il profumo acre che
Margaret ricordava di aver sentito qualche giorno prima
durante la sua visione della città orientale.
Invitandola ad accomodarsi, egli cominciò a parlare come
fossero vecchi amici tra i quali non sia accaduto nulla di
speciale. Alla fine ella prese il coraggio a due mani.
«Perché mi ha costretta a venire qui?» gli chiese
d’improvviso.
«Lei mi fa troppo onore, attribuendomi poteri stupefacenti»
sorrise lui.
«Sapeva che sarei venuta».
«Lo sapevo».
«Cosa le ho fatto? Perché deve rendermi così infelice? Voglio
che mi lasci in pace».
«Non le impedirò di andarsene se decide di farlo. Non le è
successo nulla di male. La porta è aperta».
Il cuore di Margaret batteva forte, fin quasi a farle male. Ella
rimase in silenzio; sapeva di non voler andare via. Qualcosa di
strano la attirava verso Haddo e la sua resistenza cominciava a
venire meno. Un sentimento singolare si impadroniva di lei, si
insinuava furtivo nelle sue membra. Ne era atterrita, ma
inspiegabilmente esaltata.
Egli cominciò a parlare con quella sua voce bassa, la cui
arcana magia la faceva vibrare. Questa volta non le parlò di
quadri, né di libri, ma della vita. Le raccontò di misteriosi
luoghi d’Oriente, dove nessun infedele è mai stato, e la fantasia
sensibile di lei fu infiammata dal mielato fervore di quelle frasi.
Parlò dell’alba su città sonnolente e desolate, delle notti di luna
piena nel deserto, dei tramonti con il loro splendore e delle
strade affollate a mezzogiorno. Le si parò dinanzi la bellezza
dell’Oriente. Haddo le raccontò di filati variopinti e tappeti di
seta, dell’acciaio scintillante delle armature damascene e di
gemme
barbariche
d’incommensurabile
valore.
La
magnificenza levantina le accecava gli occhi. Egli le parlò
dell’incenso e della mirra, dell’aloe, dei densi profumi dei
mercanti di essenze e degli odori inebrianti dei giardini siriani.
La fragranza dell’Oriente le riempiva le narici. E tutte queste
cose venivano trasformate dal potere delle parole di Haddo; le
pareva che le venisse offerta la vita stessa, una vita
infinitamente viva, una vita di libertà, di conoscenza
soprannaturale. Le pareva di essere spinta a un confronto tra
l’ambiente ristretto che la attendeva come moglie di Arthur e
quell’esistenza piena, splendida. Tremò al pensiero della noiosa
casa di Harley Street e della pochezza delle sue attività
quotidiane. Lei ora sapeva godere della meraviglia del mondo.
La sua anima si struggeva per una bellezza sconosciuta ai
comuni mortali. E quale demone suggerì, fra l’ordito e la trama
delle parole di Oliver, che la sua squisita avvenenza le dava il
diritto di dedicarsi alla grande arte della vita? Provò un
desiderio repentino di avventure pericolose e, come se il fuoco
l’avesse attraversata, balzò in piedi e rimase così, col petto
ansante e gli occhi lampeggianti, resi luminosi dalle immagini
variegate che la magia di lui le aveva presentato.
Anche Oliver Haddo era in piedi, di fronte a lei. Poi, d’un
tratto, ella comprese qual era la passione che la consumava.
Con moto improvviso, e con gli occhi che la fissavano in modo
quanto mai strano, egli la prese tra le braccia e la baciò sulle
labbra. Margaret gli si abbandonò, con voluttà. Tutto il suo
corpo bruciava nell’estasi dell’abbraccio.
«Credo di amarti» disse, con voce roca.
Lo guardò. Non provava vergogna.
«Ora devi andare» disse lui.
Aprì la porta e, senza aggiungere una parola, ella uscì.
Camminò per le strade come se nulla fosse accaduto. Non
provava rimorso né disgusto.
Nei giorni successivi Margaret cominciò a sentire il desiderio
irrefrenabile di tornare da lui e, per quanto cercasse di non
cedere, sapeva che quello sforzo era solo una finzione: non
voleva che nulla glielo impedisse. Ogni volta che qualcosa la
tratteneva, riusciva a stento a controllare l’irritazione. La fame
violenta dell’anima che l’attirava a lui era sempre presente e le
uniche ore felici erano quelle trascorse in sua compagnia.
Giorno dopo giorno provava quell’estasi assoluta quando egli la
cingeva con le sue braccia enormi e la baciava con le labbra
pesanti, sensuali. Ma l’estasi era portentosamente mescolata al
disgusto, e l’attrazione fisica si fondeva intimamente con la
repulsione.
Eppure, quando egli la fissava con quei suoi occhi celesti e
conferiva alla sua voce quegli accenti conturbanti, Margaret
dimenticava tutto. Haddo parlava di cose empie. Talvolta
pareva sollevare un angolo del velo e mostrarle un barlume di
terribili segreti. Margaret comprese come mai gli uomini
avessero barattato le loro anime con la conoscenza infinita. Le
pareva di essere sul pinnacolo del tempio e i regni spirituali
delle tenebre, i principati dell’ignoto si stendevano dinanzi ai
suoi occhi per attirarla verso la distruzione. Ma di Haddo non
apprese nulla. Non sapeva se egli l’amasse. Non sapeva se
avesse mai amato. Sembrava diverso dal resto del genere
umano. Margaret scoprì casualmente che sua madre era
ancora in vita, ma egli si rifiutò di parlarne.
«Un giorno o l’altro la vedrai» disse.
«Quando?».
«Molto presto».
Nel frattempo, la vita di Margaret proseguiva con una
regolarità tutta esteriore. Scoprì che era facile ingannare i suoi
amici, perché a nessuno dei due veniva in mente che le sue
frequenti assenze non fossero dovute alle ragioni plausibili che
adduceva. Le bugie, se in un primo tempo le erano sembrate
intollerabili, ora le uscivano facilmente dalle labbra. Ma
sebbene fossero così naturali, spesso era presa dal panico che
qualcuno potesse scoprirle e talvolta la notte, dilaniata dai
rimorsi, non riusciva a prendere sonno e pensava con profonda
vergogna a come stava trattando Arthur. Ma le cose ormai
erano andate troppo oltre, doveva lasciare che seguissero il
loro corso. Non sapeva perché i suoi sentimenti verso di lui
fossero mutati a tal punto. Senza quasi nominarlo, Oliver
Haddo le aveva avvelenato la mente. Il confronto tra i due era
tutto a svantaggio di Arthur. Ora lo considerava un po’ scialbo
e il suo atteggiamento banale verso la vita contrastava con
l’affascinante arditezza di Haddo. Nel profondo del suo cuore
gli rimproverava di non aver mai capito cosa si nascondesse in
lei. L’aveva limitata nelle sue vedute. E pian piano cominciò a
odiarlo perché le aveva imposto un debito di gratitudine così
grande. Le sembrava scorretto che avesse voluto fare tanto per
lei. La costringeva a sposarlo proprio per ripagarlo della sua
generosità. Nonostante ciò, continuava a progettare con lui
l’arredamento della loro casa di Harley Street. Margaret
desiderava un salotto in stile Luigi XV e insieme erano andati
alla ricerca di sedie e di antiche pezze di seta con cui rivestirle.
Tutto doveva essere perfetto. La data del matrimonio era
fissata, i dettagli definiti. Arthur era felice in modo quasi
ridicolo. Margaret non lasciava trapelare nulla. Non pensava al
futuro e ne parlava solo per allontanare i sospetti. Dentro di sé
era ormai convinta che quel matrimonio non ci sarebbe mai
stato, ma non sapeva che cosa l’avrebbe impedito. Studiava
Susie e Arthur con astuzia. Ma, benché li osservasse per
nascondere il proprio segreto, fu il segreto di qualcun altro che
finì per scoprire. Margaret si rese conto che Susie era
profondamente innamorata di Arthur Burdon. La scoperta fu
talmente stupefacente che in un primo momento le sembrò
assurda.
«Non hai mai fatto quella caricatura di Arthur che mi avevi
promesso» disse un giorno all’improvviso.
«Ci ho provato, ma non è il soggetto giusto» rise Susie.
«Con quel naso lungo e quella figura dinoccolata, mi
aspettavo che ne tirassi fuori qualcosa di esilarante».
«Parli di lui in modo molto strano! Non so perché, ma io vedo
solo i suoi occhi belli e gentili, e la sua bocca dolce. Non mi
riuscirebbe di farne una caricatura, proprio come non potrei
parodiare una poesia che amo».
Margaret prese la cartella nella quale Susie conservava i suoi
schizzi. Colse l’espressione allarmata sul volto dell’amica, ma
Susie non osò impedirle di guardare. Margaret scorse distratta
i disegni e d’improvviso arrivò a un foglio su cui erano
abbozzate, in uno stato variamente compiuto, cinque o sei teste
di Arthur. Fingendo di non notarle, continuò fino all’ultimo
foglio. Quando richiuse la cartella, Susie tirò un sospiro di
sollievo.
«Potresti impegnarti di più» disse Margaret riponendo i
disegni. «Mi stupisco che tu non faccia un ritratto di Arthur,
visto che non sai farne la caricatura».
«Mia cara, non tutti provano per quel giovanotto il tuo stesso
irresistibile interesse».
La risposta confermò i sospetti di Margaret. Si disse con
amarezza che Susie era una bugiarda, più o meno come lei. Il
giorno dopo, mentre l’amica era fuori, tornò a guardare nella
cartella, ma i disegni di Arthur erano scomparsi. Fu presa da
un’ira improvvisa, perché Susie osava amare l’uomo
innamorato di lei.
La rete nella quale Oliver Haddo l’aveva catturata era stata
tessuta con estrema abilità. Egli aveva preso ogni singolo
aspetto del suo carattere e rafforzato con arte consumata la
propria influenza su di lei. C’era qualcosa di satanico nella sua
determinazione, eppure era quasi incredibile che, in così poco
tempo, potesse aver mutato il ribrezzo che ella provava per lui
in una feroce passione; Margaret non riusciva a concepire la
sua vita lontano da lui. Alla fine egli ritenne che fosse tempo di
fare l’ultimo passo.
«Forse ti interessa sapere che giovedì me ne andrò da Parigi»
disse con aria indifferente un pomeriggio.
Ella balzò in piedi, fissandolo con occhi sgomenti.
«Che ne sarà di me?».
«Sposerai l’esimio dottor Burdon».
«Sai bene che non posso vivere senza di te. Perché sei così
crudele?».
«Allora l’unica alternativa è che tu venga con me».
Il sangue le si gelò nelle vene, e sentì il cuore stretto in una
morsa d’acciaio.
«Cosa intendi dire?».
«Non c’è bisogno di agitarsi. Ti sto facendo una proposta di
matrimonio estremamente allettante».
Ella sprofondò nella poltrona, inerme. Avendo evitato di
pensare al futuro, non le era mai passato per la mente che a un
certo punto avrebbe dovuto lasciare Haddo o unire
definitivamente il proprio destino al suo. I suoi sentimenti
mutarono d’improvviso. Margaret comprese che, per quanto
un’odiosa attrazione la legasse a quell’uomo, lo disprezzava e
lo temeva. D’un tratto le parve di vedere chiaro. Ricordò il
grande amore di Arthur e tutto quello che egli aveva fatto per
lei. Si odiava. Come un uccello che, sul punto di esalare l’ultimo
respiro, si scagli freneticamente contro le sbarre della gabbia,
Margaret fece uno sforzo disperato per riconquistare la libertà.
Balzò in piedi.
«Voglio andarmene di qui. Vorrei non averti mai visto. Non so
cosa mi hai fatto».
«Puoi andartene come e quando vuoi» rispose lui.
Aprì la porta, perché lei si rendesse conto che non la
costringeva in alcun modo, e rimase sulla soglia, indolente, con
un odioso sorriso stampato sul volto. C’era qualcosa di terribile
in quella sua mole immensa. Sotto il mento, il collo era
nascosto da rotoli di grasso. Le guance erano enormi e
l’assenza della barba rendeva ancor più mostruoso il volto
glabro. Margaret si fermò mentre gli passava accanto,
provando un’orrenda sensazione di ripugnanza e attrazione a
un tempo. Desiderava immensamente che egli la stringesse
ancora tra le braccia, e premesse contro le sue le labbra rosse
e voluttuose. Era come se i demoni dell’inferno si stessero
vendicando della sua bellezza, ispirandole una passione per
questa terrificante creatura. L’intensità del desiderio la faceva
tremare. Gli occhi di lui erano duri e crudeli.
«Vattene» disse.
Lei chinò la testa e fuggì via. Per rientrare a casa attraversò i
giardini del Luxembourg, ma le cedevano le gambe e si lasciò
cadere, esausta, su una panchina. La giornata era di un caldo
opprimente. Margaret cercò di ricomporsi. Conosceva bene
quel parco, perché nei giorni di entusiasmo, che ora le
sembravano così lontani, era solita recarsi lì per osservare
l’albero che stava guardando in quel momento. Aveva tutta
l’esile delicatezza di una stampa giapponese; le foglie erano
sottili, fragili, dorate dall’autunno ma in parte ancora verdi, di
un verde talmente tenue che i rami scuri creavano un motivo di
delicata bellezza sullo sfondo del cielo. La mano di un
disegnatore non avrebbe potuto tratteggiarlo con maggior
perizia. Ma Margaret non provava più alcun piacere alla vista
di tanta grazia. Una fitta le lacerava il cuore al pensiero che da
quel momento in poi le espressioni più perfette dell’arte non
avrebbero avuto alcun significato per lei. Aveva visto Arthur la
sera prima e, in un penoso accesso di vergogna, rammentò le
bugie alle quali si era costretta per spiegargli che l’indomani
avrebbero potuto vedersi soltanto sul tardi. Egli le aveva
proposto di andare a Versailles e fu molto amareggiato nel
sentire che non avrebbero trascorso tutta la domenica insieme,
come erano soliti fare. Accettò la scusa che doveva far visita a
un’amica malata. Non sarebbe stato così intollerabile se egli
avesse sospettato che lo ingannava e i suoi rimproveri le
avessero indurito il cuore. Era la sua fiducia assoluta a essere
tanto difficile da sopportare.
«Oh, se solo potessi liberarmi la coscienza!» esclamò.
Le campane di Saint-Sulpice suonavano il vespro. Margaret
s’incamminò lentamente verso la chiesa e sedette su una delle
panche riservate ai poveri, nel transetto. Sperava che la musica
le placasse l’anima; forse così sarebbe riuscita a pregare. Negli
ultimi tempi non ne aveva avuto il coraggio. C’era una
gradevole oscurità; quel luogo così semplice e spazioso la
confortava. Nel suo sfinimento, Margaret osservava la gente
entrare e uscire senza sosta. Dietro di lei c’era un prete nel
confessionale. Una ragazzetta di campagna, con una coiffe
bretone, forse una serva giunta da poco nella grande capitale
dal paese natio, le passò davanti e si inginocchiò. Margaret
sentiva il suo bisbiglio e, di tanto in tanto, la voce profonda del
prete. Dopo qualche minuto la fanciulla se ne andò, tranquilla.
Appariva così fresca nel suo semplice abito nero, così sana e
innocente, che Margaret non riuscì a soffocare un singhiozzo di
invidia. La ragazza aveva così poco da confessare, piccoli,
sciocchi peccati che dovevano aver suscitato un sorriso sulle
labbra del garbato prete, e il suo spirito era candido come la
neve. Margaret avrebbe dato tutto quel che aveva pur di
potersi inginocchiare e sussurrare a quegli orecchi impassibili
ciò che aveva patito, ma la fede del prete non era la sua.
Parlavano una lingua diversa – non la lingua delle labbra, ma
quella dell’anima – ed egli non avrebbe certo ascoltato le
parole di un’eretica.
Una lunga processione di seminaristi giunse dall’istituto
all’ombra della grande chiesa, a due a due, con le tonache nere
e le corte cotte bianche. Molti avevano già la tonsura. Alcuni
erano molto giovani. Margaret fissò i loro volti, chiedendosi se
fossero tormentati da un’angoscia simile alla sua. Ma in loro
c’era una fede viva che li sosteneva. E se alcuni, come appariva
chiaro, erano limitati e ottusi, quanto meno avevano una regola
precisa che impediva loro di deviare su sentieri ingannevoli.
Uno o due avevano un aspetto ascetico, etereo, simile a quello
dei santi che sperimentano il terrore della vita solo in fantasie
claustrali. Dietro i seminaristi venivano i canonici della chiesa,
con i loro abiti dai colori sfarzosi. Infine giunse il clero
officiante.
La musica era bella. Aveva una sua quieta, triste dignità; a
Margaret sembrò la musica giusta per adorare Dio. Ma non ne
fu commossa. Non riusciva a capire le parole cantate dai preti;
i loro gesti, i loro movimenti le erano estranei. Per lei quella
sontuosa funzione era priva di significato. Il suo cuore gridava
che Dio l’aveva abbandonata. Era sola, in terra straniera. Il
male era ovunque attorno a lei, e in quelle cerimonie non
trovava alcun conforto. Cosa poteva aspettarsi, quando il Dio
dei suoi padri l’aveva abbandonata al suo destino? Per non
piangere davanti a tutta quella gente, Margaret, sguardo a
terra, si diresse verso la porta. Si sentiva completamente
perduta. Mentre percorreva la strada interminabile che la
portava a casa, era scossa dai singhiozzi.
«Dio mi ha abbandonato» ripeteva. «Dio mi ha abbandonato».
Il giorno dopo, con gli occhi rossi per il pianto, si trascinò alla
porta di Haddo. Quando egli aprì, entrò senza dire una parola.
Sedette, ed egli la osservò in silenzio.
«Sono decisa a sposarti, quando vorrai» disse infine.
«È tutto pronto».
«Mi hai parlato di tua madre. Per favore, accompagnami
subito da lei». L’ombra di un sorriso sfiorò le labbra dell’uomo.
«Se lo desideri».
Haddo le disse che potevano sposarsi davanti al console il
giovedì mattina, sul presto, in tempo per prendere il treno per
l’Inghilterra. Ella rimise a lui ogni decisione.
«Sono disperatamente infelice» disse piano.
Oliver le posò le mani sulle spalle e la fissò negli occhi.
«Va’ a casa e dimenticherai le tue lacrime. Ti ordino di essere
felice».
Allora l’aspra lotta tra il bene e il male parve placarsi dentro
di lei; aveva vinto il male. Di colpo, Margaret si sentì
stranamente euforica. Non le importava più di ingannare i suoi
fedeli amici. Rise amaramente, mentre pensava a quanto fosse
facile prendersi gioco di loro.
Il mercoledì era il compleanno di Arthur ed egli la invitò a
cena, loro due soli.
«Ci tratteremo in modo splendido, senza badare a spese».
Avevano deciso di cenare in un ristorante alla moda, sull’altra
riva del fiume. Poco dopo le sette egli passò a prenderla.
Margaret si era vestita con incredibile cura. Era al centro della
stanza, in piedi, in attesa dell’arrivo di Arthur, e si guardava
allo specchio. Susie pensò che non era mai stata tanto bella.
«Credo proprio che tu sia diventata ancora più incantevole»
disse. «Non so cosa ti è successo ultimamente, ma nei tuoi
occhi c’è una profondità del tutto nuova, che ti dà una strana
aria di mistero, molto attraente».
Conoscendo l’amore di Susie per Arthur, ella si chiese se la
sua amica non si sentisse spezzare il cuore confrontando il
proprio aspetto scialbo con la radiosa bellezza che le stava
davanti. All’arrivo di Arthur, Margaret non si mosse ed egli si
fermò sulla soglia a guardarla. I loro occhi si incontrarono. Con
il cuore che batteva forte, egli fu preso da una sorta di
soggezione. Si sentiva troppo fortunato al pensiero che
quell’incommensurabile tesoro gli appartenesse. Si sarebbe
inginocchiato per adorarla come una dea dell’antica Grecia.
Anche lui si era accorto che gli occhi di Margaret erano
cambiati. Avevano acquistato una passione bruciante che lo
sconvolgeva e lo incantava a un tempo. Sembrava che
quell’adorabile fanciulla si fosse già trasformata in una
splendida donna. Un sorriso enigmatico le affiorò sulle labbra.
«Sei soddisfatto?» gli domandò.
Arthur si fece avanti e Margaret gli posò le mani sulle spalle.
«Ti sei messa del profumo» disse lui.
Ne fu sorpreso, perché non lo aveva mai usato prima. Era un
profumo lieve, quasi acre, che lui non conosceva. Gli
rammentava vagamente gli aromi della sua infanzia in Oriente.
Era remoto, strano. Conferiva a Margaret un fascino nuovo,
che lo turbava. C’era sempre stato qualcosa di freddo nella sua
bellezza statuaria, ma quel tocco enfatizzava curiosamente la
sua femminilità. Le labbra di Arthur si contrassero e il viso
scarno si fece pallido per la passione. La sua emozione era
talmente forte da diventare quasi dolorosa. Era perplesso,
perché gli occhi di Margaret esprimevano cose che mai vi
aveva scorto prima.
«Perché non mi baci?» disse lei.
Non vedeva Susie, ma sapeva che una fugace ombra
d’angoscia le aveva attraversato il volto. Margaret attirò Arthur
a sé. Le mani di lui cominciarono a tremare. Non aveva mai
osato lasciar affiorare la passione che lo consumava e quando
la baciava lo faceva con un dominio quasi fraterno. Poi le loro
labbra si incontrarono. Dimenticando che c’era qualcun altro
nella stanza, Arthur strinse Margaret tra le braccia. Non lo
aveva mai baciato così, e l’estasi fu intollerabile. Le labbra di
lei erano fuoco ardente. Egli non riusciva a staccare le sue.
Dimenticò tutto. Tutta la sua forza, tutto il suo autocontrollo lo
abbandonarono. Pensò che in quel momento avrebbe anche
potuto morire. Il piacere era talmente grande che Arthur
soffocò a fatica un grido di angoscia. Dopo un po’ la voce di
Susie lo riportò al mondo.
«Fareste molto meglio ad andare a cena, invece di
comportarvi come due perfetti idioti».
Susie si sforzò di assumere un tono divertito quanto le sue
parole, ma la sua voce era rotta da una fitta di sofferenza. Con
una risatina, Margaret si sciolse dall’abbraccio di Arthur e
guardò raggiante la sua amica. Il sorriso coraggioso di Susie
svanì, perché nello sguardo di Margaret c’era un odio perfido
che la scosse. Era talmente inaspettato che ne fu terrorizzata.
Cosa aveva fatto? Aveva paura, una paura terribile, che
Margaret avesse intuito il suo segreto. Arthur era rimasto come
privo di sensi, ancora tremante di passione.
«Susie dice che dobbiamo andare» sorrise Margaret.
Egli non riusciva a parlare. Non riuscì neanche a riprendere i
modi convenzionali della buona società. Pallidissimo, come chi
si risvegli all’improvviso da un sonno profondo, uscì al fianco di
Margaret. Si incamminarono e, sebbene la porta fosse chiusa e
loro fossero troppo lontani, Margaret ebbe l’impressione di
cogliere i singhiozzi penosi di Susie. E questo le procurò un
orrendo piacere.
Il ristorante era su boulevard des Italiens e in quel periodo
era il più frequentato di Parigi. Era gremito, ma Arthur aveva
riservato un tavolo al centro della sala. La bellezza radiosa di
Margaret spingeva la gente a guardarla mentre passava e la
consapevolezza di suscitare ammirazione la rendeva ancora più
splendente. Era soddisfatta che in quella folla di donne tra le
più eleganti al mondo non avesse motivo di invidiarne nessuna.
Si respirava un’allegria irresistibile. Luci soffuse conferivano
un’opulenta intimità all’ambiente e c’erano fiori ovunque.
Innumerevoli
specchi
riflettevano
donne
di
mondo
splendidamente abbigliate, note attrici, celebri cortigiane. Il
rumore era molto forte. Un’orchestra ungherese suonava in un
angolo lontano, ma la musica era sommersa dal vocio sostenuto
di uomini eccitati e dalla risata fragorosa delle donne. Era
chiaro che erano lì per spendere generosamente. La folla
vivace si abbandonava al piacere dell’attimo fuggente.
Ciascuno aveva messo da parte i pensieri più cupi e i
dispiaceri.
Margaret non era mai stata di umore migliore. Lo champagne
le dette subito alla testa, rendendola deliziosamente ciarliera.
Arthur era incantato. Era molto orgoglioso, molto compiaciuto,
molto felice. Parlarono di tutte le cose che avrebbero fatto dopo
il matrimonio, dei luoghi in cui sarebbero andati, della loro
casa, di tutti gli splendidi oggetti di cui l’avrebbero riempita.
Margaret era straordinariamente animata e Arthur era
divertito dalla gioia che le davano l’eleganza del locale, il buon
cibo, il vino. La sua risata era come un ruscello argentino.
Tutto contribuiva a strappare Arthur al suo solito riserbo. In
quel momento la vita era assai piacevole ed egli si sentiva
pervaso da una gioia speciale.
«Brindiamo alla nostra felicità» disse.
Alzarono i bicchieri. Non riusciva a distogliere lo sguardo da
lei.
«Stasera sei semplicemente meravigliosa» disse. «Ho quasi
paura della mia buona sorte».
«Perché mai dovresti avere paura?» esclamò lei.
«Forse dovrei perdere qualcosa a cui tengo molto, così da
propiziarmi la fortuna. Ora sono troppo felice. Mi va tutto
troppo bene».
Margaret fece una risata vellutata, bassa, e gli tese la mano
attraverso il tavolo. Nessuno scultore avrebbe potuto
modellarla con tanta squisita delicatezza. Portava soltanto un
anello, un grande smeraldo, che Arthur le aveva regalato per il
fidanzamento. Egli non riuscì a resistere. Le prese la mano.
«Ti piacerebbe andare da un’altra parte?» le chiese mentre,
terminata la cena, bevevano il caffè.
«No, restiamo qui. Devo andare a letto presto, domani mi
aspetta una giornata faticosa».
«Cosa devi fare?» le domandò.
«Nulla di importante» rise lei.
Nel frattempo, i clienti cominciavano ad andarsene a piccoli
gruppi e Margaret suggerì di fare due passi verso La
Madeleine. La notte era bella, ma piuttosto fredda. L’ampio
viale era affollato. Margaret osservava le persone. Era
divertente come una commedia. Dopo un po’, presero una
vettura e percorsero le strade, ormai silenziose, che portavano
a Montparnasse. Nessuno dei due parlava e Margaret si strinse
ad Arthur. Egli le cinse la vita con un braccio. Al chiuso della
vettura, quel lieve profumo orientale gli penetrò ancora una
volta nelle narici, facendogli girare la testa come prima di
cena.
«Sono così felice, Margaret» sussurrò lui. «Sento che, per
quanto a lungo io possa vivere, non vedrò mai un giorno più
felice di questo».
«Mi ami tanto?» domandò lei con allegria.
Per tutta risposta, egli le prese il viso tra le mani, baciandolo
con passione. Quando arrivarono a casa di Margaret, lei si
diresse al portone e gli tese la mano sorridendo.
«Buonanotte».
«È terribile pensare che dovrò stare mezza giornata senza
vederti. Quando posso venire?».
«Non al mattino, avrò troppo da fare. Vieni a mezzogiorno».
Ricordava che il treno partiva esattamente a quell’ora. La
porta si aprì e lei sparì agitando lieve la mano.
10
Susie guardò senza capire il biglietto che annunciava il
matrimonio di Margaret. Era un petit bleu spedito con la posta
pneumatica dalla Gare du Nord e diceva:
«Quando leggerai sarò in viaggio per Londra. Stamane ho
sposato Oliver Haddo. Lo amo come non ho mai amato Arthur.
Ho agito così perché penso di essere andata troppo in là con
Arthur: qualsiasi spiegazione sarebbe stata impossibile. Ti
prego, diglielo tu,
Margaret».
Susie era sgomenta. Non sapeva cosa fare, cosa pensare.
Sentì bussare alla porta; doveva essere Arthur, atteso per
mezzogiorno. Decise rapidamente che era impossibile dargli
quella notizia su due piedi. Bisognava prima scoprire che cosa
fosse successo; era tutto incredibile. Ormai decisa, aprì la
porta.
«Oh, mi dispiace, Margaret non c’è. Una sua amica è malata
e l’ha mandata a chiamare all’improvviso».
«Che seccatura!» rispose Arthur. «Sempre Mrs Bloomfield,
immagino».
«Oh, Mrs Bloomfield è malata?».
«Margaret passa tutti i pomeriggi con lei, da qualche giorno a
questa parte».
Susie non rispose. Era la prima volta che sentiva parlare della
malattia di Mrs Bloomfield, ed era una novità che Margaret
avesse l’abitudine di farle visita. Ma in quel momento
l’obiettivo principale era liberarsi di Arthur.
«Perché non torna alle cinque?» disse.
«E perché invece non pranziamo insieme, lei e io?».
«Oh, mi dispiace, aspetto visite».
«Capisco. Allora tornerò alle cinque».
Fece un cenno del capo e uscì. Susie lesse ancora una volta il
breve biglietto e si chiese se fosse vero. Era di un’insensibilità
sconcertante. Andò nella stanza di Margaret e vide che tutto
era al suo posto. Non sembrava proprio che l’occupante fosse
partita per un viaggio. Si accorse però che alcune lettere erano
state distrutte. Susie aprì un cassetto e scoprì che i gioielli di
Margaret erano scomparsi. Un pensiero le attraversò la mente.
Negli ultimi tempi Margaret aveva acquistato degli abiti e
insistito per mandarli dal sarto, dicendo che era inutile
ingombrare il piccolo appartamento. Potevano restare dal sarto
finché, di lì a poche settimane, lei non fosse tornata in
Inghilterra per il matrimonio; e sarebbe stato più semplice
spedirli tutti insieme da un unico posto. Susie uscì. Sul portone
le venne in mente di chiedere alla concierge se sapeva dove
fosse andata Margaret quella mattina.
«Parfaitement, Mademoiselle» rispose la vecchia. «Ho sentito
che diceva al cocchiere di portarla al consolato britannico».
Non c’erano quasi più dubbi. Susie andò dal sarto e scoprì
che, per ordine di Margaret, le scatole contenenti i suoi abiti
erano state spedite il giorno precedente all’ufficio bagagli della
Gare du Nord.
«Spero che non li abbiate mandati prima che il conto fosse
saldato» disse Susie allegra, come per scherzo.
Il sarto rise.
«Mademoiselle ha pagato tutto due o tre giorni fa».
Piena di indignazione, Susie comprese che Margaret non solo
aveva portato con sé tutto il corredo acquistato per il
matrimonio con Arthur ma, essendo priva di mezzi, lo aveva
pagato con il denaro che egli generosamente le aveva donato.
Susie si recò quindi da Mrs Bloomfield, che subito la
rimproverò perché non era andata a trovarla.
«Spiacente, ma ho avuto molto da fare, e sapevo che c’era
Margaret a prendersi cura di lei».
«Non vedo Margaret da tre settimane» disse l’inferma.
«Davvero? Pensavo che venisse spesso a trovarla».
Susie finse di non dare troppo peso alla cosa. Si chiedeva
dove Margaret avesse trascorso quei pomeriggi. Con un grande
sforzo si costrinse a parlare del più e del meno con
quell’anziana loquace, abbastanza a lungo perché la sua visita
sembrasse spontanea. Dopo averla salutata, andò al consolato e
lì il suo ultimo dubbio fu dissipato. Ormai non restava che
tornare a casa e attendere Arthur. Il suo primo impulso era
stato di cercare il dottor Porhoët e chiedergli consiglio, ma, se
anche egli si fosse offerto di accompagnarla, la sua presenza
sarebbe stata inutile. Doveva vedere Arthur da sola. Le si
spezzava il cuore pensando all’angoscia di quell’uomo una volta
scoperta la verità. Ormai da tempo aveva ammesso dentro di sé
di amarlo appassionatamente e le sembrava intollerabile che
proprio lei, tra tanti, dovesse infliggergli quel colpo.
Seduta nell’appartamento, contava i minuti e pensava con un
sorriso amaro che Arthur, impaziente di vedere Margaret,
sarebbe arrivato puntuale. Susie non mangiava nulla dal petit
déjeuner e si sentiva debole per la fame, ma non ebbe cuore di
prepararsi il tè. Finalmente, Arthur arrivò. Entrò, tutto allegro,
e si guardò attorno.
«Margaret non è ancora rincasata?» domandò sorpreso.
«Perché non si siede?».
Egli non notò che Susie aveva una voce strana e distoglieva lo
sguardo.
«Lei è proprio pigra» esclamò. «Non ha preparato il tè».
«Dottor Burdon, devo dirle una cosa. Le procurerà un dolore
enorme».
Arthur notò in quel momento la sua voce roca. Balzò in piedi
e mille pensieri gli si affollarono nella mente. Qualcosa di
orribile era accaduto a Margaret. Era malata. Era talmente
terrorizzato che non riusciva a parlare. Protese le mani come
un cieco. Susie dovette fare uno sforzo per continuare, ma non
ci riuscì. Con voce strozzata cominciò a piangere. Arthur
tremava, come in preda alle convulsioni. Lei gli consegnò il
biglietto.
«Che significa?».
La fissava con uno sguardo vacuo. Susie gli raccontò dov’era
stata, cosa aveva fatto.
«Lei pensava che Margaret passasse i pomeriggi con Mrs
Bloomfield, invece era con quell’uomo. Aveva preparato ogni
cosa con la massima cura. Era tutto premeditato».
Seduto con la fronte appoggiata sulla mano, Arthur le dava le
spalle perché lei non potesse vederlo in faccia. Rimasero in
perfetto silenzio, ed era così tremendo che Susie cominciò a
piangere, piano. L’uomo che amava soffriva un tormento più
grande dell’agonia della morte e lei non poteva aiutarlo. La
rabbia le divampò nel cuore, insieme all’odio per Margaret.
«Oh, è ignobile!» esclamò all’improvviso. «Le ha mentito, l’ha
ingannata in modo odioso. È una donna vile, senza cuore. Deve
essere marcia fin nel profondo dell’anima».
Egli si voltò di scatto; la sua voce era dura.
«Le proibisco di dire anche una sola parola contro di lei».
Susie soffocò un singulto; Arthur non le aveva mai parlato
con quel tono adirato. Avvampò, piena d’amarezza.
«Riesce dunque ad amarla ancora, quando si è dimostrata
capace di un tradimento così meschino? Per quasi un mese
quell’uomo deve averla corteggiata e Margaret ha ascoltato
tutto ciò che abbiamo detto di lui. Ha finto di detestarne anche
la sola presenza e l’ho vista evitarlo per la strada. Ha portato
avanti i preparativi del matrimonio. Ha vissuto in un mondo di
menzogna e lei non ha sospettato nulla, perché aveva una
fiducia incrollabile nel suo amore e nella sua sincerità. Quella
donna le deve tutto. Per quattro anni è vissuta della sua carità.
Ha avuto la possibilità di venire qui solo perché lei le ha dato il
denaro per realizzare il suo sciocco capriccio, e persino gli abiti
che portava erano pagati da lei».
«Se non mi avesse amato, me ne sarei accorto» esclamò lui,
disperato.
«Lei sa bene quanto me che fingeva di amarla. Si è
comportata in modo vergognoso e non ha scusanti».
L’uomo guardò Susie con occhi infelici, stravolti.
«Come può essere tanto crudele? Per l’amor di Dio, non mi
renda tutto più difficile».
Nella sua voce c’era un’angoscia indescrivibile e Arthur
crollò, come se quelle parole accorate avessero abbattuto
l’ultimo baluardo di autocontrollo. Nascose il volto tra le mani e
scoppiò in singhiozzi. Susie era afflitta dai rimorsi.
«Oh, mi dispiace tanto» disse. «Non avevo intenzione di dirle
queste cose odiose. Non volevo essere brusca. Avrei dovuto
ricordare con quanta passione lei ami Margaret».
Era penoso vedere gli sforzi di Arthur per ritrovare
l’autocontrollo. Susie ne soffriva quanto lui. Sentiva l’impulso
di gettarsi ai suoi piedi, baciargli le mani e confortarlo; ma
sapeva che Arthur provava interesse per lei solo perché era
l’amica di Margaret. Alla fine egli si alzò e prese la pipa dalla
tasca, riempiendola in silenzio. Susie era terrorizzata dalla sua
espressione. La prima volta che l’aveva incontrato, si era
chiesta quanta sofferenza fosse capace di infliggersi, ma mai
avrebbe immaginato che quel viso aspramente scolpito potesse
esprimere una sofferenza così indicibile. I suoi tratti stravolti
erano uno spettacolo orribile.
«Non posso credere che sia vero,» sussurrò lui «non posso
crederci».
Si sentì bussare alla porta e Arthur proruppe in un grido di
sorpresa.
«Forse è tornata».
Aprì svelto la porta, il volto acceso di speranza. Ma era il
dottor Porhoët.
«Salve» disse il francese. «Che succede?».
Si guardò attorno e colse lo sgomento sul volto di Arthur e di
Susie.
«Dov’è Miss Margaret? Pensavo ci fosse una festa».
Qualcosa nei suoi modi spinse Susie a chiedergli lumi.
«Questa mattina ho ricevuto un telegramma da Mr Haddo».
Lo tirò fuori dalla tasca e lo porse a Susie. Lei lo lesse e lo
passò ad Arthur. Diceva:
«Venga all’appartamento alle cinque. Gran baldoria.
Oliver Haddo».
«Margaret e Mr Haddo si sono sposati stamattina» disse
Arthur con compostezza. «Mi si dice che sono partiti per
l’Inghilterra».
Susie raccontò succintamente al dottore il poco che
sapevano. Egli ne fu sorpreso e scosso quanto loro.
«Ma come si spiega tutto questo?» domandò.
Arthur si strinse nelle spalle con aria stanca.
«Evidentemente teneva a Haddo più di quanto tenesse a me.
È naturale che se ne sia andata così, senza dare spiegazioni.
Suppongo che volesse risparmiarsi una scena penosa».
«Quando l’hai vista per l’ultima volta?».
«Ieri, abbiamo passato la serata insieme».
«E non ha lasciato in alcun modo trapelare che stava
meditando un passo simile?».
Arthur fece un cenno di diniego.
«Avete litigato?».
«Noi non abbiamo mai litigato. Era di ottimo umore. Non
l’avevo mai vista così allegra. Ha parlato per tutto il tempo
della nostra casa a Londra e dei luoghi che avremmo visitato
una volta sposati».
Un’altra smorfia di dolore gli attraversò il volto, mentre
ricordava che era stata più affettuosa del solito. Il fuoco dei
suoi baci ancora gli bruciava sulle labbra. Aveva trascorso una
notte – pressoché insonne – d’estasi, perché per la prima volta
aveva avuto la certezza che la passione che lo consumava
bruciava anche nel cuore di lei. Le parole gli uscirono contro la
sua volontà.
«Oh, sono certo che mi amava».
Nel frattempo gli occhi di Susie erano fissi sul crudele
telegramma di Haddo. Le sembrava di sentire la sua risata di
scherno.
«Margaret disprezzava Oliver Haddo, nutriva per lui un odio
quasi innaturale. Era una repulsione fisica, come quella che
talvolta la gente prova per certi animali. Cosa può essere
accaduto per mutare la repulsione in un amore così grande da
ispirarle azioni tanto inqualificabili?».
«Cerchiamo di essere giusti» disse Arthur. «Quell’uomo ci ha
fatto infuriare e probabilmente siamo stati troppo severi nel
giudicarlo. Un tempo si è reso capace di cose notevoli, non è
uno sciocco. È possibile che altri non diano peso a quelle
eccentricità che ci irritavano. Sicuramente è di ottima famiglia,
ed è ricco. Per molti versi è un eccellente partito per
Margaret».
Stava cercando con tutte le sue forze di trovarle delle
giustificazioni. Il tradimento non sarebbe stato tanto
intollerabile se fosse riuscito a convincersi che l’infatuazione
era dovuta alle qualità di Haddo. Ma mentre il nemico gli si
parava dinanzi nella fantasia, mostruosamente obeso, volgare,
eccessivo, un brivido lo percorse. Il pensiero di Margaret fra le
braccia di quell’uomo lo tormentava, si sentiva strappare la
carne con uncini di ferro.
«Forse non è vero, forse tornerà» esclamò.
«La riprenderebbe se tornasse?» domandò Susie.
«Crede forse che Margaret possa fare qualcosa che mi spinga
ad amarla di meno? Delle ragioni a noi sconosciute devono
averla costretta ad agire così. Direi anzi che è stato inevitabile,
fin dal primo momento».
Il dottor Porhoët si alzò e traversò la stanza.
«Se una donna mi avesse offeso al punto di farmi desiderare
un’orribile vendetta, non avrei potuto immaginare nulla di più
sottilmente crudele che lasciarle sposare Oliver Haddo».
«Ah, povera ragazza!» disse Arthur. «Se solo riuscissi a
credere che sarà felice! Il futuro mi atterrisce».
«Chissà se Margaret sapeva che Haddo aveva spedito quel
telegramma» disse Susie.
«Che importanza può avere?».
Ella si voltò verso Arthur con aria seria.
«Ricorda quel giorno, qui, quando Haddo dette un calcio al
cane di Margaret e lei, Arthur, lo colpì? Ebbene, poco dopo,
quando pensava di non essere visto, colsi per caso
l’espressione del suo viso. In vita mia non ho mai visto un odio
così violento. Era il volto di un perfido demonio. E quando egli
tentò di scusarsi, c’era nei suoi occhi un lampo di crudeltà che
mi terrorizzò. La avvertii; le dissi che avrebbe voluto
vendicarsi. Ma lei rise di me. E poi mi sembrò che Haddo fosse
uscito dalla sua vita e non ci pensai più. Mi domando per quale
motivo abbia mandato qui il dottor Porhoët, oggi. Era certo che
il dottore avrebbe saputo della sua umiliazione e desiderava
che fosse presente al suo trionfo. Credo che in quel preciso
momento Haddo abbia deciso di vendicarsi di lei e abbia
architettato questo piano ignobile».
«Ma come poteva sapere che sarebbe riuscito a portare a
compimento una cosa tanto orribile?» disse Arthur.
«Chissà che Miss Boyd non abbia ragione» mormorò il
dottore. «Del resto, a pensarci bene, doveva sapere che niente
avrebbe potuto ferirti di più. È un disegno diabolico. Ti ha
strappato la felicità. Sapeva senz’altro che la cosa che più
desideravi al mondo era sposare Margaret, e non solo l’ha
impedito, ma l’ha sposata lui stesso. Può averlo fatto soltanto
avvelenandole la mente, modificandole il carattere. Deve averle
insozzato l’anima, e mutato totalmente la personalità».
«Ah, ne sono certo!» esclamò Arthur. «Se Margaret ha
infranto la promessa fatta a me e se è andata con lui con tanta
indifferenza, è perché non è la Margaret che conosco io. Un
demonio deve essersi impadronito del suo corpo».
«La sua è una metafora, ma io mi chiedo se possa essere
successo davvero».
Arthur e il dottor Porhoët fissarono Susie con stupore.
«Non riesco a credere che Margaret possa aver fatto una
cosa simile» continuò lei. «Più ci penso, più mi sembra
incredibile. Conosco Margaret da anni. Non sa cosa sia
l’inganno. Era una fanciulla gentile, onesta e sincera. In un
primo momento, inorridita, ho provato solo indignazione, ma
non voglio pensare troppo male di lei. C’è solo un modo per
giustificarla, ed è supporre che abbia agito sotto la spinta di
qualche misteriosa costrizione».
Arthur si tormentava le mani.
«Forse sarebbe ancora peggio. Se l’ha sposata solo per
ferirmi e non perché tiene a lei, quale vita l’aspetta con
quell’uomo? Sappiamo quanto può essere spietato, vendicativo,
orrendamente crudele».
«Il dottor Porhoët conosce queste cose molto meglio di noi»
disse Susie. «È possibile che Haddo le abbia fatto una sorta di
incantesimo, rendendola incapace di resistere alla sua volontà?
È possibile che sia riuscito a esercitare una tale influenza su di
lei da mutarne completamente il carattere?».
«Come posso saperlo?» esclamò il dottore, impotente. «Ho
sentito dire che cose simili possono accadere. Ho letto qualcosa
in proposito, ma non ho prove. In questo campo tutto è mistero.
Gli adepti delle arti magiche rivendicano strani poteri. Arthur è
un uomo di scienza, e lui sa quali sono i limiti dell’ipnotismo».
«Sappiamo che Haddo ha poteri che gli altri uomini non
hanno» rispose Susie. «Forse c’è un fondo di verità nelle sue
balzane vanterie e sul serio è in grado di fare cose che
riusciamo a stento a immaginare».
Arthur, sfinito, si passò una mano sul volto.
«Sono affranto, confuso, al punto che non riesco a pensare in
modo coerente. In questo momento tutto mi sembra possibile.
La mia fede nelle verità che mi hanno sostenuto finora
comincia a vacillare».
Per un po’ rimasero in silenzio. Gli occhi di Arthur si
posarono sulla poltrona in cui Margaret era solita sedere. Sul
cavalletto c’era una tela incompiuta. Fu il dottor Porhoët a
parlare, alla fine.
«Anche se ci fosse un fondo di verità nelle congetture di Miss
Boyd, non vedo come questo potrebbe aiutarti. Non puoi far
nulla. Non c’è rimedio, né legale, né d’altra natura. Margaret,
apparentemente, è nel pieno possesso delle sue facoltà, e l’ha
sposato. Molti penseranno che ha fatto molto meglio a sposare
un gentiluomo di campagna piuttosto che un giovane chirurgo.
La sua lettera è perfettamente lucida. Non c’è traccia di
costrizione. Con ogni evidenza, lo ha sposato di sua volontà e
nulla dimostra che desideri essere allontanata da lui o dalla
passione che supponiamo la renda schiava».
Quel che diceva era vero e inconfutabile.
«L’unica cosa è fare buon viso a cattivo gioco» disse Arthur
alzandosi.
«Dove va?» disse Susie.
«Credo proprio che me ne andrò da Parigi. Tutto, qui, mi
ricorda quel che ho perduto. Devo tornare al lavoro».
Aveva ripreso il controllo su se stesso e, tranne per quella
irrimediabile infelicità sul suo volto, che gli era impossibile non
far trapelare, era calmo come al solito. Tese la mano a Susie.
«Posso soltanto augurarle di dimenticare» disse lei.
«Non desidero dimenticare» rispose lui scuotendo la testa. «È
possibile che lei abbia notizie di Margaret. Avrà bisogno delle
cose che ha lasciato qui, e probabilmente le scriverà. Vorrei
che le dicesse che non le serbo rancore e che mai avrò l’ardire
di biasimarla. Non so se potrò fare qualcosa per lei, ma deve
sapere che sempre, in ogni caso, farò tutto quel che desidera».
«Se mi scriverà, sarà mia cura dirglielo» rispose Susie in tono
grave.
«Bene, dunque, arrivederci».
«Non potrà partire per Londra fino a domani. La vedrò,
domattina?».
«Se non le dispiace preferirei non tornare qui. La vista di
questo luogo mi turba».
Ancora una volta una smorfia di dolore gli balenò negli occhi
e Susie capì che stava facendo uno sforzo sovrumano per
mantenere un’apparente compostezza. Esitò per un attimo.
«Non ci vedremo mai più?» disse. «Mi dispiacerebbe perderla
completamente di vista».
«Anche a me dispiacerebbe» rispose lui. «Ho imparato ad
apprezzare la sua bontà e la sua gentilezza, e non dimenticherò
mai che lei è un’amica di Margaret. Quando verrà a Londra,
spero che si farà sentire».
Uscì. Il dottor Porhoët, con le mani dietro la schiena,
cominciò a camminare su e giù per la stanza. Alla fine si rivolse
a Susie.
«C’è una cosa che mi sconcerta» disse. «Perché l’ha
sposata?».
«Ha sentito quel che ha detto Arthur» rispose Susie,
amaramente. «Qualunque cosa sia accaduta, sarebbe pronto a
riprenderla con sé. Haddo sapeva che l’unico modo certo per
legarla a sé era il rito del matrimonio».
Il dottor Porhoët si strinse nelle spalle e poco dopo la salutò.
Quando fu sola, Susie cominciò a piangere a calde lacrime, non
per se stessa, ma perché Arthur era afflitto da un tormento
quasi insopportabile.
11
Arthur ripartì per Londra il giorno successivo.
Susie comprese che le era impossibile restare in
quell’appartamento deserto e accettò l’invito di un’amica a
trascorrere l’inverno in Italia. Il buon dottor Porhoët rimase a
Parigi con i suoi libri e i suoi studi di occultismo.
Susie viaggiava senza fretta per la Toscana e l’Umbria.
Margaret non le aveva scritto e lei, lasciando Parigi, aveva
spedito gli effetti dell’amica a un certo indirizzo da cui sapeva
che prima o poi le sarebbero stati inoltrati. Non si decideva a
scriverle. In risposta a un suo biglietto che gli annunciava il
cambiamento di programma, Arthur le aveva scritto
brevemente che aveva molto da fare e che era impegnato in
una nuova serie di conferenze al St. Luke; di recente aveva
iniziato a collaborare con un altro ospedale e anche la sua
attività privata stava aumentando. Non faceva nemmeno un
accenno a Margaret. La sua lettera era essenziale, formale,
quasi di dovere, e molto riservata. Susie, leggendola per la
decima volta, non ne dedusse molto. Si capiva che scriveva per
educazione, senza provare alcun interesse, e non c’era nulla
che rivelasse il suo stato d’animo. Susie e l’amica avevano
deciso di trascorrere alcune settimane a Roma; e qui, con suo
stupore, Susie ebbe notizie di Haddo e di sua moglie. A quanto
pareva, vi avevano trascorso un periodo, e la ristretta cerchia
degli inglesi ancora parlava delle loro eccentricità. Viaggiavano
con una certa pompa, con una guida al seguito e uno stuolo di
domestici; avevano affittato una vettura e ogni pomeriggio si
recavano al Pincio. Haddo aveva destato curiosità per il suo
abbigliamento stravagante e Margaret per la sua bellezza; la si
vedeva ogni sera nel suo palco all’Opera e i suoi diamanti
suscitavano l’invidia di tutti. Benché la gente ridesse della
pretenziosità di Haddo e fosse esasperata dalla sua arroganza,
restava impressionata dalla sua evidente ricchezza. Ma,
all’improvviso, la coppia era scomparsa senza dire una parola a
nessuno. Parecchie fatture erano rimaste insolute, ma Susie
seppe che erano state saldate in seguito. Si diceva che in quel
momento fossero a Montecarlo.
«Ti sono sembrati felici?» chiese Susie all’amica un po’
pettegola che le aveva dato queste scarne informazioni.
«Direi di sì. In fin dei conti, Mrs Haddo ha praticamente tutto
quel che una donna può desiderare, ricchezza, bellezza,
splendidi abiti, gioielli. Sarebbe irragionevole da parte sua non
essere felice».
Susie aveva intenzione di trascorrere l’ultimo periodo di
primavera sulla Riviera, ma esitò quando seppe che gli Haddo
erano là. Non voleva rischiare di incontrarli, eppure provava un
acuto desiderio di scoprire come stavano veramente le cose.
Curiosità e disgusto lottarono nella sua mente, ma la curiosità
ebbe la meglio, ed ella convinse la sua amica ad andare a
Montecarlo invece che a Beaulieu. Susie non incontrò subito gli
Haddo; essi però avevano già suscitato parecchi pettegolezzi,
ed ella non dovette far altro che tenere le orecchie aperte. In
quel luogo bizzarro, dove si raccoglie tutto ciò che è
stravagante e maligno, morboso, folle e fuori del comune, gli
Haddo erano in buona compagnia. Erano famosi per la loro
assiduità ai tavoli da gioco e per la loro fortuna, per i pranzi e
le cene che offrivano in luoghi frequentati da gente molto ricca,
e per il loro aspetto eccentrico. Era un quadro complesso
quello che Susie mise insieme con le informazioni
frammentarie che riuscì a raccogliere. Dopo un paio di giorni li
vide ai tavoli da gioco, ma erano talmente assorti che si sentì
quasi sicura di non essere stata scoperta. Margaret giocava,
ma Haddo le stava alle spalle e guidava i suoi movimenti.
Entrambi erano incredibilmente concentrati. Susie fissò la sua
attenzione su Margaret poiché, in quel che aveva sentito dire
su di lei, le era impossibile riconoscere la fanciulla che le era
stata amica. Ciò che più la colpì in quel momento fu il fatto che
l’espressione di Margaret rivelasse una curiosa somiglianza
con quella di Haddo. Nonostante la sua squisita bellezza, c’era
in lei una strana aria crudele, quasi vedesse il mondo,
letteralmente, con gli occhi di Oliver. Quella sera stavano
vincendo forti somme ed erano in molti a osservarli. A quanto
pareva, giocavano sempre in quel modo, Margaret puntava e
Haddo le diceva cosa fare e quando fermarsi. Susie udì due
francesi che parlavano di loro e drizzò le orecchie. Arrossì
sentendo uno dei due fare un’osservazione a dir poco volgare
su Margaret. L’altro rise.
«Non ci credo» disse.
«Ti assicuro che è vero. Sono sposati da sei mesi e lei è sua
moglie solo di nome. Da sempre i superstiziosi credono nel
potere della verginità, e la Chiesa ha sfruttato l’idea per i suoi
fini. Quell’uomo la usa semplicemente come portafortuna».
Gli uomini risero, e la loro conversazione continuò su un tono
talmente osceno che le guance di Susie avvamparono. Ma
quanto aveva sentito la spinse a osservare Margaret ancora più
attentamente. Era radiosa. Susie non poteva negare che le era
accaduto qualcosa che conferiva alla sua bellezza un tocco
nuovo, enigmatico. Era abbigliata con una ricercatezza che il
gusto piuttosto discreto di Susie trovava difficile accettare; i
suoi diamanti, di per sé splendidi, erano eccessivi per
l’occasione. Alla fine, raccogliendo il denaro, Haddo le sfiorò la
spalla, e lei si alzò. Alle sue spalle c’era una donna truccata
pesantemente, di fama notoriamente poco rispettabile. Susie si
stupì vedendo Margaret sorriderle e farle un cenno mentre le
passava accanto.
Susie venne a sapere che gli Haddo avevano una suite in uno
degli alberghi più costosi. Vivevano in un turbine di
spensieratezza. Conoscevano pochi inglesi, se si escludono
quelli di pessima reputazione, ma sembravano preferire la
compagnia degli stranieri che per ricchezza ed eccentricità
erano le attrazioni di quel piccolo mondo. In seguito li vide
spesso insieme a granduchi russi e alle loro amanti, a donne
sudamericane dai gioielli favolosi, a nobili giocatori e dame di
dubbia fama, a strani uomini vistosamente abbigliati e troppo
profumati. I pettegolezzi su di loro andavano aumentando.
Margaret si muoveva fra quella gente equivoca con aria
scostante e misteriosa, suscitando la curiosità dei perditempo.
L’allusione che Susie aveva sentito per caso veniva ripetuta in
modo più circostanziato. Ma a essa si aggiungeva il resoconto
di orge nel salone dell’albergo, opportunamente oscurato, sotto
gli occhi di tutti i nobili e i viziosi di Montecarlo. L’eccentrica
immaginazione di Oliver inventava festini fantasiosi. Aveva una
passione per i travestimenti e aveva dato una festa in maschera
della quale si raccontavano meraviglie. Cercava di far rivivere i
riti mistici di antiche religioni e correva voce che nel giardino
di una villa, durante le notti di plenilunio, fossero state
compiute terrificanti cerimonie a imitazione di quelle che
Haddo aveva visto in Oriente. Si diceva che egli avesse poteri
magici portentosi, e la stanca immaginazione di quella gente
affamata di nuovi piaceri veniva sollecitata dal racconto delle
sue pratiche di magia nera. Alcuni si spingevano fino ad
asserire che blasfeme messe nere erano state celebrate in casa
di un principe polacco. Parlavano di satanismo e di
negromanzia. Pensavano che Haddo fosse dedito agli studi di
occultismo per compiere un esperimento di magia, e alcuni
sostenevano che si dedicasse al magnum opus, l’esperimento
alchemico più importante e fantastico. Queste storie pian piano
si ridussero a un’unica mostruosa affermazione: Haddo stava
cercando di creare degli esseri viventi. Egli aveva diffusamente
spiegato a qualcuno che esistevano delle formule magiche per
dare vita agli homunculi.
Haddo era in genere conosciuto con il nome che si era
attribuito, Fratello dell’Ombra; ma la maggior parte delle
persone usava questo appellativo con tono di derisione,
trovandolo assurdamente in contrasto con la sua mole
sbalorditiva. La gente era irritata dalla sua vanità, ma non
poteva fare a meno di parlare di lui e, come Susie ben sapeva,
non c’era nulla che facesse più piacere a quell’uomo. Le sue
gesta come cacciatore di leoni erano famose, e si raccontava
che si fosse macchiato le mani di sangue umano. Non si tardò a
scoprire che aveva un misterioso potere sugli animali, al punto
che la sua presenza destava in loro un indicibile terrore. Era
circondato da un’aura di leggenda e nulla di quanto si diceva di
lui era così stravagante da non risultare credibile. Ma
circolavano anche aneddoti spiacevoli, e c’era chi diceva che
fosse stato cacciato da un club di Vienna per aver barato alle
carte. Conosceva molti giochi ma, come un tempo a Oxford,
non si tardò a scoprire che era un avversario senza scrupoli. Si
trascinava dietro vecchie storie su strane droghe di cui avrebbe
fatto uso. Si supponeva che avesse vizi terribili e giravano, ma
solo sussurrate, voci di scandali soffocati a fatica. Nessuno
capiva bene quali fossero i suoi rapporti con la moglie, ci si
limitava a dire che a volte era brutale e crudele con lei. A Susie
si spezzava il cuore quando sentiva queste cose, ma, nelle
poche occasioni in cui la vide, Margaret le sembrò sempre di
ottimo umore. Un episodio, tuttavia, la turbò oltremodo. Dopo
aver pranzato in un ristorante, Haddo pagò il conto con una
moneta falsa, e ne scaturì un alterco assai sgradevole con il
cameriere. Egli rifiutò di cambiare la moneta, finché arrivò un
poliziotto. I suoi ospiti erano furiosi, e molti alla prima
opportunità preferirono rompere con lui. Uno dei presenti
raccontò la scena a Susie, aggiungendo che, per tutto il tempo
di quella squallida discussione, Margaret non fece che ridere
con il suo vicino, niente affatto preoccupata. Haddo era di
buona famiglia e aveva un notevole patrimonio, eppure
sembrava che si divertisse a comportarsi come un
avventuriero. L’episodio fu ben presto sulla bocca di tutti e a
poco a poco gli Haddo si trovarono isolati. Le persone che
frequentavano più spesso avevano una reputazione già fragile e
non potevano permettersi di stare costantemente al centro
dell’attenzione, come capitava a chiunque fosse in rapporti con
loro; il semplice accenno alla polizia aveva fatto correre un
brivido lungo più di una schiena. Quel che era accaduto a Roma
accadde
anche
a
Montecarlo:
gli
Haddo
sparirono
all’improvviso.
Susie mancava da Londra già da tempo, e man mano che la
primavera avanzava pensò che i suoi amici avrebbero avuto
piacere di vederla. Sarebbe stato bello trascorrere là alcune
settimane con una rendita adeguata, perché i piaceri londinesi
le erano stati fino ad allora preclusi ed ella aspettava quel
viaggio come se dovesse partire per una città straniera. Benché
non lo confessasse neppure a se stessa, il desiderio di vedere
Arthur era più forte di ogni altra ragione. Il tempo e la
lontananza avevano un po’ attenuato l’intensità dei suoi
sentimenti e poteva finalmente ammettere di pensare a lui con
profondo affetto. Sapeva che non gli sarebbe mai importato
nulla di lei, ma si accontentava di essergli amica. Riusciva a
pensare a lui senza soffrire.
Susie rimase tre settimane a Parigi per acquistare degli abiti
– a sentir lei, erano ormai l’unico piacere che aveva nella vita –,
poi partì per Londra.
Scrisse ad Arthur, ed egli la invitò subito a pranzo in un
ristorante. Ne fu irritata, perché a casa sua avrebbero potuto
parlare più liberamente; ma, appena lo vide, comprese che
aveva scelto quel luogo di proposito. La folla intorno a loro,
l’allegria, l’orchestra che suonava impedivano qualunque
conversazione troppo intima. Furono costretti a parlare del più
e del meno. Susie fu del tutto sgomenta vedendo quale
cambiamento si era verificato in lui. Dimostrava dieci anni di
più; era dimagrito e i capelli erano spruzzati di bianco. Il volto
era incredibilmente tirato, gli occhi arrossati per la mancanza
di sonno. Ma fu colpita soprattutto dal cambiamento della sua
espressione. L’aria sofferta che gli aveva visto sul viso l’ultima
sera nell’appartamento ora vi si era fissata definitivamente, al
punto da alterargli i tratti. A guardarlo le si stringeva il cuore.
Era quanto mai silenzioso e, quando parlava, lo faceva con
un’insolita voce bassa che sembrava venire da molto lontano.
Stare con lui la fece sentire stranamente a disagio, perché
percepiva un’inquietudine che toglieva ogni pacatezza ai suoi
modi. Una delle cose che più aveva apprezzato di Arthur era la
sua tranquillità: dava l’impressione di essere uno su cui si
poteva fare affidamento in caso di bisogno. Dapprima Susie non
si rese ben conto di cosa gli fosse accaduto, ma non ci mise
molto a capire che faceva uno sforzo continuo per controllarsi.
La sofferenza non lo abbandonava mai, ed era sempre in
guardia per impedire che qualcuno se ne accorgesse. Era
quello sforzo a renderlo così irrequieto.
Ma era più gentile di un tempo. Sembrò sinceramente felice
di vederla, e le chiese con interesse dei suoi viaggi. Susie lo
spinse a parlare di sé ed egli le raccontò volentieri la sua
routine quotidiana. Guadagnava bene e la sua fama
professionale era in continua crescita. Lavorava sodo. Oltre
agli incarichi nei due ospedali con i quali collaborava,
l’insegnamento e l’attività privata, ultimamente aveva
presentato un paio di relazioni dinanzi alle autorità scientifiche,
e stava curando un importante trattato di chirurgia.
«Ma come fa a trovare il tempo per tutto?» gli domandò
Susie.
«Ormai sono abituato a dormire molto meno» rispose lui «e
questo mi consente di raddoppiare le mie ore lavorative».
Si
interruppe
bruscamente
e
abbassò
gli
occhi.
Quell’osservazione aveva lasciato casualmente trapelare un
accenno alla sua vita interiore, che egli cercava invece di
nascondere. Susie capì che i suoi sospetti erano fondati. Pensò
alle lunghe ore di veglia in cui Arthur cercava invano di
allontanare dalla mente quella tormentosa agonia, e ai brevi
intervalli di sonno turbato. Era certa che rimandasse il più
possibile il momento fatale in cui doveva andare a letto, e che
ringraziasse le prime luci dell’alba di offrirgli una scusa per
alzarsi. Egli sapeva di aver rivelato la verità e ne fu
imbarazzato. Sedevano in silenzio, guardinghi. Susie fu
profondamente colpita dal contrasto fra la figura tragica che
aveva davanti e la folla festante tutt’intorno: gente felice che si
godeva i bei momenti della vita, chiacchierava, rideva, stava in
allegria. Si domandò quale raffinato gusto per la tortura lo
avesse spinto a scegliere quel luogo per il loro incontro. Di
certo doveva odiarlo.
Alla fine del pranzo, Susie prese il coraggio a due mani.
«Le farebbe piacere venire da me per una mezz’ora? Qui non
si riesce a parlare».
Egli ebbe un istintivo moto di rifiuto, come se cercasse di
fuggire. Non rispose immediatamente, e lei insistette.
«I suoi impegni le lasceranno un’ora di libertà, e ci sono
molte cose di cui vorrei parlarle».
«L’unico modo per esser forti è non arrendersi mai alla
propria debolezza» disse lui, quasi sussurrando, come se si
vergognasse di parlare di una cosa così intima.
«Dunque non vuol venire?».
«No».
Non era necessario specificare di cosa avesse intenzione di
discutere. Arthur sapeva perfettamente che Susie desiderava
parlare di Margaret, e lei era troppo sincera per fingere. Susie
rimase per un momento in silenzio.
«Non ho mai avuto modo di dare a Margaret il suo
messaggio. Non mi ha scritto».
Arthur aveva uno sguardo spiritato, come se tutto questo
fosse troppo per lui.
«L’ho vista a Montecarlo» disse Susie. «Pensavo che le
avrebbe fatto piacere avere sue notizie».
«Non vedo a cosa serva» rispose.
Susie fece un gesto di disperazione. Era sconfitta.
«Vogliamo andare?» disse.
«Non è irritata con me?» domandò Arthur. «So che lei vuole
solo essere gentile. Le sono molto grato».
«Non potrei mai essere irritata con lei» replicò Susie con un
sorriso.
Arthur pagò il conto e si fecero strada fra i tavoli. Sulla porta
Susie gli tese la mano.
«Credo che lei faccia male a chiudersi in se stesso, isolandosi
da qualsiasi contatto umano» disse con il suo sorriso bonario.
«Così rischia di diventare morboso».
«Esco molto» rispose lui con tono paziente, come se stesse
parlando a un bambino. «Mi impongo delle distrazioni dal
lavoro. Vado all’Opera due o tre volte alla settimana».
«Credevo che non le interessasse la musica».
«Infatti non mi è mai interessata» rispose lui. «Ma trovo che
mi rilassi».
Susie era sconcertata dal suo tono spossato; non aveva mai
visto con tanta chiarezza il tormento di un’anima che soffre.
«Perché non mi porta all’Opera, una sera?» gli domandò. «O
forse l’annoia vedermi?».
«Mi piacerebbe moltissimo». Arthur sorrise quasi con
allegria. «Lei è un tonico meraviglioso. Giovedì daranno il
Tristano. Vogliamo andarci insieme?».
«Ne sarei felicissima».
Gli strinse la mano e saltò dentro una vettura.
«Poveretto!» mormorò. «Cosa posso fare per lui?».
Si tormentava le mani pensando a Margaret. Era mostruoso
che avesse provocato un tale disastro in quell’uomo così buono
e forte.
«Oh, spero che anche lei ne soffra» sussurrò con tono
vendicativo. «Spero che soffra tutti i tormenti che ha sofferto
lui».
Per andare al Covent Garden Susie si vestì come solo lei
sapeva fare. Il suo abito le piaceva tantissimo, non solo perché
aveva un taglio perfetto, ma perché le era costato molto più di
quanto si sarebbe potuta permettere. Vestire bene era l’unico
lusso che si concedeva. Era un abito in taffettà, di quel verde
raffinato che gli esperti di moda chiamano eau de Nil, abbellito
da un pizzo antico che era una parte preziosa della sua eredità.
Tra i capelli Susie portava un fermaglio spagnolo di squisita
fattura, tempestato di pietre artificiali, e al collo una catena
che una volta aveva adornato la Madonna di una chiesa
andalusa. Tanta originalità rendeva attraente anche il suo
aspetto piuttosto scialbo. Allo specchio, sorrise a se stessa con
una punta di malinconia, perché Arthur non avrebbe neppure
notato che era vestita in modo perfetto.
Quando scese le scale e traversò il marciapiede diretta alla
vettura con cui Arthur era venuto a prenderla, tenne sollevata
la gonna con una grazia – così le piaceva pensare – tutta
parigina. Lungo il tragitto, mentre giocherellava con il
ventaglio spagnolo, lanciò un’occhiata furtiva nello specchietto.
I suoi guanti erano così lunghi, nuovi e costosi, che la
mancanza di attenzione di Arthur le era del tutto indifferente.
Il suo temperamento gioioso sbocciò come un fiore
primaverile quando giunsero all’Opera. Con il binocolo osservò
le donne che prendevano posto nei palchi della galleria. Arthur
le indicò un certo numero di persone dai nomi familiari, ma era
chiaro che si sforzava di essere cordiale. Quella folla
spensierata rendeva ancor più evidente la piega stanca della
sua bocca. Ma quando attaccò la musica, egli parve
dimenticare che qualcuno lo stava osservando e allentò la
tensione costante alla quale si costringeva. Susie, guardandolo
di nascosto, vide le emozioni passare veloci sul suo volto,
adesso assai mutevole. I suoni appassionati gli divoravano
l’anima, mescolandosi al suo amore e al suo dolore, fino a
strapparlo a se stesso; a tratti aveva un respiro strano,
affannoso. Durante l’intervallo rimase immerso nella sua
emozione. Sedeva tranquillo come prima, senza dire una
parola. Susie comprese per quale motivo Arthur, nonostante
l’indifferenza di un tempo, ora apprezzasse tanto la musica:
essa alleviava il suo dolore, trasportandolo in un mondo ideale.
E la sua pena atroce rendeva la musica talmente reale che egli
poteva goderne con straordinaria intensità. Quando tutto fu
finito, e Isotta ebbe esalato il suo ultimo gemito di dolore,
Arthur era talmente esausto che quasi non riusciva a muoversi.
Uscirono tra la folla e nell’atrio, mentre attendevano di poter
procedere, furono raggiunti da un amico comune. Era
Arbuthnot, un oculista che Susie aveva incontrato sulla Riviera
e che, come scoprì in quel momento, era collega di Arthur al St.
Luke. Era un ricco scapolo, con i capelli brizzolati e il volto
rubizzo, soddisfatto; la sua attività rendeva bene ed egli
spendeva volentieri il suo denaro. Aveva portato Susie a cena
fuori un paio di volte, a Montecarlo. Amava le donne, graziose o
scialbe che fossero, e il buonumore di lei lo attraeva. Li
raggiunse a passo svelto e strinse loro le mani. Parlava con
voce gioviale.
«Proprio voi volevo incontrare! Perché non è venuta a
trovarmi, cattivella? Sono certo che i suoi occhi sono in
condizioni deplorevoli».
«Crede forse che permetterei a un uomo intraprendente e
perfido come lei di scrutarmi attraverso un oftalmoscopio?»
rise Susie.
«Statemi bene a sentire, devo chiedervi un grosso favore.
Offro una cena al Savoy e due miei commensali hanno
improvvisamente disdetto l’invito. Il tavolo è già prenotato per
otto, dovete assolutamente venire al posto loro».
«Spiacente, ma devo tornare a casa» disse Arthur. «Ho un
sacco di lavoro da sbrigare».
«Sciocchezze» rispose Arbuthnot. «Lavori troppo, e un po’ di
svago ti farà bene». Si voltò verso Susie: «So che a lei
interessano le bizzarrie della natura umana: a cena con noi ci
saranno un uomo e sua moglie, sono certo che la
entusiasmeranno, tanto sono originali; ci saranno anche
un’attrice
incantevole
e
una
ragazza
americana
simpaticissima».
«Mi piacerebbe molto venire» disse Susie, lanciando uno
sguardo supplichevole ad Arthur. «Se non altro per dimostrarle
che sono molto più divertente delle attrici incantevoli».
Arthur, sforzandosi di sorridere, accettò l’invito. Il collega gli
dette un’allegra pacca sulle spalle e si accordarono per vedersi
al Savoy.
«È stato davvero gentile ad accettare» disse Susie, mentre si
dirigevano al ristorante. «Sa, non ci sono mai stata in vita mia,
e non mi par vero».
«Che egoista sono stato a rifiutare!» rispose lui.
Quando Susie, di ottimo umore, uscì dal guardaroba del
Savoy, trovò Arthur ad aspettarla.
«Ora la prego di dire che le piace il mio abito. Sei donne sono
diventate verdi d’invidia quando l’hanno visto. Penseranno che
io sia francese e che non sia una ragazza perbene».
«È proprio un bel complimento» sorrise lui.
In quel momento Arbuthnot li raggiunse, e con fare espansivo
li prese sottobraccio.
«Venite, vi stanno aspettando. Vi presento a tutti e poi
andiamo a cena».
Scesero i gradini che portavano nell’atrio, ed egli li guidò
verso un gruppo di persone. Si ritrovarono faccia a faccia con
Oliver Haddo e Margaret.
«Il dottor Arthur Burdon, Mrs Haddo. Il dottor Burdon è un
mio collega al St. Luke. Le toglierà l’appendice in un baleno,
nessuno è più veloce di lui».
Arbuthnot continuava a blaterare e non si accorse che Arthur
era diventato bianco come un lenzuolo e Margaret era
costernata. Haddo, il volto pesante tutto sorrisi, fece un passo
avanti con aria cordiale. Sembrava divertirsi moltissimo.
«Il dottor Burdon è un nostro vecchio amico» disse. «Anzi, è
stato proprio lui a farmi conoscere mia moglie. E Miss Boyd e
io abbiamo discusso di arte e dell’immortalità dell’anima con la
serietà dovuta a tali argomenti».
Tese la mano e Susie gliela strinse. Le scenate le facevano
orrore e, per quanto inatteso e sgradevole fosse quell’incontro,
sentiva che era necessario comportarsi con naturalezza. Poi
strinse la mano a Margaret.
«Che disdetta!» esclamò il loro ospite. «Speravo di far
scoprire a Miss Boyd qualcosa di nuovo sui maghi e invece,
guardi un po’, sa già tutto di lei!».
«Se davvero sapesse tutto, sono certo che non mi
rivolgerebbe la parola» disse Oliver con un sorriso beffardo.
Entrarono nella sala da pranzo.
«Dunque, come vogliamo disporci?» disse Arbuthnot dando
un’occhiata alle sedie attorno al tavolo.
Oliver guardò Arthur con gli occhi che brillavano.
«Senza dubbio mia moglie deve sedere accanto al dottor
Burdon. Non si vedono da molto tempo e sono certo che
avranno tantissime cose di cui parlare». Sogghignò tra sé. «E vi
prego, lasciatemi a Miss Boyd, così potrà punzecchiarmi quanto
vuole».
La disposizione incontrò la piena approvazione dell’allegro
oculista, che così avrebbe potuto sedere tra la bella attrice e
l’affascinante americana. Si fregò le mani.
«Sento che sarà una cena indimenticabile».
Oliver rise fragorosamente. Come d’abitudine monopolizzò la
conversazione, e Susie dovette ammettere che era al suo
meglio. Il suo umorismo grottesco era molto divertente, ed era
quasi impossibile resistergli. Mangiò e bevve con incredibile
appetito. Susie ringraziò la sua buona stella di essere una
donna che, per lunga pratica, sapeva come nascondere i suoi
sentimenti; Arthur, al contrario, annichilito dallo sgomento,
sedeva in un silenzio di tomba. Susie chiacchierava
allegramente. Si prendeva gioco di Oliver come se fosse un
vecchio amico, e rideva con vivacità. Notò che Haddo, vestito in
modo più stravagante del solito, era riuscito a dare un tocco di
estrosità al suo abito da sera. Portava pantaloni alla zuava, di
per sé sufficienti a destare l’attenzione, ma la camicia con
jabot, il colletto di velluto e il panciotto in raso dalla foggia
inconsueta gli conferivano l’aria di un francese un po’ ridicolo.
Guardandolo più da vicino, Susie notò che negli ultimi sei mesi
si era fatto più calvo, e il lucido pallore della testa nuda
contrastava in modo bizzarro con il rossore del volto. Era anche
più massiccio, e il grasso gli ricadeva in pieghe pesanti sotto il
mento. Il ventre era prominente. La vivacità con cui si muoveva
rendeva vagamente allarmante la sua straordinaria corpulenza.
Il suo aspetto stava diventando terribile. Gli occhi avevano
ancora quello sguardo fisso, parallelo, ma ora vi si coglieva,
talvolta, un lampo di ferocia; Margaret era bella come sempre,
ma Susie notò che l’influenza del marito si notava soprattutto
nel modo di vestire; il suo abbigliamento aveva ormai varcato i
limiti del gusto personale, degenerando nell’eccentricità. La
gonna era decisamente troppo vistosa, e inadatta alla sua
bellezza classica. Susie rabbrividì, poiché le rammentava
l’abito di una cortigiana.
Margaret parlava e rideva come il marito, ma Susie non
capiva se tanta animazione fosse affettata o se dipendesse da
un’assoluta insensibilità. La sua voce sembrava abbastanza
naturale, eppure era inconcepibile che riuscisse a comportarsi
con tanta leggerezza. Forse cercava di dare a vedere che era
felice. La cena procedeva, e le luci, l’atmosfera gaia, lo
champagne
resero
tutti
più
vivaci.
Arbuthnot
era
spassosissimo. Raccontò un paio di storielle che fecero ridere
tutti. Oliver Haddo sfoderò un aneddoto divertente. Era un po’
spinto, ma lo raccontò talmente bene che tutti risero di cuore,
tranne Arthur, che rimase in silenzio assoluto. Margaret aveva
bevuto un bicchiere di vino dopo l’altro e, appena suo marito
ebbe finito, colmò la misura raccontando a sua volta una
storiella. Ma mentre quella di lui era spiritosa e immorale, la
sua era semplicemente volgare. In un primo momento le altre
donne non riuscirono a capire dove volesse andare a parare,
ma quando se ne resero conto abbassarono gli occhi sul piatto,
imbarazzate. Gli uomini risero di cuore, tranne Arthur, che
arrossì fino alla radice dei capelli. Si sentiva terribilmente a
disagio. Si vergognava. Non osava guardare Margaret. Era
inconcepibile che dalla sua bocca squisita potessero uscire
tante indecenze. Margaret, che pareva non rendersi conto
dell’effetto che aveva prodotto, continuò a parlare e a ridere.
Dopo un po’ si abbassarono le luci e l’agonia di Arthur ebbe
fine. Voleva fuggire, nascondere il volto, dimenticare la vista di
quella donna e la sua allegria. Soprattutto dimenticare quella
storiella. Era stato orribile, orribile.
Lei gli strinse la mano con disinvoltura.
«Vieni a trovarci, uno di questi giorni. Alloggiamo al
Carlton».
Egli fece un inchino, senza rispondere. Susie si era diretta al
guardaroba per riprendere il mantello. Era sulla porta quando
Margaret uscì dalla sala.
«Possiamo accompagnarti da qualche parte?» disse
Margaret. «Devi venire a trovarci quando non hai niente di
meglio da fare».
Susie accennò con la testa ad Arthur, lì davanti a loro con lo
guardo basso, completamente assente.
«Lo vedi?» disse a voce bassa, tremando per l’indignazione.
«Ecco come lo hai ridotto».
In quel momento egli alzò lo sguardo e rivolse loro i suoi
occhi infossati, tormentati. Esse videro il volto emaciato,
pallido, con quell’espressione disperata di dolore.
«Lo sai che si sta uccidendo per colpa tua? Non dorme la
notte. Ha sofferto le pene dell’inferno. Oh, spero che tu possa
soffrire quanto ha sofferto lui».
«Mi stupisce che tu mi rimproveri» disse Margaret. «Dovresti
essermi grata».
«Perché?».
«Non vorrai negare che lo ami appassionatamente dal primo
giorno in cui l’hai visto? Credi forse che a Parigi non mi sia
accorta di quel che provavi per lui? E anche adesso, lo ami più
che mai».
Susie sentì un’improvvisa stretta al cuore. Non immaginava
che il suo segreto fosse stato scoperto. Margaret scoppiò in
una risata amara e se ne andò.
12
Arthur Burdon trascorse due o tre giorni in uno stato di
estrema incertezza, ma alla fine l’idea che aveva in mente si
fece così pressante da mettere a tacere tutte le sue obiezioni.
Andò al Carlton e chiese di Margaret. Aveva saputo dal portiere
che Haddo era uscito, e contava quindi di trovarla da sola. Con
un semplice artificio evitò di farsi annunciare. Quando venne
introdotto nella sua stanza, trovò Margaret seduta con le mani
in mano.
«Mi avevi detto che potevo venire a trovarti» disse Arthur.
Lei si alzò senza rispondere e si fece mortalmente pallida.
«Posso sedermi?» domandò lui.
Gli fece cenno di sì con la testa. Per un attimo si guardarono
in silenzio. Arthur d’improvviso dimenticò tutto il discorso che
si era preparato. Quell’intrusione gli appariva intollerabile.
«Perché sei venuto?» disse lei, quasi aggressiva.
Entrambi capivano che era inutile sforzarsi di seguire le
convenzioni sociali. Era impossibile scambiare i garbati
complimenti che aiutano in una situazione delicata.
«Pensavo che forse avrei potuto fare qualcosa per te» rispose
lui con tono grave.
«Non ho bisogno di nulla. Sono perfettamente felice. Non ho
nulla da dirti».
Parlava in modo affrettato, con un certo nervosismo, e i suoi
occhi fissavano ansiosi la porta, quasi temesse che entrasse
qualcuno.
«Credo che abbiamo molto da dirci» insistette lui. «Se non è
il caso di parlare qui, perché non vieni a trovarmi?».
«Lo scoprirebbe» esclamò lei all’improvviso, come se le
parole le fossero strappate di bocca. «Credi che sia possibile
nascondergli qualcosa?».
Arthur la guardò. Il terrore negli occhi di lei lo fece
inorridire. Alla piena luce del giorno era chiaro quanto fosse
cambiata la sua espressione. Il volto era tirato, contratto;
Margaret aveva l’aria tipica di chi è ridotto in soggezione.
Arthur distolse lo sguardo.
«Voglio che tu sappia che non ti serbo alcun rancore. Nulla di
quel che farai potrà mai diminuire l’affetto che provo per te».
«Oh, perché sei venuto qui? Perché mi torturi dicendo queste
cose?».
Scoppiò in un pianto dirotto e prese a camminare
nervosamente per la stanza.
«Oh, se volevi punirmi per il dolore che ti ho provocato,
questo è il momento del tuo trionfo. Susie spera che anch’io
soffra le tue stesse pene. Se solo sapesse!».
Margaret proruppe in una risata isterica. Cadde in ginocchio
davanti ad Arthur e gli prese le mani.
«Credeva forse che non me ne fossi accorta? Il mio cuore
sanguinava alla vista del tuo povero volto scarno, dei tuoi occhi
tormentati. Oh, quanto sei cambiato! Non avrei mai creduto
che un uomo potesse mutare a tal punto in pochi mesi, e sono
io la causa di tutto. Oh, Arthur, Arthur, devi perdonarmi, devi
avere pietà di me!».
«Ma non c’è nulla da perdonare, mia cara» esclamò lui.
Lei lo guardò con coraggio. Gli occhi le risplendevano di una
luce dura.
«Tu lo dici, ma non lo pensi davvero. Se sapessi cosa ho
sopportato per colpa tua!».
Si sforzava di mantenere la calma.
«Che vuoi dire?» domandò Arthur.
«Lui non mi ha mai amata. Non avrebbe mai pensato a me se
non avesse voluto colpirti in ciò che ti era più caro. Ti odiava, e
ha fatto di me quel che sono solo per far soffrire te. Non sono
stata io ad agire così, ma un demonio dentro di me; non sono
stata io a mentirti, a lasciarti, a causare questa immensa
infelicità».
Si alzò in piedi con un profondo sospiro.
«Una volta ho creduto che stesse per morire e l’ho aiutato.
L’ho portato nel mio appartamento e gli ho offerto dell’acqua.
Con un potere oscuro è riuscito a imporsi su di me, ero come
cera nelle sue mani. Mi ha privato della volontà e ora sono
costretta a fare tutto ciò che mi ordina. E se cerco di
resistere...».
Aveva il volto distorto dal dolore e dalla paura.
«Dopo ho capito tutto. Ora so che quel giorno, quando
sembrava in punto di morte, si stava solo prendendo gioco di
me. Si era liberato di Susie con un telegramma, firmato con il
nome di una ragazza che aveva visto in fotografia. L’ho sentito
ridere senza ritegno per la sua astuzia».
D’un tratto Margaret si interruppe e un’espressione di
angoscia e di terrore le attraversò il viso.
«Per quanto ne so, può anche darsi che io stia dicendo queste
cose sotto la sua influenza: potrebbe causarti una sofferenza
ancora maggiore facendomi ammettere che non ha mai provato
nulla per me. Ora che sai che la mia vita è un inferno, la sua
vendetta è completa».
«Vendetta per cosa?».
«Non ricordi che una volta lo hai colpito, lo hai preso a calci
senza pietà? Io lo conosco bene, ormai. Avrebbe potuto
ucciderti, ma ti odiava troppo. Per lui è stato un piacere mille
volte più grande progettare questa tortura, per te e per me».
L’agitazione di Margaret era uno spettacolo penoso. Non
aveva mai rivelato quelle cose ad anima viva, e tutto ciò che
era stato tanto a lungo trattenuto dilagò, come dilagano le
acque da una diga. Arthur cercò di calmarla.
«Sei malata, sovraffaticata. Devi cercare di riprenderti. In
fondo Haddo è un essere umano, come tutti noi».
«Certo, tu hai sempre riso delle sue vanterie. Non volevi
ascoltare quello che diceva. Ma io so, anche se non riesco a
spiegarlo. Contro ogni buonsenso e ogni probabilità ho visto,
con questi occhi, cose che vanno al di là dell’umana
comprensione. Ti assicuro, i suoi poteri sono terrificanti. Quel
primo giorno, quando sono rimasta sola con lui, mi ha portata a
una specie di sabba. Non so di cosa si trattasse, ma ho visto
orrori, abietti orrori, che da allora tormentano senza tregua la
mia mente, come un veleno; e quando siamo stati a casa sua,
nello Staffordshire, ho riconosciuto la scena, ho riconosciuto
quelle rocce aride, gli alberi e le grandi distese di terra. Ho
compreso di essere già stata lì, in quel pomeriggio fatale. Oh,
devi credermi! A volte sono così atterrita che mi sembra di
impazzire».
Arthur taceva. Quelle parole gli fecero balenare nella mente
un tremendo sospetto, e riusciva a stento a controllarsi. Pensò
che uno shock doveva averle sconvolto la mente. Margaret
nascose il viso tra le mani.
«Ascoltami» disse lui. «Devi venire via subito. Non puoi
continuare a vivere con lui. Non devi tornare mai più a Skene».
«Non posso lasciarlo. Siamo legati, indissolubilmente».
«Ma è mostruoso. Nulla può tenerti legata a lui. Torna da
Susie. Lei sarà gentile con te. Ti aiuterà a dimenticare tutto
quel che hai patito».
«Non serve a nulla. Non puoi far niente per me».
«Perché no?».
«Perché, nonostante tutto, io lo amo con tutta l’anima».
«Margaret!».
«Lo odio. Mi fa ribrezzo. Eppure qualcosa, nel mio sangue, mi
attira verso di lui, contro la mia volontà. E la mia carne lo
chiama a gran voce».
Arthur distolse lo sguardo, imbarazzato. Non riuscì a frenare
un lieve, istintivo moto di repulsione.
«Ti disgusto?» domandò lei.
Egli arrossì appena, ma non sapeva cosa rispondere. Fece un
gesto vago di diniego.
«Se solo tu sapessi» disse Margaret.
C’era qualcosa di talmente insolito nel suo tono che egli le
lanciò uno sguardo sorpreso. Vide che aveva le guance in
fiamme, e ansimava quasi stesse per dar sfogo a un fiume di
lacrime.
«Per l’amor di Dio, non guardarmi!» gridò lei.
Si voltò e nascose il viso. Aveva parlato con voce innaturale,
piena di vergogna.
«Se tu fossi stato a Montecarlo, avresti sentito la gente dire,
e Dio solo sa come lo abbia saputo, che era per mio tramite
esclusivo che aveva fortuna al tavolo da gioco. Gode nel
conquistare al vizio la mia anima. Non c’è purezza in me. Sono
immonda nel profondo. Ha fatto di me un pozzo di iniquità e ho
schifo di me stessa. Non posso guardarmi senza un brivido di
disgusto».
Arthur sudava freddo e si fece ancora più pallido.
Comprendeva di essere in presenza di un mistero che non
poteva risolvere. Margaret continuò, febbrilmente.
«L’altra sera, a cena, ho raccontato una storiella e ho visto
sul tuo viso una smorfia di vergogna. Non ero io a raccontarla.
L’impulso era venuto da lui. Io sapevo che era oscena, eppure
l’ho raccontata con gusto. Mi è piaciuto; godevo del dolore che
ti davo e dello sgomento di quelle donne. È come se in me ci
fossero due persone; il mio vero essere, quello di un tempo, che
tu conoscevi e amavi, si va facendo di giorno in giorno più
debole e ben presto sarà morto, completamente. Resterà
soltanto un’anima lussuriosa in un corpo vergine».
Arthur si sforzò di mantenersi lucido. In quella situazione era
essenziale conservare una normale visione delle cose.
«Ma per l’amor di Dio, lascialo! Quel che mi hai raccontato ti
offre ogni appiglio per il divorzio. È aberrante. Quell’uomo
deve essere matto, da ricovero».
«Tu non puoi fare nulla per me» disse lei.
«Ma se non ti ama, perché ti vuole?».
«Non lo so, ma comincio a sospettarlo».
Margaret fissò Arthur negli occhi. Adesso era perfettamente
calma.
«Credo che voglia usarmi per una pratica magica. Non so se
sia pazzo, ma credo abbia intenzione di fare qualche
esperimento orribile e ha bisogno di me. E questa è la mia
salvezza».
«La tua salvezza?».
«Non mi uccide perché gli servo per quell’esperimento.
Forse, col tempo, riconquisterò la mia libertà».
Arthur era sconvolto dall’indifferenza con cui lei parlava. Le
si avvicinò e le mise le mani sulle spalle.
«Ascoltami, Margaret, devi tornare in te. Questa è follia. Se
non stai attenta, la tua mente cederà. Devi venire via con me,
adesso. Quando non sarai più in mano sua, ritroverai la
serenità. Non devi più vederlo. Se hai paura, potrai restare
nascosta; penseranno gli avvocati a regolare ogni cosa tra voi».
«Non ne ho il coraggio».
«Ma io ti prometto che non te ne verrà alcun male. Sii
ragionevole. Siamo a Londra, c’è gente ovunque intorno a noi.
Come puoi pensare che possa farti qualcosa mentre
attraversiamo in vettura delle strade affollate? Ti porterò
direttamente da Susie. Tra una settimana riderai di queste tue
inutili paure».
«E chi ti dice che non sia in questa stanza, proprio adesso, e
che non stia ascoltando tutto quello che dici?».
La domanda fu così improvvisa, così inaspettata, che Arthur
trasalì. Si guardò rapidamente attorno.
«Devi essere pazza. Lo vedi anche tu che questa stanza è
vuota».
«Ma se ti dico che non conosci tutti i suoi poteri! Hai mai
sentito quelle antiche leggende che le balie usavano per
spaventare i bambini, di uomini che si trasformano in lupi e
scorrazzano per la campagna di notte?». Lo guardò con gli
occhi sbarrati. «A volte, quando al mattino rientrava a Skene
con gli occhi iniettati di sangue, esausto per la fatica e con gli
abiti in disordine, ho immaginato che anche lui...». Si
interruppe e rovesciò la testa all’indietro. «Hai ragione, Arthur.
Credo che impazzirò».
Egli la guardò, impotente. Non sapeva cosa fare. Margaret
continuò, con la voce che tremava per l’angoscia.
«Quando ci siamo sposati, gli ho ricordato che aveva
promesso di portarmi da sua madre. Non ne parlava mai, ma
sentivo che dovevo conoscerla. Un giorno, senza preavviso, mi
disse di prepararmi per un viaggio. Fu un viaggio lungo, verso
un luogo che non conoscevo. Traversammo la campagna. Mi
sembrò di procedere per chilometri e chilometri, finché
arrivammo a una grande casa con le sbarre alle finestre,
circondata da un alto muro. Fummo introdotti in uno stanzone
disadorno. Era squallido e freddo come la sala d’attesa di una
stazione. Ci venne incontro un uomo alto, con una redingote e
gli occhiali cerchiati d’oro. Mi fu presentato come il dottor
Taylor. Allora, d’un tratto, capii».
Margaret parlava ansimando, con gli occhi sbarrati, come se
rivedesse quella scena che all’epoca le era sembrata il culmine
di tutti gli orrori vissuti.
«Capii che era un manicomio; Oliver non mi aveva mai detto
una sola parola. Il dottore ci guidò per un ampio scalone, lungo
un grande dormitorio – oh, se solo sapessi cosa ho visto lì! Ero
terrorizzata, non ero mai stata in un luogo simile –, fino a una
cella con le pareti e il pavimento imbottiti».
Margaret si passò la mano sulla fronte, come a scacciare il
ricordo di quella visione orrenda.
«Oh, ancora la vedo. Non riesco a togliermela dalla mente».
Ricordava con vivezza morbosa la strana massa informe in un
angolo della cella. Quando entrarono si mosse appena e
Margaret capì che si trattava di un essere umano. Era una
donna vestita di tela di sacco, alta e di una corpulenza
eccessiva, rivoltante. Volse verso di loro un viso enorme,
impassibile; era liscio, privo di rughe, con un’aria di
fanciullezza atrofizzata. I capelli erano scarmigliati, grigi, radi.
Ma quel che più terrorizzò Margaret fu la spaventosa
somiglianza con Oliver.
«Mi disse che era sua madre, e che era lì da venticinque
anni».
Arthur trovava quasi insopportabile il terrore che scorgeva
negli occhi di Margaret. Non sapeva cosa dirle. Dopo un po’, lei
riprese a parlare a bassa voce, rapidamente, come a se stessa,
torcendosi le mani.
«Oh, tu non sai cosa ho patito! Passava lunghi periodi lontano
da me e io restavo sola a Skene, sola, dal mattino alla sera, con
la mia miserevole paura. Talvolta sembrava prenderlo un
irrefrenabile gusto per i bassifondi e se ne andava a Liverpool o
a Manchester per confondersi con gente della peggior risma.
Passava giornate intere a bere in luride bettole. In quei
momenti niente era troppo abietto per lui. Amava la compagnia
dei criminali di bassa lega, fumava oppio in fetide tane! Oh,
non hai idea di quanto ami la depravazione! Alla fine tornava,
sporco, con gli abiti a brandelli, insozzato, intriso delle
prolungate gozzoviglie; e la sua bocca era ancora calda dei baci
delle donnacce del porto. Oh, è così crudele quando è vittima di
questi attacchi! Credo che provi un piacere demoniaco nel
vedere gli altri soffrire».
Era più di quanto Arthur potesse sopportare. La sua mente si
decise a un passo ardito. Vide sul tavolo una bottiglia di whisky
e dei bicchieri. Versò un po’ di liquore in un bicchiere e lo
porse a Margaret.
«Bevi» disse.
«Che cos’è?».
«Non ti preoccupare! Bevi subito».
Obbediente, lei lo portò alle labbra. Arthur le rimase vicino
mentre vuotava il bicchiere. Un calore improvviso la pervase.
«Ora vieni con me». La prese per un braccio e la guidò giù
per le scale. Attraversarono a passo svelto l’atrio. Una vettura
si era appena fermata davanti alla porta ed egli le ordinò di
salire. Un paio di persone trasecolarono nel vedere una donna
uscire dall’albergo con un ampio abito da pomeriggio e senza
cappello. Arthur dette al conducente l’indirizzo di casa di Susie
e si voltò verso Margaret. Era svenuta appena entrata nella
vettura.
Quando arrivarono, la prese in braccio per portarla di sopra e
la adagiò su un divano. Raccontò a Susie cosa era successo e
cosa voleva da lei. Quella cara donna dimenticò ogni cosa,
tranne che Margaret era molto malata, e gli assicurò che
avrebbe fatto tutto ciò che egli desiderava.
Per una settimana Margaret non fu in grado di viaggiare.
Arthur affittò un piccolo cottage nell’Hampshire, davanti
all’isola di Wight, sperando che in quello scenario, tra i più
ameni e incantevoli d’Inghilterra, ella avrebbe presto
recuperato le forze. E, non appena fu possibile, Susie
l’accompagnò. Ma era molto mutata. La sua gaiezza era
scomparsa, e con essa la determinazione. Benché la sua
malattia non fosse stata né lunga né grave, Margaret sembrava
esaurita, fisicamente e mentalmente, come se per mesi fosse
stata in punto di morte. Non provava alcun interesse per ciò
che la circondava, ed era indifferente ai vialetti ombrosi, agli
alberi così leggiadri, ai prati. La sua antica passione per la
bellezza era scomparsa, e non si curava né dei fiori che
crescevano nel loro piccolo giardino, né degli uccelli che
cantavano senza posa. A un certo punto sembrò giunto il
momento di parlare del futuro. Margaret accettava tutto quel
che le veniva suggerito e fu d’accordo sui passi da
intraprendere per liberarsi da Oliver Haddo. Apparentemente
egli non fece alcun tentativo di rintracciarla. Non avevano sue
notizie. Non sapeva dove fosse Margaret, ma doveva aver
intuito che il responsabile della sua fuga era Arthur. E Arthur
era facile da scovare. Susie trovava vagamente inquietante che
Haddo non desse segni di vita. Avrebbe voluto che Arthur non
fosse trattenuto a Londra dal suo lavoro.
Alla fine, la causa di divorzio fu istruita.
Due giorni dopo, mentre era in ambulatorio, Arthur si vide
consegnare il biglietto da visita di Haddo. La sua mascella si
indurì.
«Lo faccia entrare» ordinò.
Quando Haddo fece il suo ingresso, Arthur, con le spalle al
camino, gli fece cenno di sedersi.
«Cosa posso fare per lei?» gli chiese freddamente.
«Mio caro Burdon, non sono venuto per avvalermi delle sue
doti di chirurgo» sorrise Haddo, lasciandosi cadere
pesantemente su una poltrona.
«Lo immaginavo».
«La sua perspicacia mi stupisce. Suppongo di dovere a lei
questa divertente convocazione che mi è stata consegnata
ieri».
«L’ho fatta entrare solo per dirle che non parlerò con lei se
non per tramite dei miei avvocati».
«Mio caro amico, perché mi tratta con tanta scortesia? È vero
che lei mi ha privato della mia sposa adorata, ma quanto meno
potrebbe rispettare i miei diritti di marito e trattarmi con
civiltà».
«La mia pazienza non è più quella di un tempo» rispose
Arthur. «Mi permetto di rammentarle che soltanto una volta ho
perso il controllo con lei, e non credo ne abbia gradito le
conseguenze».
«Suvvia, Burdon, pensavo che ormai fosse pentito di
quell’episodio» rispose Haddo, per nulla imbarazzato.
«Ho poco tempo a disposizione» disse Arthur.
«Allora vengo al punto, senza indugio. Le interesserà sapere
che intendo presentare un ricorso contro mia moglie e citarla
come corresponsabile».
«Infame mascalzone!» gridò Arthur, furioso. «Lei sa bene
quanto me che sua moglie è al di sopra di ogni sospetto!».
«Io so che ha lasciato il mio albergo in sua compagnia, e che
da quel momento vive sotto la sua protezione».
Arthur si fece livido per la rabbia; si tratteneva a stento dal
colpirlo. Scoppiò in una risatina.
«Può fare quel che vuole. Non mi spaventa».
«Gli innocenti sono sempre così incauti. Le assicuro che
inventerò una storia che le rovinerà la carriera e la costringerà
a rinunciare agli incarichi nei vari ospedali che onora della sua
collaborazione».
«Lei dimentica che il caso non viene giudicato
pubblicamente» disse Arthur.
Haddo lo guardò fisso negli occhi. Per un momento non
rispose.
«Ha ragione» disse infine con un sorrisetto. «L’avevo
dimenticato».
«Quindi, non credo di doverla trattenere oltre».
Oliver Haddo si alzò e, con fare pensoso, si passò la mano sul
volto enorme. Arthur lo osservò con occhi sprezzanti. Sfiorò un
campanello, e apparve immediatamente una domestica.
«Accompagni fuori il signore».
Per nulla sconcertato, Haddo si diresse tranquillamente verso
la porta.
Arthur tirò un sospiro di sollievo; era giunto alla conclusione
che Haddo non avrebbe dato battaglia. Secondo il suo avvocato
Oliver non avrebbe nemmeno provato a difendersi.
Margaret sembrava lentamente interessarsi sempre più alla
causa e non vedeva l’ora di tornare libera. Non indietreggiava
dinanzi alla spiacevole prova di un processo. Ora parlava di
Haddo con compostezza. I suoi amici si convinsero che di lì a
breve sarebbe tornata quella di un tempo, perché andava
facendosi più forte, più allegra. La sua risata incantevole
echeggiava per la casetta, proprio come nell’appartamento di
Parigi. L’udienza era fissata per la fine di luglio, prima delle
vacanze, e Susie aveva accettato di portare Margaret all’estero,
alla fine di tutto.
Ma, improvvisamente, vi fu in Margaret un cambiamento.
Con l’avvicinarsi del processo, si faceva più emotiva, turbata; la
sua gaiezza l’aveva abbandonata. Cadeva in lunghi, umorali
silenzi. Tutto ciò era in parte comprensibile, giacché avrebbe
dovuto rivelare a degli estranei i dettagli più intimi della sua
vita coniugale, ma alla fine il suo nervosismo divenne talmente
evidente che Susie non poté più attribuirlo a cause naturali.
Ritenne necessario scrivere ad Arthur per informarlo.
«Mio caro Arthur,
«non so proprio come comportarmi con Margaret. Vorrei che
venisse a trovarla. Il buonumore che ultimamente avevo notato
in lei ha lasciato il posto a una strana irritabilità. È talmente
inquieta che non riesce a star ferma un attimo. Anche quando è
seduta, il suo corpo si muove in modo quasi convulso. Comincio
a pensare che la tensione le abbia procurato qualche disturbo
nervoso e sono davvero allarmata. Vaga per la casa senza uno
scopo, sale e scende le scale, va e viene dal giardino. Si è fatta
improvvisamente più silenziosa e le è tornata negli occhi
quell’espressione che aveva quando l’abbiamo portata qui. Se
la prego di dirmi cosa la turba, risponde: “Ho paura che stia
per accadere qualcosa”, ma non vuole, o non sa, spiegare cosa
intende dire. Le ultime settimane mi hanno logorato i nervi e
ora non capisco quanto quel che noto sia reale, e quanto frutto
della mia fantasia. Ma vorrei che lei venisse a infondermi un
po’ di coraggio. La stranezza di questa situazione mi mette a
disagio e sono presa da timori incontrollabili. Deve esserci
qualcosa in Haddo che mi ispira questa indicibile paura. È
sempre presente nei miei pensieri. Mi pare di vedere i suoi
occhi spaventosi e quel suo sorriso freddo, sensuale. Mi sveglio
di notte con il cuore che batte come impazzito e la
consapevolezza che sia accaduto qualcosa di terribile.
«Oh, vorrei tanto che il processo fosse terminato e che io e
Margaret fossimo già, felici, in Germania.
Con affetto,
Susan Boyd».
Susie andava orgogliosa del suo buonsenso e la umiliava
scoprirsi con i nervi a pezzi. Era preoccupata e infelice. Non
era stato facile riammettere Margaret nel suo cuore, come se
nulla fosse accaduto. Susie era un essere umano e, sebbene
facesse molto più di quel che era logico aspettarsi da lei,
provava una punta di irritazione per il fatto che Arthur la
sacrificasse con tanta disinvoltura. In lui non c’era spazio per
altri pensieri e gli pareva del tutto naturale che Susie dovesse
dedicarsi totalmente al benessere di Margaret.
Susie fece un po’ di strada per imbucare la lettera, poi rientrò
nella sua stanza. Era una serata meravigliosa, stellata e
tranquilla, e il silenzio era un balsamo per le sue afflizioni.
Rimase a lungo seduta alla finestra e infine, rasserenata, andò
a letto. Dormì più profondamente di quanto non le accadeva da
giorni. Quando si risvegliò, il sole inondava la stanza e lei tirò
un profondo sospiro di piacere. Dal letto vedeva gli alberi e il
cielo
azzurro.
Sembrava
più
facile
sopportare
le
preoccupazioni, quando il mondo era così bello, ed era pronta a
ridere dei timori che tanto l’avevano turbata.
Si alzò, indossò una vestaglia e andò nella stanza di
Margaret. Era vuota. Nel letto non aveva dormito nessuno, e
sul cuscino c’era un biglietto.
«Basta. Non ce la faccio. Sono tornata da lui. Non
preoccupatevi più di me. È tutto inutile. La situazione è senza
speranza.
M».
Susie rimase senza fiato. Il suo primo pensiero andò ad
Arthur; emise un gemito di dolore perché sarebbe di nuovo
precipitato nell’angoscia e nella desolazione. Ancora una volta
toccava a lei dargli quella terribile notizia. Si vestì in fretta e
fece una rapida colazione. Non c’erano treni fin quasi alle
undici e doveva frenare la sua impazienza come meglio poteva.
Alla fine, giunta l’ora della partenza, infilò i guanti. In quel
momento la porta si aprì ed entrò Arthur. Susie lanciò un grido
di terrore e impallidì.
«Stavo giusto per venire a Londra da lei» disse con voce
spezzata. «Come l’ha scoperto?».
«Stamattina presto Haddo mi ha mandato una scatola di
cioccolatini con un biglietto: “Credo proprio che lo scherzetto
sia opera mia”».
Il gusto crudele per la vendetta, unito alla passione infantile
di prendersi gioco del nemico sconfitto, era una sua
caratteristica. Susie consegnò ad Arthur il biglietto trovato
nella stanza di Margaret. Egli lo lesse, e rimase a lungo
pensoso.
«Temo che Margaret abbia ragione» disse alla fine. «È una
situazione senza speranza. Quell’uomo ha su di lei un potere
misterioso che noi non possiamo contrastare».
Susie si domandò se Arthur non stesse perdendo il suo
radicato scetticismo. La sensazione che il controllo di Oliver su
Margaret avesse qualcosa di soprannaturale le era
insopportabile. Non c’era ombra di dubbio che egli potesse
influenzare la moglie anche da lontano e ormai Susie era
convinta che l’inquietudine degli ultimi giorni dipendesse da
questo misterioso potere. In qualche strano modo, egli aveva
agito e Margaret se ne era resa conto. Alla fine non aveva
potuto resistere e d’istinto era andata da lui: la sua volontà non
c’entrava nulla, come quando un frammento di ferro viene
attirato da una calamita.
«Non trovo nel mio cuore nessuna ragione per incolparla di
ciò che ha fatto» disse Susie. «Credo sia vittima di un destino
infausto. Non posso fare a meno di credere che egli le abbia
fatto un incantesimo e che tutto quel che è accaduto dipenda
da questo. Provo solo pietà per la sua grande sventura».
«Ma ha pensato a quel che accadrà quando sarà nelle mani di
Haddo?» esclamò Arthur. «Lei sa quanto me come possa essere
vendicativo e crudele. Mi sanguina il cuore quando penso alle
torture, vere torture fisiche, che potrà patire».
Andava avanti e indietro, in preda alla disperazione.
«Eppure non c’è nulla da fare, non si può andare alla polizia e
raccontare che un uomo ha fatto un incantesimo a sua moglie».
«Allora ci crede anche lei?» disse Susie.
«Ormai non so più a cosa credere» esclamò lui. «Dopotutto,
siamo impotenti se lei decide di tornare da suo marito. Almeno
in apparenza è padrona di se stessa». Si torceva le mani. «E io
sono bloccato a Londra, non posso assentarmi neanche per un
giorno. Non dovrei essere qui, in questo momento, e tra un
paio d’ore dovrò ripartire. Non posso far nulla, anche se ho la
certezza che Margaret stia correndo un tremendo pericolo».
Susie rimase in silenzio per un paio di minuti. Si chiedeva
come avrebbe preso l’idea che le era venuta in mente.
«Sa, credo che i metodi ordinari siano inutili. L’unica
speranza è lottare contro di lui con le sue stesse armi. Le
dispiacerebbe se andassi a Parigi per consultare il dottor
Porhoët? Lei sa che è esperto di scienze occulte, e forse
potrebbe aiutarci».
Ma Arthur si ricompose.
«È assurdo. Non dobbiamo lasciar spazio alla superstizione.
Haddo è semplicemente un mascalzone e un ciarlatano. Ci ha
logorato i nervi, come ha logorato quelli della povera Margaret.
È illogico supporre che abbia poteri superiori a quelli della
gente comune».
«Nonostante tutto ciò che ha visto con i suoi occhi?».
«Se i miei occhi mi mostrano cose che la mia esperienza
ritiene impossibili, posso soltanto dedurne che i miei occhi mi
stanno ingannando».
«Bene, io vado a Parigi».
13
Alcune settimane dopo il dottor Porhoët era seduto tra i suoi
libri, nella tranquilla stanza dal soffitto basso che dava sulla
Senna. Si era abbandonato a una piacevole malinconia. Il caldo
opprimeva le strade rumorose di Parigi, e il frastuono della
metropoli penetrava persino nella sua fortezza sull’Île SaintLouis. Ripensava al cielo plumbeo della sua terra natia, e al
vento di sud-ovest che soffiava fresco e salmastro. Le lunghe
strade di Brest, sempre stillanti di pioggia nella sua fantasia,
con le luci dei caffè che si riflettevano sui marciapiedi bagnati,
avevano un fascino familiare. Persino con il brutto tempo si
provava un curioso senso di consolazione vedendo i marinai
camminare stancamente. C’era un gusto speciale nell’odore del
mare, nella libertà dell’immenso Atlantico. E poi egli pensò ai
sentieri erbosi, ai campi di erica profumata, alle belle strade
ampie che collegavano le dolci cittadine, ai pardons con le loro
folle garbate, tristi. Il dottor Porhoët sospirò.
«È bello essere nati in Bretagna» sorrise.
La sua bonne fece entrare Susie ed egli si alzò, andandole
incontro con un sorriso. Susie era a Parigi da qualche tempo e
si vedevano spesso. Il dottore si crogiolava nell’amabile
simpatia con cui ella si interessava a tutte quelle materie
astruse e bizzarre alle quali egli dedicava il suo tempo; e,
intuendo l’amore di lei per Arthur, ammirava il coraggio con
cui annullava se stessa. Avevano preso l’abitudine di mangiare
insieme in un posticino tranquillo di fronte all’Hôtel de Cluny,
La Reine Blanche. Lì avevano parlato di così tante cose che la
loro conoscenza si era trasformata in una piacevole amicizia.
«Mi vergogno un po’ di venire qui tanto spesso» disse Susie
entrando. «Matilde comincia a guardarmi con sospetto».
«Lei è molto buona a far compagnia a un vecchio noioso»
sorrise lui, tendendole la mano. «Sarei stato contrariato se
avesse dimenticato la promessa di venire questo pomeriggio,
perché ho molte cose da dirle».
«Me le dica subito» disse lei, sedendosi.
«Stamattina, alla biblioteca dell’Arsenal, ho scoperto un
manoscritto di cui nessuno sapeva nulla».
Pronunciò queste parole con aria trionfante, come se
l’impresa fosse d’importanza nazionale; Susie provava
tenerezza per questa sua innocente mania e, pur sapendo che
l’opera in questione era occulta e incomprensibile, si
congratulò di cuore con lui.
«È la copia originale di un’opera di Paracelso; non l’ho ancora
letta, perché la scrittura è molto difficile da decifrare, ma un
punto ha catturato la mia attenzione mentre la sfogliavo: il
particolare raccapricciante che Paracelso nutrisse gli
homunculi da lui creati con sangue umano. Chissà come se lo
procurava».
Il dottor Porhoët notò che Susie trasaliva.
«Che le succede?».
«Nulla» si affrettò a rispondere lei.
Egli la guardò per un attimo, poi riprese quel discorso che
esercitava su di lui un fascino oscuro.
«Un giorno deve venire con me alla biblioteca dell’Arsenal.
Non esiste al mondo collezione più ricca di libri sulle scienze
occulte. E, naturalmente, lei saprà che all’Arsenal si riuniva il
tribunale, dal suggestivo nome di Chambre ardente, che
trattava i casi di stregoneria e magia».
«Lo ignoravo» sorrise Susie.
«Ho sempre pensato che questi manoscritti e questi strani
libri antichi, orgoglio della nostra biblioteca, siano serviti
all’epoca in più di un processo. Ci sono volumi dall’aspetto
innocente che hanno fatto impiccare uomini sventurati, e altri
ne hanno mandati al rogo. Non crederebbe mai quante persone
facoltose, di rango e intelligenza, durante il grande regno di
Luigi XIV, si dedicarono a questi esperimenti diabolici».
Susie non rispose. Ormai le era impossibile affrontare con
indifferenza quegli argomenti. Tutto poteva avere una qualche
attinenza con le circostanze di cui aveva discusso innumerevoli
volte con il dottor Porhoët. Non era mai riuscita a inchiodarlo a
una dichiarazione di fede. Erano manifestamente accadute
alcune cose strane, ma egli si limitava a spiegarle con queste
parole: chi può dirlo? Le offriva paragoni tratti dalla sua ricca
memoria. Le dava libri da leggere, finché fu satura di scienze
occulte. In certi momenti era quasi pronta a buttarli via tutti,
spazientita; in altri, era disposta a credere che fosse tutto
possibile.
Il dottor Porhoët si alzò in piedi e sollevò un dito, con aria
meditabonda. Parlava con quel piacevole tono accademico che
nei primi tempi della loro conoscenza l’aveva affascinata,
perché contrastava assurdamente con le sue fantasiose
affermazioni.
«Era uno strano sogno quello inseguito da questi maghi.
Volevano farsi amare da chi amavano e vendicarsi di chi
odiavano; ma, soprattutto, cercavano di diventare più grandi
degli uomini comuni e di esercitare il potere degli dèi. Non
esitavano davanti a nulla pur di raggiungere il loro scopo, ma
la natura difficilmente consente che le siano strappati i suoi
segreti. Invano essi accendevano le loro fornaci, e invano
studiavano i loro astrusi libri, richiamavano i morti ed
evocavano gli spiriti. Altra ricompensa non avevano se non
disappunto e sventura, povertà, spregio da parte degli uomini,
tortura, prigionia e una morte ignominiosa. Eppure, in fondo,
potrebbe esserci qualche frammento di verità celato nel buio».
«Lei non va mai oltre quel che la cautela consente» disse
Susie. «Non esprime mai un’opinione precisa».
«In simili questioni è sempre meglio non avere un’opinione
definita» sorrise lui stringendosi nelle spalle. «Se un saggio
studia le scienze occulte, è suo dovere non ridere di nulla, ma
cercare con pazienza, senza fretta, con perseveranza, la verità
che può nascondersi nella tenebra di queste illusioni».
Aveva appena pronunciato queste parole che Matilde, la
vecchia bonne, aprì la porta per far entrare un visitatore. Era
Arthur Burdon. Susie emise un’esclamazione di sorpresa,
perché un paio di giorni prima aveva ricevuto da lui un breve
biglietto in cui non faceva parola dell’intenzione di attraversare
la Manica.
«Sono contento di trovarvi qui tutti e due» disse Arthur,
mentre stringeva loro la mano.
«È successo qualcosa?» esclamò Susie.
I suoi modi erano insolitamente inquietanti, e i suoi
movimenti rivelavano un nervosismo inatteso in una persona
tanto controllata.
«Ho rivisto Margaret» disse.
«Ebbene?».
Sembrava incapace di proseguire, eppure entrambi sapevano
che aveva qualcosa di importante da dire. Li guardò con aria
assente, come se d’un tratto avesse dimenticato tutto quello
che doveva dire.
«Sono venuto direttamente qui» disse con tono frastornato,
piatto. «Prima sono passato al suo albergo, Susie, sperando di
trovarla; ma quando mi hanno detto che era uscita, ho capito
che l’avrei certamente trovata qui».
«Mi sembri esausto, cher ami» disse il dottor Porhoët,
guardandolo. «Permetti che Matilde ti porti una tazza di
caffè?».
«Sì, gradirei qualcosa» rispose lui con un’espressione di
profondo sfinimento.
«Accomodati e riposa per qualche minuto, poi ci dirai quel
che vuoi».
Il dottor Porhoët non vedeva Arthur dall’anno precedente, da
quel pomeriggio in cui, a seguito del telegramma di Haddo, si
era recato nell’appartamento di rue Campagne-Première. Lo
scrutò, ansioso, mentre beveva il caffè. Il cambiamento
avvenuto in lui era straordinario; c’era sul suo volto una
prostrazione mortale, gli occhi erano infossati nelle orbite. Ma
quel che più allarmò il buon dottore fu il fatto che la
personalità di Arthur sembrava completamente alterata. Le
sofferenze patite in quei nove mesi gli avevano strappato ogni
determinazione, e anche la pragmatica sicurezza che lo aveva
sempre contraddistinto. Ormai era completamente privo di
equilibrio, nevrotico.
Arthur non parlava. Con gli occhi cupi, fissi a terra, si
chiedeva quanto sarebbe riuscito a raccontare. Era sconvolto
all’idea di svelare i suoi pensieri più intimi, eppure era ormai
allo stremo e aveva bisogno dei consigli del dottor Porhoët.
Doveva affrontare situazioni che potevano esistere solo in un
mondo d’incubo e si vedeva costretto a ricorrere alla
particolare scienza del suo amico.
Rientrato a Londra dopo la fuga di Margaret, Arthur Burdon
si era di nuovo gettato nel lavoro, che tanto a lungo era stata la
sua unica consolazione. Aveva perso ogni interesse per la sua
attività, ma nonostante tutto sgobbava senza posa, come un
automa, nel tentativo di soffocare l’angoscia. Col passare del
tempo, però, fu preso da un misterioso senso di premonizione,
al quale non riusciva in alcun modo a resistere; si faceva
sempre più forte, finché raggiunse la potenza di un’ossessione
e Arthur non fu più in grado di liberarsene con il semplice
ragionamento. Era sicuro che un grande pericolo minacciasse
Margaret. Non sapeva di cosa si trattasse, né perché il timore
fosse così persistente, ma quell’idea era sempre lì, notte e
giorno; lo accompagnava ovunque, come un’ombra, e lo
perseguitava come il rimorso. La sua ansia non faceva che
crescere e l’indeterminatezza del suo terrore la rendeva ancora
più tormentosa. Era pressoché certo che Margaret corresse un
pericolo immediato, ma non sapeva come aiutarla. Supponeva
che Haddo l’avesse ricondotta a Skene ma, anche se ci fosse
andato, non avrebbe avuto nessuna possibilità di vederla.
L’assenza del suo superiore al St. Luke rendeva tutto ancora
più difficile ed egli era costretto a restare a Londra nel caso lo
chiamassero d’urgenza per qualche intervento. Ma non riusciva
a pensare ad altro. Sentiva il bisogno impellente di vedere
Margaret. Notte dopo notte sognava che era in punto di morte
e lui non poteva neanche tendere una mano per aiutarla,
perché pesanti catene glielo impedivano. Alla fine non
resistette più. Disse a un collega che questioni private lo
costringevano a lasciare Londra e affidò a lui il suo lavoro.
Senza nessun piano, ma spinto semplicemente da un impulso
oscuro, partì per il villaggio di Venning, che si trovava a circa
cinque chilometri da Skene.
Era un paesino minuscolo, con un unico locale pubblico che
fungeva anche da albergo per i rari viaggiatori che dovevano
fermarsi lì, e Arthur sentì che era necessario giustificare in
qualche modo la sua presenza. Poiché alla stazione aveva
notato l’annuncio di una fattoria da affittare, soddisfece la
curiosità della locandiera spiegando che era venuto a vederla.
Era arrivato a notte fonda, e non potendo far nulla per il
momento, sfruttò quel tempo cercando di scoprire qualcosa
sugli Haddo.
Oliver era il signorotto locale, e la sua ricchezza sarebbe
bastata
a
farne
ovvio
argomento
di
conversazione
indipendentemente dalla sua eccentricità. La locandiera non
esitò a definirlo un pazzo e, per dare un esempio della sua
stranezza, raccontò a uno sgomento Arthur che, per volontà di
Haddo, la servitù non poteva dormire nella casa padronale.
Dopo cena, tutti dovevano tornare nei vari cottage del parco,
ed egli restava solo con sua moglie. Era terribile il pensiero che
Margaret potesse essere nelle mani di un folle, senza neppure
un’anima a proteggerla. Di fatto, fu l’unica informazione
concreta che riuscì a scoprire, ma in compenso venne a sapere
molte cose significative. Con suo stupore, in quel luogo
solitario era tornato a diffondersi l’atavico timore per la magia,
e la loquace donna gli parlò in tono serio del maligno influsso
di Haddo sulle messi e sul bestiame dei contadini che avevano
suscitato la sua ira. Aveva avuto un alterco con il suo
mezzadro, e questi era morto entro l’anno. Un piccolo
proprietario terriero della zona si era rifiutato di vendergli un
appezzamento che avrebbe ampliato i possedimenti di Skene, e
un morbo aveva contagiato tutti gli animali della sua fattoria,
riducendolo in miseria. Arthur rimase colpito perché, pur
raccontandole con ironico scetticismo, come fossero ciance di
vecchie e di ingenui contadinotti, la donna credeva a queste
storie e ne era terrorizzata. Era innegabile che Haddo avesse
ottenuto le terre che voleva: quando vennero messe all’asta,
non ci fu nessuna offerta ed egli se le aggiudicò per due soldi.
Non appena fu possibile farlo senza destare sospetti, Arthur
chiese di Margaret. La locandiera si strinse nelle spalle.
Nessuno ne sapeva nulla. Non varcava mai le porte di Skene,
ma a volte la si vedeva vagare tutta sola nel parco. Non
incontrava nessuno. Haddo era da lungo tempo in lite con i
gentiluomini dei dintorni e, sebbene l’anziana madre di un
proprietario terriero locale si fosse presentata a far visita a
Margaret i primi tempi dopo il suo arrivo, non era stata
ammessa alla sua presenza e la cortesia non era stata mai
restituita.
«Non ne verrà niente di buono per lei, povera signora» disse
la proprietaria della locanda. «E pensare che dicono che è bella
come un quadro».
Arthur si ritirò nella sua stanza. Aspettava con ansia che
facesse giorno. Non c’era un modo sicuro per vedere Margaret.
Era inutile presentarsi alle porte del parco, perché persino i
fornitori erano costretti a lasciare la merce nella guardiola dei
custodi. Ma, a quanto pareva, Margaret passeggiava da sola
mattina e pomeriggio, e forse sarebbe riuscito a vederla.
Arthur decise di introdursi nel parco per cercare di incontrarla
in un punto da cui fosse impossibile essere scoperti.
Il giorno successivo, il grande caldo dell’ultima settimana si
era attenuato e il cielo malinconico era scuro e coperto di
nuvole basse. Arthur si informò sulla strada e si dispose a
percorrere a piedi i cinque chilometri che lo separavano da
Skene. La campagna era grigia e spoglia. C’era una vasta
distesa di brughiera disseminata di rocce gigantesche, come se
in tempi preistorici i titani avessero combattuto in quel luogo
un’immane battaglia. Qua e là c’erano degli alberi, che non
sembravano in grado di sopportare i forti venti invernali; erano
vecchi e piegati dalle tempeste. Uno, in particolare, attrasse
l’attenzione di Arthur. Era stato colpito da un fulmine ed era
spaccato in due, spoglio; ma i rami mutili erano disposti in
maniera strana sul tronco, dandogli l’aspetto di un essere
umano contorto nei tormenti di un’infernale agonia. Il vento
soffiava in un modo inquietante. Il cuore di Arthur sprofondò
mentre egli camminava. Mai aveva visto un luogo tanto
desolato.
Giunse infine alle porte del parco e vi si fermò davanti per un
po’. In fondo al lungo viale, tra gli alberi, riusciva a scorgere
una parte di una splendida casa. Camminò lungo la palizzata di
legno che circondava la tenuta. D’improvviso notò un punto in
cui una tavola era stata abbattuta. Guardò da una parte e
dall’altra: sulla strada non c’era nessuno. Arthur si arrampicò
sul basso e ripido terrapieno, divelse un altro pezzo di palizzata
e scivolò dentro.
Si ritrovò in una folta boscaglia. Non c’era l’ombra di un
sentiero ed egli avanzò con cautela. Le felci erano talmente alte
e fitte da nasconderlo alla vista. Gli antichi proprietari, ormai
defunti, avevano chiaramente dedicato molte cure alla tenuta,
poiché era l’unico luogo in tutto il circondario dove c’erano
alberi in abbondanza; negli ultimi tempi, tuttavia, la proprietà
era stata decisamente trascurata. Si era inselvatichita a tal
punto che ormai non c’erano tracce della disposizione formale
di un tempo, ed era talmente arduo aprirsi un varco tra la fitta
vegetazione che quasi pareva di trovarsi in un residuo di
foresta primordiale. Arthur giunse finalmente a un sentiero
erboso e lo percorse lentamente. Sentendo un rumore si fermò
di colpo, ma era solo un fagiano che volava pesante tra gli
alberi bassi. Arthur si chiese cosa avrebbe fatto se si fosse
trovato faccia a faccia con Oliver. La locandiera gli aveva
assicurato che il padrone usciva di rado e trascorreva le sue
giornate nella grande soffitta della casa. Dai comignoli usciva
fumo anche nei giorni più caldi dell’estate, e si raccontavano
strane storie sulle diavolerie che venivano commesse lassù.
Arthur continuò, sperando di poter prima o poi scorgere
Margaret, ma non vide nessuno. In quella giornata grigia e
fredda i boschi, nonostante il verde, erano desolati e tristi. Un
cupo mistero sembrava aleggiare su di essi. Arthur giunse
infine a una panchina di pietra sotto gli alberi, dove il sentiero
ne incrociava un altro, e poiché era l’unico punto di sosta che
aveva visto, gli venne in mente che forse Margaret sarebbe
andata a sedersi lì. Si nascose tra le felci. Aveva dimenticato
l’orologio e non sapeva quanto tempo fosse passato. Gli
sembrava di essere lì da ore.
A un certo punto il cuore gli balzò contro le costole, perché
d’improvviso, tanto silenziosamente che non l’aveva sentita
avvicinarsi, gli apparve Margaret, che sedette sulla panchina di
pietra. Per un attimo egli non osò muoversi, temendo che il
rumore la spaventasse. Non sapeva come rivelare la sua
presenza, ma era necessario far qualcosa per attirare
l’attenzione di lei, e poteva soltanto sperare che non gridasse.
«Margaret» la chiamò sottovoce.
Ella non si mosse e lui ripeté il nome, più forte. Ma ancora
nessun segno che l’avesse udito. Uscì allo scoperto e le si
piantò dinanzi.
«Margaret».
Lei lo guardò, tranquilla. Era come se non l’avesse mai visto,
eppure dal suo atteggiamento pareva che si aspettasse di
vederlo lì.
«Margaret, non mi riconosci?».
«Cosa vuoi?» gli rispose, serena.
Ne fu talmente sorpreso che rimase senza parole. Lei
continuava a fissarlo. D’un tratto la sua calma svanì e Margaret
balzò in piedi.
«Sei davvero tu?» gridò, fuori di sé dall’agitazione. «Pensavo
fosse solo un’ombra che ti somigliava».
«Che vuoi dire, Margaret? Cosa ti è successo?».
Lei tese una mano e lo toccò.
«Sono proprio io, in carne e ossa» disse lui, sforzandosi di
sorridere.
Lei chiuse gli occhi per un momento, come cercando di
raccogliere le forze.
«Ultimamente ho avuto delle allucinazioni» sussurrò.
«Pensavo di essere vittima di un qualche trucco».
Si riscosse di colpo.
«Ma cosa fai qui? Devi andare via. Come sei entrato? Oh,
perché non mi lasci in pace?».
«Avevo la tormentosa sensazione che stesse per accaderti
qualcosa di orribile. Non ho potuto fare a meno di venire».
«Per l’amor di Dio, va’ via! Non puoi fare nulla. Se scopre che
sei stato qui...».
Si interruppe, gli occhi dilatati per la paura. Arthur le prese
le mani.
«Non posso andare via, Margaret, non posso lasciarti così...
Per l’amor di Dio, dimmi cosa succede, sono terrorizzato».
Era inorridito dal mutamento avvenuto in lei negli ultimi due
mesi. Il colore era scomparso dalle sue guance e il volto aveva
il pallore della morte. C’erano strane rughe sulla sua fronte e
gli occhi avevano uno scintillio innaturale. La giovinezza
l’aveva improvvisamente abbandonata. Sembrava fosse stata
colpita da una malattia fatale.
«Cosa ti succede?» domandò Arthur.
«Nulla». Si guardò attorno con ansia. «Oh, perché non te ne
vai? Come puoi essere così crudele?».
«Devo fare qualcosa per te» insistette lui.
Lei scosse il capo.
«È troppo tardi, nulla può aiutarmi». Si interruppe e, quando
riprese a parlare, la sua voce era così spettrale che pareva
uscire dalle labbra di un cadavere. «Ho finalmente scoperto
cosa intende fare con me. Gli servo per il suo grande
esperimento e ormai manca poco».
«Cosa significa che gli servi?».
«Vuole... la mia vita».
Arthur lanciò un grido di sgomento, ma lei alzò una mano.
«È inutile resistere. Non serve a nulla. Credo che sarò felice
quando arriverà il momento. Almeno smetterò di soffrire».
«Devi essere pazza».
«Non lo so, ma so che lui lo è».
«Ma se la tua vita è in pericolo, per l’amor di Dio, vieni via.
Dopotutto sei libera, non può fermarti».
«Sarei costretta a tornare da lui, come è successo l’ultima
volta» rispose lei scuotendo la testa. «Allora pensavo di essere
libera, ma a poco a poco ho capito che mi stava chiamando. Ho
cercato di resistere, ma non ce l’ho fatta. Dovevo andare da lui,
punto e basta».
«È spaventoso saperti sola con un uomo che praticamente è
matto da legare».
«Per il momento sono salva» disse lei tranquillamente.
«L’esperimento si può fare solo quando c’è molto caldo. Se non
farà più un caldo intenso quest’anno, vivrò fino alla prossima
estate».
«Margaret, per l’amor di Dio, non parlare così. Io ti amo.
Voglio averti con me per sempre. Non vuoi venir via con me,
lasciare che sia io a occuparmi di te? Ti prometto che non ti
accadrà nulla».
«Tu non mi ami più; sei solo dispiaciuto per me».
«Non è vero».
«Oh, sì che è vero. L’ho capito quando eravamo in campagna.
Ma non te ne faccio una colpa. Sono una donna diversa da
quella che amavi. Non sono la Margaret che conoscevi».
«Non potrò mai voler bene a nessuna, se non a te».
Lei gli posò una mano sul braccio.
«Se mai mi hai amato, ti scongiuro, va’ via. Non sai a cosa mi
esponi. E quando sarò morta, dovrai sposare Susie. Lei ti ama
con tutto il cuore, e merita il tuo amore».
«Margaret, non andare. Vieni via con me».
«E abbi cura di te. Lui non ti perdonerà mai per quel che hai
fatto. Se ne avrà l’occasione, ti ucciderà».
Margaret sobbalzò violentemente, come se avesse udito un
rumore. Il suo viso si contorse in un’improvvisa smorfia di
paura.
«Per l’amor di Dio, va’ via, va’ via!».
Si allontanò velocemente da lui e, prima che potesse
impedirglielo, era scomparsa. Con il cuore gonfio, egli si
nascose di nuovo tra le felci.
Raccontato l’incontro ai suoi amici, Arthur tacque e guardò il
dottor Porhoët. Questi si diresse con aria pensosa verso la
libreria.
«Cosa vuoi che ti dica?» chiese.
«Credo che quell’uomo sia pazzo» disse Arthur. «Ho scoperto
in quale manicomio è ricoverata sua madre, e con un colpo di
fortuna sono riuscito a vedere il direttore, sulla strada di
ritorno per Londra. Mi ha detto che ha seri dubbi sulla salute
mentale di Haddo, ma al momento qualsiasi intervento è
impossibile. Sono venuto direttamente qui perché volevo un
suo consiglio. Nell’ipotesi che quest’uomo sia fuori di senno,
esiste l’eventualità che stia facendo qualche esperimento che
richieda il sacrificio di una vita umana?».
«Nulla di più probabile» disse il dottor Porhoët con aria
grave.
Susie tremò. Rammentava le chiacchiere che le erano giunte
all’orecchio a Montecarlo.
«Dicevano che stava cercando di creare degli esseri viventi
con una pratica magica». Lanciò un’occhiata al dottore, ma era
ad Arthur che parlava. «Proprio prima che lei entrasse, il
nostro amico mi raccontava di quel libro in cui Paracelso
riferisce di aver nutrito con del sangue umano i mostri da lui
creati».
Arthur proruppe in un’esclamazione di terrore.
«La cosa per me più significativa è la condizione di Margaret,
di cui abbiamo assoluta certezza» disse il dottor Porhoët.
«Tutte le opere che trattano di magia nera concordano sulla
suprema efficacia della condizione di verginità».
«Ma cosa si può fare?» domandò Arthur, in preda alla
disperazione. «Non possiamo lasciarla nelle mani di un pazzo
furioso». D’improvviso si fece di un pallore cadaverico. «Per
quanto ne sappiamo, potrebbe essere già morta».
«Avete mai sentito parlare di Gilles de Rais?» disse il dottor
Porhoët, continuando le sue riflessioni. «I suoi sacrifici umani
sono un caso esemplare. Conosco il paese in cui visse, e i
contadini, ancora oggi, di notte non osano passare nei pressi
del castello che fu la scena dei suoi mostruosi crimini».
«È orribile sapere che questo tremendo pericolo aleggia su di
lei, e non poter fare nulla».
«Possiamo soltanto aspettare» disse il dottor Porhoët.
«Ma se aspettiamo troppo, potremmo trovarci davanti a una
terribile catastrofe».
«Fortunatamente viviamo in un’epoca civilizzata. Haddo tiene
molto al suo collo. Spero che i nostri timori siano infondati».
Susie aveva l’impressione che la prima cosa da fare fosse
distrarre Arthur, e passò in rassegna alcuni modi per portare la
sua attenzione su altre cose.
«Pensavo di andare per due giorni a Chartres con Mrs
Bloomfield» disse. «Perché non viene con me? Là c’è la
cattedrale più bella del mondo e sono certa che passeggiare nei
dintorni le distenderà i nervi. Né qui né a Londra potrebbe
rendersi utile. Forse, quando sarà più calmo, riuscirà a
escogitare qualcosa».
Il dottor Porhoët comprese il suo intento e insistette a sua
volta affinché Arthur passasse un paio di giorni in un luogo che
non suscitasse in lui alcun ricordo. Arthur era troppo esausto
per discutere e acconsentì per puro sfinimento. Il giorno
successivo Susie lo portò a Chartres. Mrs Bloomfield non fu di
alcun disturbo e Susie lo convinse a fermarsi per una settimana
in quella cittadina tranquilla. Trascorsero molte ore nella
sontuosa cattedrale e vagarono per la campagna circostante.
Arthur fu costretto ad ammettere che il cambiamento gli aveva
giovato; una certa apatia si sostituì all’agitazione di cui aveva
tanto a lungo sofferto. Susie riuscì anche a convincerlo a
trascorrere tre o quattro giorni in Bretagna con il dottor
Porhoët, che si proponeva di visitare i luoghi della sua infanzia.
Poi tornarono a Parigi. Quando la salutò alla stazione, dandole
appuntamento al ristorante di lì a un’ora per pranzare con il
dottor Porhoët, la ringraziò di tutto quel che aveva fatto.
«Ero in una condizione di assoluta isteria» disse, tenendole la
mano tra le sue. «Lei è stata un vero angelo. Sapevo che non
c’era nulla da fare, ma ero comunque tormentato dal desiderio
di fare qualcosa. Ora ho ripreso il controllo. Temo che il
buonsenso mi stesse abbandonando ed ero sul punto di credere
in quel guazzabuglio di sciocchezze che chiamano magia.
Dopotutto, è assurdo pensare che Haddo abbia intenzione di
fare del male a Margaret. Appena rientrato a Londra andrò dai
miei avvocati, e forse qualcosa si potrà fare. Se è davvero
pazzo, lo faremo rinchiudere, e Margaret sarà libera. Non
dimenticherò mai la sua gentilezza».
Susie sorrise e si strinse nelle spalle. Era convinta che egli
avrebbe dimenticato tutto, se Margaret fosse tornata da lui. Ma
si rimproverò quel pensiero amaro. Lo amava ed era lieta di
aiutarlo.
Tornò in albergo, si cambiò d’abito e si diresse a piedi,
lentamente, allo Chien noir. Era sempre una sensazione
esaltante tornare a Parigi, e guardava con occhi felici e pieni di
affetto i platani, i tram gialli che sferragliavano senza sosta e la
gente che si godeva tranquillamente la vita. Quando arrivò, il
dottor Porhoët l’attendeva, e il piacere che dimostrò nel
vederla fu per lei un gradevole complimento. Parlarono di
Arthur e si chiesero perché fosse in ritardo. Di lì a un attimo
egli arrivò, e videro subito che era accaduto qualcosa di
eccezionale.
«Grazie a Dio vi ho trovati, finalmente!» esclamò.
Il suo viso era contratto da bizzarri movimenti. Non l’avevano
mai visto così sconvolto.
«Sono stato al suo albergo, ma lei era appena uscita. Oh,
perché avete insistito per farmi partire?».
«Che è successo?» esclamò Susie.
«È accaduto qualcosa di terribile a Margaret».
Susie balzò in piedi con un grido di sgomento.
«Come lo sa?» gli domandò affannosamente.
Arthur li guardò per un attimo e arrossì. Poi fissò gli occhi nei
loro, come per costringerli a credere a ciò che stava per dire.
«Lo sento» rispose con voce roca.
«Che significa?».
«Ne ho avuto la sensazione, d’improvviso. Non so spiegare né
come né perché. So solo che è accaduto qualcosa».
Riprese a camminare avanti e indietro, in preda a
un’agitazione spaventosa. Susie e il dottor Porhoët lo
guardavano impotenti, cercando delle parole in grado di
calmarlo.
«Sicuramente saremmo stati informati se fosse accaduto
qualcosa».
Arthur si rivoltò contro Susie, con rabbia.
«E come pensa che saremmo venuti a saperlo? Era inerme,
prigioniera, come un topo in trappola».
«Amico mio, non devi lasciarti andare in questo modo» disse
il dottore. «Cosa penseresti di un paziente che si presentasse
da te con una storia simile?».
Arthur rispose alla domanda stringendosi nelle spalle.
«Direi che è in preda a un’assurda isteria».
«Ebbene?».
«Non posso farci nulla. La sensazione rimane. Se anche
tentaste per una notte intera, non riuscireste a liberarmene, a
convincermi che non è così. Lo sento in ogni fibra del mio
corpo. Non potrei esserne più certo, neanche se vedessi
Margaret, morta, qui davanti a me».
Susie comprese che era del tutto inutile cercare di ragionare
con lui. Non restava che accettare questa sua convinzione, e
farne il miglior uso possibile.
«Possiamo fare qualcosa?» domandò.
«Voglio che veniate tutti e due in Inghilterra con me. Subito.
Se ci sbrighiamo, riusciremo a prendere il treno della sera».
Susie non rispose, ma si alzò. Toccò il braccio del dottore.
«La prego, venga» sussurrò.
Egli annuì e si tolse il tovagliolo che aveva sistemato per
proteggere il panciotto.
«C’è una vettura che ci aspetta qua fuori» disse Arthur.
«E gli abiti di Miss Susie?» disse il dottore.
«Oh, non possiamo perdere tempo con queste cose» esclamò
Arthur. «Per l’amor di Dio, fate presto».
Susie sapeva che c’era tutto il tempo per prendere il
necessario prima che il treno partisse, ma l’impazienza di
Arthur era troppo grande per poter essere frenata.
«Non ha importanza» disse. «Posso procurarmi in Inghilterra
ciò di cui ho bisogno».
In tutta fretta Arthur li spinse verso la porta e disse al
conducente di recarsi alla stazione il più velocemente possibile.
«Per l’amor di Dio, ora si calmi» disse Susie. «In questo stato
non sarà d’aiuto a nessuno».
«Sento che è troppo tardi».
«Sciocchezze! Sono sicura che troverà Margaret sana e
salva».
Egli non rispose. Quando arrivarono alla stazione tirò un
sospiro di sollievo.
14
Susie non avrebbe mai dimenticato l’orrore di quel viaggio
verso l’Inghilterra. Arrivarono a Londra il mattino presto e
andarono dritti a Euston. Per tre o quattro giorni c’era stato un
caldo insolito, e persino a quell’ora le strade erano afose, non
c’era un filo d’aria. Il treno diretto al Nord era così gremito che
pareva di soffocare. Susie aveva mal di testa, ma era costretta
a darsi un contegno allegro per cercare di alleviare l’ansia,
sempre crescente, di Arthur. Il dottor Porhoët le sedeva di
fronte. Dopo la notte insonne, aveva le palpebre pesanti e il
volto profondamente segnato. Era esausto. Finalmente, dopo
molti cambi faticosi, raggiunsero Venning. Susie si sarebbe
aspettata una maggiore frescura in quel villaggio del Nord; una
cappa rovente opprimeva il paese e, mentre dalla piccola
stazione si dirigevano alla locanda, trascinavano a stento le
gambe.
Arthur aveva telegrafato da Londra che preparassero delle
stanze e la locandiera li aspettava. Riconobbe Arthur. Egli non
vedeva l’ora di chiederle se era accaduto qualcosa dall’ultima
volta che era stato lì, ma finché poté cercò di costringersi al
silenzio, poi la salutò cordialmente.
«E allora, Mrs Smithers, cosa è successo da quando sono
partito?» esclamò.
«Be’, lei naturalmente non può saperlo...» rispose lei tutta
seria.
Egli cominciò a tremare, ma con sforzo quasi sovrumano
controllò la voce.
«Il signorotto si è impiccato?» chiese con fare disinvolto.
«No, ma la povera signora è morta».
Arthur non rispose. Era impietrito. Aveva gli occhi sbarrati.
«Poveretta!» disse Susie, sforzandosi di parlare. «È accaduto
all’improvviso?».
La donna si voltò verso Susie, felice di aver qualcuno con cui
commentare l’episodio. Non si accorse del supplizio di Arthur.
«Sì, signora; nessuno se l’aspettava; è morta di colpo.
L’hanno sepolta questa mattina».
«Di cosa è morta?» domandò Susie, con gli occhi fissi su
Arthur.
Temeva che svenisse. Desiderava con tutta se stessa portarlo
via, ma non sapeva come fare.
«Pare sia stato il cuore» rispose la locandiera. «Povera
donna! Ma per lei è stata una liberazione».
«Ci preparerebbe del tè, Mrs Smithers? Siamo molto stanchi,
e gradiremmo qualcosa subito».
«Certo, signorina. Lo preparo immediatamente».
La brava donna si allontanò per darsi da fare. Susie si affrettò
a chiudere la porta a chiave e prese Arthur per un braccio.
«Arthur, Arthur!».
Si aspettava che crollasse. Rivolse uno sguardo tormentato al
dottor Porhoët, che se ne stava in disparte, impotente.
«Non avrebbe potuto fare nulla se fosse stato qui. Ha sentito
cosa ha detto quella donna? Se Margaret è morta per un
attacco di cuore, i suoi sospetti erano praticamente infondati».
Egli scosse la testa, quasi con violenza.
«Per l’amor di Dio, gli parli lei!» esclamò Susie.
Il suo silenzio la terrorizzava più di un’esplosione di dolore. Il
dottor Porhoët si avvicinò con modi gentili.
«Non cercare di fare il coraggioso, amico mio. Soffrirai un po’
meno, se ti lasci andare».
«Santo cielo, lasciatemi tranquillo!» disse Arthur con voce
roca.
Si scostarono, osservandolo in silenzio. Susie sentì la
locandiera che arrivava con il tè e aprì la porta. La donna portò
dentro tutto il necessario. Stava per andarsene, quando Arthur
la fermò.
«Come sa che Mrs Haddo è morta per un attacco di cuore?»
le domandò all’improvviso.
La sua voce era dura e severa. Parlava con tono brusco,
insolito, tanto che la povera donna lo guardò stupita.
«Me lo ha detto il dottor Richardson».
«Era lui che la curava?».
«Sì, signore. Mr Haddo lo ha chiamato parecchie volte perché
visitasse sua moglie».
«Dove abita il dottor Richardson?».
«Nella casa bianca vicino alla stazione».
Non riusciva a capire il motivo delle domande di Arthur.
«Mr Haddo ha partecipato al funerale?».
«Oh, sì, signore. Non ho mai visto un uomo tanto sconvolto».
«Grazie. Può andare».
Susie versò il tè e ne porse una tazza ad Arthur. Con sua
sorpresa, egli bevve il tè e mangiò del pane imburrato.
L’espressione tirata, la penosa inquietudine erano scomparse
dal suo volto, che ora era di nuovo atteggiato a una cupa
determinazione. Alla fine egli parlò.
«Vado a trovare il dottore. Il cuore di Margaret era sano
quanto il mio».
«Cosa ha intenzione di fare?».
«Fare?».
Egli si voltò verso di lei con una strana violenza.
«Ho intenzione di mettere un cappio al collo di quell’uomo, e
se la legge non mi aiuterà, perdio, lo ucciderò con le mie
mani».
«Mais, mon ami, vous êtes fou!» esclamò il dottor Porhoët
balzando in piedi.
Arthur tese la mano con rabbia, come per fermarlo. Il suo
volto si fece ancora più corrucciato.
«Dovete lasciarmi in pace. Per l’amor del cielo, il tempo delle
lacrime e dei lamenti è finito. Dopo tutto quello che ho passato
in questi mesi, non riesco neanche a piangere la morte di
Margaret. Il mio cuore si è inaridito. Ma io so che lei non è
morta di morte naturale, e non avrò pace finché quell’essere
sarà vivo».
Protese le braccia e, con la mascella serrata, pregò perché un
giorno gli fosse possibile stringere tra le mani il collo di Haddo
e vedere il suo volto illividirsi e farsi violaceo mentre moriva.
«Vado da quello stupido di un dottore, e poi andrò a Skene».
«Ci lasci venire con lei» disse Susie.
«Non abbia paura» rispose lui. «Non prenderò alcuna
iniziativa, se non quando mi sarò reso conto che la legge è
impotente».
«Voglio venire lo stesso».
«Come preferisce».
Susie uscì e ordinò di preparare un carrozzino, chiedendo che
venisse mandato a casa del dottore perché Arthur non voleva
aspettare. Loro tre si avviarono subito, a piedi.
Il dottor Richardson era un ometto di cinquantacinque anni,
con una bella barba quasi bianca e occhi azzurri sporgenti.
Parlava con un forte accento dello Staffordshire. Aveva l’aria
un po’ dell’agricoltore, un po’ del florido commerciante, e
l’intelligenza non era la prima qualità a colpire, nel suo aspetto.
Arthur fu introdotto nell’ambulatorio insieme ai suoi due
amici, e poco dopo entrò il dottore. Indossava pantaloni di
flanella e aveva in mano una racchetta dalla foggia antiquata.
«Mi spiace avervi fatto aspettare, ma mia moglie ha invitato
degli amici per il tè ed ero nel bel mezzo di una partita a
tennis».
La sua cordialità irritò Arthur, i cui modi, per reazione, si
fecero più bruschi del solito.
«Abbiamo appena appreso della morte di Mrs Haddo. Io ero il
suo tutore e un suo amico di vecchia data. Sono venuto da lei
nella speranza di sapere qualcosa su questo decesso».
Il dottor Richardson gli lanciò l’occhiata sospettosa tipica
degli sciocchi.
«Non capisco perché sia venuto da me anziché andare da suo
marito. Egli sarà in grado di dirle tutto quel che desidera
sapere».
«Sono venuto da lei come collega» disse Arthur. «Lavoro al
St. Luke’s Hospital». Indicò il biglietto da visita che il dottor
Richardson teneva ancora in mano. «Il mio amico è il dottor
Porhoët, il suo nome dovrebbe esserle familiare grazie ai suoi
studi sulla febbre maltese».
«Credo di aver letto un suo articolo sul “British Medical
Journal”» disse il medico di campagna.
I suoi modi rivelavano ora una strana ostilità. Non nutriva
simpatia per gli specialisti di Londra, perché non sopportava il
loro atteggiamento verso i medici generici. Amava farsi gioco
della loro pretesa di sapere tutto ed era più che disposto a
schierarsi contro di loro.
«Cosa posso fare per lei, dottor Burdon?».
«Le sarei molto grato se mi riferisse con la maggior esattezza
possibile come è morta Mrs Haddo».
«Era un caso molto semplice di endocardite».
«Potrei sapere quanto tempo prima del decesso è stato
richiesto il suo intervento?».
Il dottore esitò, avvampando appena.
«Non mi piacciono gli interrogatori» sbuffò, di colpo deciso a
irritarsi. «Essendo lei un chirurgo direi che la sua conoscenza
delle malattie cardiache non è né particolarmente vasta né
approfondita. Ma questo era un caso semplicissimo ed è stato
fatto tutto il possibile. Non credo ci sia nulla da aggiungere».
Arthur non tenne conto di quello scoppio d’ira.
«Quante volte l’ha visitata?».
«Davvero, dottore, non capisco il suo atteggiamento. Non
vedo quale diritto lei abbia di interrogarmi».
«Ha fatto un’autopsia?».
«Certo che no. In primo luogo non ce n’era bisogno, poiché la
causa della morte era perfettamente chiara. In secondo luogo,
lei saprà quanto me che i parenti sono sempre contrari a cose
di questo genere. Voi gentiluomini di Harley Street non capite
in quali condizioni si svolge l’attività privata. Noi non abbiamo
il tempo di fare autopsie tanto per soddisfare un’inutile
curiosità».
Arthur rimase in silenzio per un attimo. Quell’uomo era
chiaramente convinto che non ci fosse nulla di sospetto nella
morte di Margaret, ma la sua stoltezza era pari alla sua
ostinazione. Era chiaro che svariati motivi lo avrebbero indotto
a ostacolare Arthur in ogni modo, soprattutto per il danno che
gliene sarebbe venuto se si fosse scoperto che aveva stilato un
certificato di morte con superficialità. Naturalmente avrebbe
fatto tutto il possibile per evitare lo scandalo. Ma Arthur non
poteva tacere.
«Ritengo di doverle dire francamente che non sono
soddisfatto. Non riesco a convincermi che la morte della
signora sia avvenuta per cause naturali».
«Ma che stupidaggine!» esclamò l’altro adirato. «Faccio il
medico da più di trentacinque anni e sono pronto a giocarmi la
reputazione professionale».
«Ho motivo di pensare che lei si sbagli».
«E a cosa attribuisce la morte, se non le spiace?» domandò
Richardson.
«Ancora non lo so».
«In fede mia, credo che lei sia uscito di senno. Davvero,
dottore, il suo comportamento è infantile. E lei sostiene di
essere un chirurgo di fama...».
«Non ho mai detto nulla del genere».
«Ha tenuto conferenze al cospetto di uomini di scienza e
pubblicato i suoi interventi. E poi se ne viene qui con una storia
stupida come quella di un contadino dello Staffordshire che ha
mal di stomaco ed è convinto che qualcuno stia cercando di
avvelenarlo. Lei sarà pure un ottimo chirurgo ma, me lo lasci
dire, io credo di essere più adatto a giudicare un caso che ho
seguito e del quale lei non sa nulla».
«Ho intenzione di fare tutti i passi necessari per ottenere un
ordine di riesumazione, dottor Richardson, e ritengo che sia nel
suo interesse aiutarmi in ogni modo possibile».
«Non ci penso nemmeno. Credo che lei sia un impertinente,
dottore. Non è necessaria alcuna riesumazione e farò quanto
posso per impedirla. E l’avverto, in qualità di presidente del
collegio giudicante, che la mia opinione varrà quanto quella di
un qualsiasi specialista di Harley Street».
Si precipitò verso la porta e la tenne aperta. Susie e il dottor
Porhoët uscirono; Arthur li seguì pensoso, con lo sguardo a
terra. Richardson sbatté la porta con rabbia. Il dottor Porhoët
prese Arthur sottobraccio.
«Devi essere ragionevole, amico mio» disse. «Dal suo punto
di vista il dottore ha ragione. Non c’è nulla che giustifichi le tue
domande. Sarebbe assurdo pretendere un mandato di
riesumazione sulla base di un vago sospetto».
Arthur non rispose. Il carrozzino li stava aspettando.
«Perché vuoi vedere Haddo?» insistette il dottor Porhoët.
«Otterrai lo stesso risultato che hai avuto con il dottor
Richardson».
«Così ho deciso» rispose Arthur, laconico. «Ma non è
necessario che voi due mi accompagniate».
«Se lei va, noi veniamo con lei» disse Susie.
Senza una parola, Arthur saltò sul carrozzino e Susie sedette
accanto a lui. Il dottor Porhoët si strinse nelle spalle e salì sul
sedile posteriore. Arthur frustò il pony e di buon trotto
percorsero i cinque chilometri di spoglia brughiera che
separavano Venning da Skene.
Fortuna volle che, al loro arrivo, la custode fosse proprio al
cancello e tenesse aperto uno dei battenti per il suo bambino,
che stava giocando sulla strada e non mostrava la minima
intenzione di rientrare. Arthur saltò giù.
«Voglio vedere Mr Haddo» disse.
«Mr Haddo non è in casa» rispose lei con tono brusco.
Cercò di chiudere il cancello, ma Arthur fu pronto a bloccarlo
con un piede.
«Sciocchezze! Devo vederlo per una questione molto
importante».
«Mr Haddo ha dato ordine di non far passare nessuno».
«Mi spiace. Ho intenzione di entrare lo stesso».
Susie e il dottor Porhoët si fecero avanti. Offrirono uno
scellino al bambino perché tenesse il cavallo.
«E allora? Fuori di qui!» gridò la donna. «Non entrerà,
chiunque lei sia e qualunque cosa dica».
Cercò di chiudere il cancello, ma il piede di Arthur glielo
impediva. Senza tener conto delle proteste irritate della donna,
egli riuscì a entrare con la forza e imboccò il viale a passo
svelto. La custode gli andava dietro, strillando improperi. Il
cancello rimase incustodito e gli altri poterono seguirlo senza
problemi.
«Potrà anche arrivare alla porta, ma non riuscirà a vedere Mr
Haddo» gridò adirata la donna. «Mi farà licenziare perché l’ho
lasciata entrare».
Susie vide la casa. Era un bell’edificio antico, in stile
elisabettiano, ma aveva un gran bisogno di restauri. Aveva
l’aspetto desolato di un luogo da lungo tempo disabitato. Il
giardino che la circondava era incolto e il viale era coperto di
erbacce. Qua e là un albero caduto, che nessuno si era dato
pena di rimuovere, rivelava la trascuratezza del proprietario.
Arthur arrivò alla porta e suonò il campanello. Il clangore
riecheggiò per tutta la casa, come se non ci vivesse un’anima.
Un uomo aprì la porta e Arthur si introdusse all’interno senza
dargli il tempo di respingerlo. L’uomo era furioso quanto quella
megera di sua moglie, che strepitava per spiegargli in che
modo i tre estranei fossero riusciti a entrare nel parco.
«Non può vedere il padrone, quindi è meglio che se ne vada.
È nella soffitta, nessuno può entrare».
L’uomo cercò di respingere Arthur.
«Fuori di qui, o chiamo la polizia».
«Non faccia lo stupido. Sono deciso a trovare Mr Haddo».
Il custode e la moglie protestavano urlando e Arthur li
ascoltava in silenzio. Susie e il dottore se ne stavano discosti, in
ansia, senza sapere cosa fare. D’un tratto, una voce alle loro
spalle li fece sobbalzare. I due servitori si zittirono
immediatamente.
«Cosa posso fare per voi?».
Oliver Haddo era immobile dietro di loro. Susie era
stupefatta: era arrivato all’improvviso, senza fare rumore. Il
dottor Porhoët, che non lo vedeva da molto tempo, rimase
stupito da quanto era cambiato. La corpulenza fisica era
diventata una vera e propria malattia. Era enorme. Il mento era
una massa di pieghe pesanti, tese dal grasso. Le guance erano
talmente piene che gli occhi apparivano piccoli, innaturali –
due fessure sotto le palpebre tumide. I suoi lineamenti erano
cancellati da quella mostruosa obesità. Le orecchie erano
orribilmente dilatate, i lobi grossi e rigonfi. Sembrava che
avesse difficoltà di respirazione, perché la grande bocca, dalle
labbra lucide, scarlatte, era sempre aperta. Era diventato molto
più calvo e gli era rimasta solo una mezzaluna di capelli lunghi
a coprirgli la nuca, da un orecchio all’altro. C’era un che di
inquietante in quel grande cranio lucido. Il ventre era immenso
e sporgeva come un enorme barile, poiché egli era molto alto e
aveva una postura eretta. Le mani destavano repulsione; erano
rosse, morbide, umide. Haddo sudava abbondantemente, e
gocce di traspirazione stillavano sulla fronte e sulle labbra
glabre.
Per un momento si fissarono tutti in silenzio. Poi Haddo si
rivolse ai servitori.
«Andate» disse.
Come spaventati a morte, quelli si diressero verso la porta e
con frettolosa confusione si precipitarono fuori. Un sorriso
pigro traversò il volto di Haddo mentre guardava i suoi ospiti,
poi egli fece un passo per avvicinarsi a loro. I suoi modi
conservavano l’insolente urbanità che gli era tipica.
«E ora, amici miei, volete dirmi in cosa posso esservi utile?».
«Sono venuto per la morte di Margaret» disse Arthur.
Haddo, come d’abitudine, non rispose subito. Spostò lo
sguardo, lentamente, da Arthur al dottor Porhoët, e dal dottor
Porhoët a Susie e al suo cappello. Con un senso di disagio, lei
avvertì che si apprestava a prenderla in giro.
«Non mi pare il momento di disturbare il mio dolore» disse
infine. «Se siete venuti a porgermi le vostre condoglianze, vi
invito a mandarmele per posta».
Arthur aggrottò la fronte.
«Perché non mi ha informato della sua malattia?» domandò.
«Per quanto possa sembrarle strano, mio degno amico, non
mi ha mai sfiorato l’idea che la salute di mia moglie potesse
essere affar suo».
Un lieve sorriso aleggiò ancora una volta sulle labbra di
Haddo, ma i suoi occhi mantenevano quella particolare durezza
così misteriosa. Arthur lo guardava fisso.
«Ho buoni motivi per credere che lei l’abbia uccisa» disse.
Il volto di Haddo non mutò espressione, neanche per un
momento.
«Ha informato la polizia dei suoi sospetti?».
«Ho intenzione di farlo».
«E, se non sono indiscreto, potrei sapere su cosa sono
fondati?».
«Ho visto Margaret tre settimane fa, e mi ha detto che
temeva per la sua vita».
«Povera Margaret! Ha sempre avuto un temperamento
romantico. Credo che all’inizio sia stato proprio questo ad
avvicinarci».
«Maledetto farabutto!» esclamò Arthur.
«Mio caro amico, la prego di moderare il linguaggio. Non è
certo questa l’occasione per dar sfogo al suo riprovevole gusto
per gli insulti. Lei offende la suscettibilità di Miss Boyd». Si
voltò verso di lei con un ampio cenno della mano grassa. «Mi
perdoni se non le offro l’accoglienza di Skene, ma il lutto
recente non mi permette di indulgere ai piaceri dell’ospitalità».
Le fece, con ironia, un profondo inchino, poi guardò ancora
una volta Arthur.
«Se non posso fare altro per lei, la prego di lasciarmi alle mie
riflessioni. Il custode potrà fornirle l’indirizzo esatto del
magistrato locale».
Arthur non rispose. Fissava il vuoto, come se stesse
rimuginando altri pensieri. Poi si girò bruscamente e si diresse
verso il cancello; Susie e il dottor Porhoët, colti di sorpresa,
non sapevano cosa fare. Gli occhietti di Haddo scintillavano
mentre osservava il loro turbamento.
«Ho sempre pensato che il vostro amico avesse dei modi
deplorevoli» mormorò.
Susie, sentendosi molto ridicola, arrossì, e il dottor Porhoët,
imbarazzato, si tolse il cappello. Mentre si allontanavano,
sentivano lo sguardo beffardo di Haddo fisso su di loro e furono
profondamente sollevati quando raggiunsero il cancello.
Trovarono Arthur ad aspettarli.
«Vi chiedo scusa,» disse «avevo dimenticato di non essere
solo».
I tre tornarono lentamente verso la locanda.
«E adesso cosa pensa di fare?» domandò Susie.
Arthur rimase a lungo in silenzio e Susie pensò che forse non
l’aveva sentita. Ma alla fine rispose.
«Mi rendo conto che non posso fare nulla seguendo le vie
ordinarie. Capisco che è inutile sporgere ufficialmente
denuncia. C’è solo la mia convinzione che Margaret abbia
avuto una fine violenta e non posso aspettarmi che qualcuno mi
dia credito».
«Del resto, è anche possibile che sia morta per un attacco di
cuore».
Arthur lanciò a Susie una lunga occhiata. Sembrò considerare
con attenzione le sue parole.
«Forse c’è un sistema per stabilirlo una volta per tutte»
rispose infine, pensoso, come se parlasse a se stesso.
«E sarebbe?».
Arthur non rispose. Quando giunsero alla porta della locanda
si fermò.
«Entrate pure. Voglio fare una passeggiata da solo» disse.
Susie lo guardò, con ansia.
«Non farà gesti inconsulti, vero?».
«Non farò nulla finché non avrò la certezza che Margaret sia
stata barbaramente uccisa».
Girò sui tacchi e si allontanò velocemente. Ormai era tardi e
nel salottino Susie e il dottor Porhoët trovarono ad attenderli
un pasto frugale. Sembrava inutile aspettare il ritorno di Arthur
e in silenzio, colmi di dolore, mangiarono. Poi il dottore fumò
qualche sigaretta, mentre Susie sedeva alla finestra aperta a
guardare le stelle. Pensava a Margaret, alla sua bellezza e alla
sua amabile franchezza; pensava al suo crollo, e alla sua fine
infelice. Cominciò a piangere, silenziosamente. Ormai sapeva
abbastanza per comprendere che quella sventurata fanciulla
non aveva colpa di quanto era accaduto. Le era toccato un
destino crudele e non si era potuta opporre, come, nelle
antiche leggende, Fedra, figlia di Minosse, o Mirra dalle belle
chiome. Passarono le ore e Arthur non tornava. Susie ormai
pensava soltanto a lui ed era terribilmente in ansia.
Finalmente egli arrivò. Era tardi. Arthur si tolse il cappello e
sedette. Guardò a lungo il dottor Porhoët, in silenzio.
«Che c’è, amico mio?» si decise infine a chiedere il dottore.
«Ricorda quando una volta ci raccontò di un esperimento che
aveva fatto ad Alessandria?» disse dopo qualche esitazione.
Parlava con un tono inconsueto.
«Ci raccontò di aver mandato a chiamare un ragazzo e che,
quando egli guardò in uno specchio magico, vide cose che non
avrebbe assolutamente potuto sapere».
«Lo ricordo perfettamente» disse il dottore.
«A quel tempo ero piuttosto propenso a ridere di lei; ero
convinto che quel ragazzo fosse un furfantello che l’aveva
presa in giro».
«Davvero?».
«Ma negli ultimi tempi ho spesso ripensato a quella storia.
Qualche recesso della mia memoria si è spalancato, e mi
sembra di ricordare strane cose. Ero forse io il ragazzo che
guardava nell’inchiostro?».
«Sì» rispose tranquillamente il dottore.
Arthur non disse nulla, e un silenzio profondo scese su di
loro, mentre Susie e il dottore lo osservavano attentamente. Si
chiedevano cosa gli passasse per la testa.
«C’è un aspetto del mio carattere che ho scoperto solo in
questi ultimi tempi» disse infine Arthur. «Quando ne ho avuto
le prime avvisaglie, ho cercato di combatterlo. Mi dicevo che in
fondo a ciascuno di noi, come il retaggio di un passato lontano,
c’è un residuo della superstizione che accecava i nostri padri. È
necessario che l’uomo di scienza la contrasti con tutte le sue
forze. Eppure, essa è più forte di me. Forse la mia nascita e gli
anni della mia infanzia in quelle terre d’Oriente, dove tutti
credono nel soprannaturale, mi hanno influenzato senza che
me ne rendessi conto. Ho cominciato a ricordare cose vaghe,
misteriose; cose che, inconsapevolmente, avevo sempre avuto
dentro. E infine, un giorno, mi è sembrato che una nuova
finestra si spalancasse sulla mia anima, e ho visto, con
straordinaria limpidezza, l’evento che lei mi aveva descritto.
D’un tratto ho compreso che apparteneva alla mia personale
esperienza. Ho visto lei che mi prendeva la mano, mi versava
dell’inchiostro sul palmo e mi ordinava di guardarci dentro. Ho
sentito la strana fiammella che si agitava dentro di me prima
che, con indescrivibile chiarezza, vedessi in quello specchio
cose che fino a un attimo prima non c’erano. Ho visto persone
che non avevo mai visto, le ho viste compiere alcune azioni.
Una forza misteriosa e sconosciuta mi spingeva a parlare. Alla
fine tutto si è oscurato e io ero sfinito, come se non avessi
mangiato per un giorno intero».
Si diresse verso la finestra aperta e guardò fuori. Nessuno
parlava. Il volto di Arthur, delineato nettamente dalla luce della
lampada, era rigido. La sua mente sembrava impegnata in una
lotta di straordinaria violenza. Il respiro era affannato. Alla fine
egli si voltò verso di loro. Parlava in fretta, con voce roca.
«Io devo rivedere Margaret».
«Arthur, lei è pazzo!» gridò Susie.
Egli si avvicinò al dottor Porhoët e, appoggiandogli le mani
sulle spalle, lo guardò fisso negli occhi.
«Lei ha studiato questa scienza. Lei sa tutto quel che c’è da
sapere. Voglio che me la faccia vedere».
Il dottor Porhoët dette in un’esclamazione allarmata.
«Mio caro amico, come posso farlo? Ho letto molti libri, ma
non ho mai messo in pratica nulla. Ho studiato quegli
argomenti per semplice divertimento».
«Ma lei crede che si possa fare?».
«Non capisco cosa vuoi».
«Voglio che la riporti a me, perché io possa parlarle e
scoprire la verità».
«Pensi forse che io sia Dio per poter resuscitare gli uomini
dalla morte?».
Le mani di Arthur lo trattennero sulla sedia dalla quale
tentava di alzarsi. Egli stringeva le dita sulle spalle del vecchio,
che quasi non sopportava il dolore.
«Una volta ci disse che Eliphas Lévi evocò uno spirito. Crede
che fosse vero?».
«Non lo so. Ho sempre mantenuto aperta la mia mente. È
possibile che sia vero, come è possibile che non lo sia».
«Bene, ora lei deve credere. Lei deve fare ciò che fece lui».
«Temo tu sia impazzito, Arthur».
«Voglio che lei venga nel luogo in cui l’ho vista per l’ultima
volta. Se il suo spirito può essere riportato indietro, è solo nel
luogo in cui era seduta e piangeva. Lei conosce tutti i rituali e
tutte le formule necessarie».
Ma Susie si fece avanti e gli posò la mano sul braccio. Egli la
guardò, accigliato.
«Arthur, lei sa, nel fondo del suo cuore, che non ne può
venire nulla di buono. Questo non fa che aumentare la nostra
infelicità. Anche se lei potesse richiamarla per un momento
dalla tomba, perché non lasciar riposare in pace la sua anima
tormentata?».
«Se è morta di morte naturale non avremo potere su di lei,
ma, se ha avuto una morte violenta, forse il suo spirito è ancora
legato alla terra. Mi ascolti, io devo essere certo. Voglio
vederla ancora una volta, poi saprò cosa fare».
«Non posso, non posso» disse il dottore.
«Mi dia i libri, farò tutto da solo».
«Sai bene che non ho nulla con me».
«Allora deve aiutarmi» disse Arthur. «Del resto, perché si
preoccupa? Noi mettiamo in atto una certa pratica e, se non
accade nulla, non staremo peggio di prima. D’altro canto, se
riusciamo... Oh, per l’amor di Dio, mi aiuti! Se le è cara la mia
felicità, faccia questo per me».
Egli fece un passo indietro e guardò il dottore. Gli occhi del
francese erano fissi a terra.
«È una follia» sussurrò.
Ma era profondamente commosso dalle implorazioni di
Arthur e infine si strinse nelle spalle.
«In fondo, se non è altro che una sciocca sceneggiata, non
può fare alcun danno».
«Allora mi aiuterà?» esclamò Arthur.
«Se questo può darti un po’ di pace, o un po’ di soddisfazione,
sono pronto a fare quel che posso. Ma ti avverto, preparati a
una grande delusione».
15
Arthur avrebbe voluto procedere al rito in quel momento
stesso, ma il dottor Porhoët disse che era impossibile. Erano
tutti esausti dopo il lungo viaggio, ed era indispensabile
procurarsi alcune cose. In cuor suo pensava che una notte di
riposo avrebbe ricondotto Arthur alla ragione. Alla luce del
nuovo giorno sulla terra, egli si sarebbe vergognato di quel
desiderio contrario a tutte le sue convinzioni. Ma erano passati
sei giorni dalla morte di Margaret e secondo Arthur l’indomani,
a una settimana esatta di distanza, le loro arti magiche
avrebbero potuto avere una maggiore efficacia.
Quando si incontrarono il mattino successivo e si salutarono,
era chiaro che nessuno di loro aveva dormito.
«Sei ancora della stessa idea di ieri sera?» chiese il dottor
Porhoët con aria grave.
«Sì».
Il dottore esitò, nervoso.
«Se desideri seguire fino in fondo le regole degli antichi
negromanti, sarà necessario digiunare tutto il giorno».
«Sono pronto a qualsiasi cosa».
«Non sarà difficile per me» disse Susie con una risatina
isterica. «Sento che non riuscirei a mandar giù nulla, neanche
se mi sforzassi».
«Secondo me tutta questa storia è pura follia» disse il dottor
Porhoët.
«Mi ha promesso che avrebbe tentato».
La giornata, una lunga giornata d’estate, passò lentamente.
C’era uno splendore duro nel cielo, che ricordava al francese i
cieli egiziani, quando la terra sembra schiacciata da una cappa
rovente. Arthur era troppo inquieto per rimanere alla locanda e
lasciò gli altri a se stessi. Camminava senza meta, a passo
svelto, ma non sentiva la stanchezza. Il sole bruciante picchiava
su di lui, ma egli non se ne accorgeva. Le ore si trascinavano
pigre. Susie rimase distesa sul letto e cercò di leggere. Aveva i
nervi talmente tesi che, quando si udì nel cortile il rumore di un
secchio che cadeva sull’acciottolato, gridò di terrore. Il sole si
alzò, e in quel momento la sua finestra fu inondata da vibranti
raggi d’oro. Era mezzogiorno. Il tempo passava e venne il
pomeriggio, poi la sera, che non portò alcuna frescura. Nel
frattempo, il dottor Porhoët sedeva nel salottino con la testa tra
le mani; a costo di un enorme sforzo mentale tentava di
richiamare alla memoria tutto quel che aveva letto. Il suo cuore
cominciò a battere più velocemente. Poi calò la notte, a una a
una si accesero le stelle. Non c’era vento. L’aria era pesante.
Susie scese al pianterreno e si mise a parlare con il dottor
Porhoët. Parlavano a voce bassa, come se temessero che
qualcuno potesse ascoltarli di nascosto. Ormai erano indeboliti
dalla mancanza di cibo. Le ore trascorsero, l’una dopo l’altra, e
i rintocchi dell’orologio li colmavano ogni volta di una
misteriosa apprensione. Le luci nel villaggio si spensero a poco
a poco, dormivano tutti. Susie e il dottore rimasero a vegliare
al chiarore della lampada, ed ella fu percorsa da un brivido
freddo.
«Ho quasi l’impressione che in questa stanza ci sia un morto»
disse.
«Perché Arthur non torna?».
Parlavano in modo sconnesso e nessuno prestava attenzione a
ciò che diceva l’altro. La finestra era spalancata, ma l’aria era
irrespirabile. Ora il silenzio era così innaturale che Susie
provava un insolito nervosismo. Cercò di pensare alle strade
chiassose di Parigi, al perenne ruggito del traffico, al fruscio
della folla verso sera, quando tutti tornano a casa. Si alzò.
«Stasera non c’è aria. Guardi gli alberi. Non si muove una
foglia».
«Perché Arthur non torna?» ripeté il dottore.
«Non c’è luna stanotte. Deve esserci un gran buio a Skene».
«Ha camminato tutto il giorno. Ormai dovrebbe essere qui».
Susie provava un forte senso di oppressione e ansimava. Alla
fine sentirono dei passi fuori, sulla strada, e Arthur comparve
nel riquadro della finestra.
«Siete pronti?» disse.
«La stavamo aspettando».
Lo raggiunsero, portando le poche cose che secondo il dottor
Porhoët erano necessarie. Camminarono lungo la strada
solitaria che conduceva a Skene. Da entrambi i lati l’erica si
stendeva nella notte fonda e tutt’intorno c’era un’oscurità
densa di cattivi presagi. Non si udiva un rumore, tranne quello
dei loro passi. Nel buio, sotto le stelle, scorgevano la
desolazione che li circondava. La strada sembrava molto lunga.
Erano completamente sfiniti e faticavano a trascinare un piede
dietro l’altro.
«Fatemi riposare un attimo» disse Susie.
Senza risponderle, si fermarono e lei sedette su un masso sul
ciglio della strada. Rimasero immobili, in piedi davanti a lei,
aspettando con pazienza che fosse pronta. Dopo un po’ ella si
costrinse a rialzarsi.
«Ora possiamo andare» disse.
Continuavano a tacere, si limitavano a camminare. Si
muovevano come figure in un sogno, con determinazione
furtiva, come se agissero sotto l’influsso di un’altrui volontà.
D’improvviso la strada finì e si trovarono alle porte di Skene.
«Statemi vicini» disse Arthur. Svoltò da un lato e
camminarono lungo la palizzata. Susie si rese conto che
percorrevano uno stretto sentiero. Non vedeva a un palmo dal
suo naso. A un certo punto Arthur si fermò.
«Prima sono venuto ad allargare l’apertura per farvi passare
meglio».
Spostò una tavola rotta e scivolò dentro. Susie lo seguì, e il
dottor Porhoët entrò dopo di lei.
«Non vedo nulla» disse Susie.
«Mi dia la mano, la guido io» fece Arthur.
Si fecero strada con difficoltà attraverso l’intrico di felci, in
mezzo ad alberi fittamente piantati l’uno accanto all’altro.
Inciampavano, e una volta il dottor Porhoët cadde. Avevano
l’impressione di aver percorso un lungo tragitto, il cuore di
Susie batteva forte per l’ansia. Aveva dimenticato ogni
stanchezza.
Poi Arthur fece segno di fermarsi e indicò un punto dinanzi a
sé. Attraverso un’apertura fra gli alberi videro la casa. Tutte le
finestre erano buie, tranne quelle immediatamente sotto il
tetto. Da lì giungeva una luce abbagliante.
«Quella è la soffitta, che usa come laboratorio. Come vedete,
è all’opera. In casa non c’è nessun altro».
Susie era curiosamente affascinata dalle luci fiammeggianti.
C’era un mistero terrificante in quelle attività sconosciute, che
assorbivano Oliver Haddo notte dopo notte, fino al sorgere del
sole. Quali cose orribili accadevano in quel luogo, nascosto a
occhi umani? Da solo nella grande casa, quel pazzo eseguiva
spaventosi esperimenti; e chi poteva dire quali fossero i suoi
traffici oscuri e segreti?
«Non c’è pericolo che esca» disse Arthur. «Resterà lì fino al
sorgere del giorno».
Le prese di nuovo la mano e ricominciarono a camminare tra
gli alberi finché si ritrovarono su un sentiero. Procedevano con
maggior sicurezza.
«Tutto bene, Porhoët?» domandò Arthur.
«Sì».
Ma gli alberi si facevano più fitti, e la notte più buia. Ormai la
luce delle stelle non penetrava più tra le fronde e avanzavano
quasi alla cieca.
«Eccoci arrivati» disse Arthur.
Si fermarono dinanzi all’incrocio di due sentieri erbosi. Nel
mezzo, una panchina di pietra biancheggiava fievole nel buio.
«È qui che sedeva Margaret, l’ultima volta che l’ho vista».
«Non so cosa potremo fare» disse il dottore.
Avevano portato due basse coppe di ottone da utilizzare come
incensieri e Arthur le porse al dottor Porhoët. Egli rimase
accanto a Susie, mentre il dottore si dava da fare con i
preparativi. Lo vedevano andare avanti e indietro, piegarsi a
terra. D’improvviso si udì un crepitio di legna e dalle coppe
uscirono fiamme rosse. Non sapevano cosa stesse bruciando,
ma si erano formate pesanti nubi di fumo, e un odore forte,
aromatico, riempì l’aria. Di tanto in tanto la sagoma del dottore
si stagliava netta contro la luce. La sua figura esile, china,
appariva insolitamente misteriosa. Quando vide il suo volto,
Susie si accorse che era in preda a una forte emozione. L’opera
alla quale si stava dedicando lo assorbiva totalmente, al punto
che tutti i suoi dubbi, le sue paure, erano scomparsi.
Somigliava a un vecchio alchimista, affaccendato in cose
innaturali. Il cuore di Susie cominciò a battere dolorosamente.
Era sempre più spaventata. Tese la mano per toccare Arthur. In
silenzio, egli la prese sottobraccio, quand’ecco che il dottore
tracciò degli arcani segni sul terreno. Le fiamme si spensero e
non rimase che un bagliore, ma egli non sembrava avere
difficoltà a vedere quel che stava facendo. Susie non riusciva a
distinguere le figure che disegnava. Poi il dottore mise altri
ramoscelli sulle braci e le fiamme divamparono di nuovo,
fendendo l’oscurità come fossero una spada.
«Ora potete venire» disse.
Inspiegabilmente, Susie fu presa da un terrore improvviso.
Aveva la pelle d’oca e un sudore freddo le inondò il corpo. Le
sue membra si erano fatte d’un tratto pesantissime, tanto che
non riusciva a muoversi. Fu pervasa da una sensazione di
panico mai provata prima e, se le gambe l’avessero sostenuta,
sarebbe fuggita via alla cieca. Cominciò a tremare. Cercò di
parlare, ma la lingua era inchiodata alla gola.
«Non posso, ho paura» sussurrò con voce roca.
«Deve, senza di lei non possiamo fare nulla» disse Arthur.
Susie non riusciva a ragionare. Aveva dimenticato tutto
tranne la sua paura mortale. Il cuore le batteva talmente in
fretta che quasi svenne. Arthur la tratteneva con tanta forza
che lei fece una smorfia di dolore.
«Mi lasci andare» sussurrò. «Non voglio aiutarvi. Ho paura».
«Deve» disse lui. «Deve farlo».
«No».
«È un ordine, deve venire».
«Perché?».
La sua paura mortale si sfogò in un repentino attacco di
rabbia.
«Perché mi ami, e questo è l’unico modo per darmi pace».
Susie emise un flebile gemito dolente, e il terrore cedette alla
vergogna. Arrossì fino alla punta dei capelli, perché anche lui
conosceva il suo segreto. Poi fu presa di nuovo dalla rabbia,
vedendo che Arthur era tanto crudele da usarlo contro di lei.
Ma ormai aveva ritrovato il coraggio e fece un passo avanti. Il
dottor Porhoët le disse dove fermarsi. Arthur prese posto
davanti a lei.
«Non dovete muovervi finché non ve lo dirò io. Se uscite dal
disegno che ho tracciato, non posso proteggervi».
Per un momento il dottor Porhoët rimase in silenzio assoluto,
poi cominciò a recitare strane formule in latino. Susie le udiva
appena, non ne conosceva il senso e la voce del dottore era
talmente bassa che non sarebbe comunque riuscita a
distinguere le parole. Ma il tono era privo di quella gentile
ironia che gli era abituale ed egli parlava con una gravità
vibrante che destava una profonda impressione. Arthur rimase
immobile come una roccia. Le fiamme si spensero e ciascuno,
al tenue bagliore della brace, vide gli altri come figure in una
visione di morte. Silenzio. Poi il negromante parlò ancora, e la
sua voce era più forte. Sembrava pronunciare strane
invocazioni, ma in una lingua agli altri sconosciuta. Mentre
parlava, la luce dei carboni ardenti fu spenta all’improvviso.
Non si spense, fu spenta di colpo, come da mani invisibili. Ora
l’oscurità era più fitta della notte più nera. Gli alberi erano
scomparsi alla vista e il biancore della panchina di pietra non si
distingueva più. Erano a breve distanza l’uno dall’altro, ma
ciascuno si sentiva completamente solo. Susie strizzò gli occhi,
ma non riuscì a scorgere nulla. Alzò lo sguardo per un istante:
le stelle erano scomparse, e non vedeva nulla né sopra di sé né
tutt’intorno. L’oscurità era terrificante e la voce del dottor
Porhoët, uscendo da quelle tenebre, aveva un effetto spettrale.
Sembrava giungere, portentosamente trasformata, dal vuoto di
un caos senza fondo. Susie serrò i pugni per non svenire.
D’un tratto ebbe un sobbalzo, perché la voce del vecchio fu
spezzata da una folata improvvisa di vento. Un attimo prima il
silenzio profondo era quasi intollerabile e ora sembrava che su
di loro si abbattesse una tempesta. Gli alberi vibravano nel
vento; si udivano lo scricchiolio dei rami, il sibilo delle foglie.
Erano nel cuore di un uragano e sentivano la terra ondeggiare,
come se opponesse resistenza alle radici dei grandi alberi che
minacciavano di trascinarla via con sé. Soffiando e ruggendo, il
vento infuriava intorno a loro. Il dottore, alzando la voce, cercò
invano di comandarlo. Ma la cosa più strana era che, nel punto
in cui si trovavano, non c’era traccia di quella violenta
tempesta. L’aria intorno a loro era immobile come prima,
neppure un capello si era scomposto sulla testa di Susie. Era
terribile sentire quel tumulto eppure essere immersi in una
calma quasi innaturale.
Quindi il dottor Porhoët alzò ancora la voce e, con un tono
solenne che non gli avevano mai sentito prima, gridò in quella
lingua sconosciuta. Poi chiamò Margaret. Ripeté il suo nome
tre volte. In quel frastuono, Susie riusciva appena a sentire. Il
panico l’aveva afferrata di nuovo ma, pur nella confusione
mentale, ricordò l’ordine del dottore e non osò muoversi.
«Margaret, Margaret, Margaret».
All’improvviso, rapido come una pietra che cada a terra, il
frastuono intorno a loro cessò. Non fu uno scemare graduale.
Un attimo prima l’uragano ruggiva, un attimo dopo il silenzio fu
così assoluto da sembrare un silenzio di morte.
E poi, apparentemente dal nulla, un prodigio: essi udirono
chiaramente il pianto di una donna. Il cuore di Susie si fermò.
Sentivano un pianto di donna e riconobbero la voce di
Margaret. Un gemito d’angoscia esplose dalle labbra di Arthur
ed egli fu sul punto di gettarsi in quella direzione, ma il dottor
Porhoët tese di scatto la mano per impedirglielo. Quel pianto
spezzava il cuore, erano i singhiozzi di una donna che aveva
perso ogni speranza, i singhiozzi di una donna terrorizzata. Se
Susie fosse stata in grado di muoversi, si sarebbe tappata le
orecchie per allontanare da sé lo spaventoso strazio di quel
suono.
Per un attimo, nonostante la pesante oscurità della notte
senza stelle, Arthur la vide. Era seduta sulla panchina di pietra,
come l’ultima volta che le aveva parlato. Nonostante l’angoscia,
cercava di non nascondere il volto. Guardava a terra, e le
lacrime le solcavano le guance. Il petto ansimava
nell’oppressione del pianto. Arthur ebbe così la certezza che
tutti i suoi sospetti erano giustificati.
16
Arthur non volle partire da Venning. Né Susie né il dottore
riuscirono a fargli cambiare idea. Nessuno di loro parlava della
notte passata nei boschi di Skene, anche se occupava ogni loro
pensiero e neppure per un momento riuscivano a liberarsi del
suo agghiacciante ricordo. Avevano l’impressione di sentire
ancora l’eco di quel pianto accorato. Arthur era di malumore.
Quando era con Susie e il dottor Porhoët parlava poco;
opponeva una resistenza ostinata ai loro sforzi per distrarlo.
Passava lunghe ore da solo, in campagna, e gli altri non
avevano idea di cosa facesse. Susie era terribilmente in ansia.
Arthur aveva perso il suo equilibrio ed ella era preparata a ogni
sconsideratezza. Intuiva che il suo odio per Haddo non era più
contenuto nei limiti del ragionevole. Il desiderio di vendetta si
era impadronito di lui e sarebbe stato capace di qualsiasi
violenza.
Trascorsero così vari giorni.
Alla fine, d’accordo con il dottor Porhoët, Susie decise di fare
un altro tentativo. Una notte, tardi, sedevano nel salottino della
locanda con le finestre aperte. C’era una strana oppressione
nell’aria, come prima di un temporale. Susie sperava nella
pioggia, perché attribuiva alla particolare calura di quegli
ultimi giorni gran parte della cupa irritabilità di Arthur.
«Arthur, devi dirci cosa hai intenzione di fare» disse. «È
inutile restare qui. Siamo tutti debilitati e nervosi al punto che
non riusciamo più a considerare nulla con razionalità.
Desideriamo che tu parta con noi, domani».
«Potete andar via voi, se volete» disse. «Io resterò finché
quell’uomo non sarà morto».
«È una pazzia parlare così. Non puoi far nulla. Starai solo
peggio restando qui».
«Sono assolutamente deciso».
«La legge non può offrirti alcun aiuto, e cos’altro potresti
fare?».
Susie voleva sondare le sue intenzioni. Ma la spietatezza della
risposta, che pure confermava i suoi vaghi sospetti, la sorprese.
«Se non posso fare altro, lo ammazzerò come un cane».
Susie non trovò nulla da dire, e per un po’ rimasero in
silenzio. Poi egli si alzò.
«Forse preferisco che ve ne andiate» disse. «Mi siete solo
d’impaccio».
«Fintanto che tu starai qui, resterò anch’io».
«Perché?».
«Perché, se farai qualcosa, comprometterai anche me, e
magari sarò arrestata. Forse il timore che questo accada
riuscirà a trattenerti».
Egli la guardò fisso. Susie, a riprova di quel che aveva detto,
sostenne il suo sguardo con grande calma e lui, a disagio, lo
distolse. Un silenzio ancor più profondo scese su di loro. Non si
muovevano. C’era un’immobilità assoluta nella stanza, che
pareva vuota. L’aria si fece ancor più soffocante, opprimente in
modo spaventoso. D’un tratto si udì il forte crepitio di un tuono,
e un lampo squarciò le nubi pesanti. Susie ringraziò il cielo di
quel temporale, che avrebbe finalmente portato una benefica
frescura. Si sentiva molto a disagio ed era un sollievo attribuire
il suo stato d’animo a una condizione atmosferica. Il tuono
rombò ancora, talmente forte che sembrava proprio sopra le
loro teste. E di colpo si levò il vento, travolgendo con un lungo
gemito gli alberi intorno alla casa. Era un suono talmente
umano che sembrava provenire dalle anime dei morti in preda
ai tormenti disperati del rimpianto.
La lampada si spense, così all’improvviso che Susie ne fu
inquietata. La fiamma dette un guizzo e piombarono nel buio
più totale. Era come se qualcuno si fosse chinato sul bulbo di
vetro e soffiando l’avesse spenta. La notte era scurissima, e
non riuscivano a vedere la finestra aperta sulla campagna.
Quella tenebra era talmente insolita che per un attimo nessuno
si mosse.
Poi Susie sentì la mano del dottor Porhoët scivolare sul tavolo
in cerca dei fiammiferi, che evidentemente non erano lì. Un
altro tuono li fece sussultare, ma la pioggia non arrivava.
Ansimarono, affamati d’aria fresca. D’un tratto il cuore di Susie
dette un balzo e lei saltò in piedi.
«C’è qualcuno nella stanza».
Aveva appena pronunciato queste parole, quando sentì
Arthur scagliarsi contro l’intruso. Seppe subito, con la certezza
dell’intuizione, che era Haddo. Ma come era entrato? Cosa
voleva? Cercò di gridare, ma dalla gola non le uscì nulla. Il
dottor Porhoët sembrava legato alla sedia. Immobile, non
proferiva suono. Susie sapeva che era in corso una lotta
terribile, una lotta per la vita o la morte, tra due uomini che si
odiavano. Ma la cosa più tremenda era che non si udiva nulla. Il
silenzio era assoluto. Susie cercò di fare qualcosa, ma non
riusciva a muoversi. E il cuore di Arthur esultava, perché il
nemico era nelle sue mani ed egli non l’avrebbe lasciato andare
finché avesse avuto vita. Strinse i denti e contrasse i muscoli.
Susie sentiva l’ansito, ma era il respiro di un solo uomo. Si
chiese, in preda al terrore più abietto, che cosa significasse
tutto ciò. Lottavano in silenzio, corpo a corpo, e Arthur sapeva
di essere più forte. Aveva deciso cosa fare e usava tutta la sua
energia
per
uno
scopo
preciso.
Il
nemico
era
straordinariamente possente e la forza di Arthur scaturiva dalla
sua sola volontà. Pareva che lottassero da ore ed egli non
riusciva ad atterrarlo.
D’un tratto capì che l’altro era spaventato e che cercava di
sfuggirgli. Arthur strinse la morsa. Per nulla al mondo avrebbe
lasciato la presa. Fece un respiro profondo, rapido, poi dette
fondo a tutte le sue energie in uno sforzo tremendo.
Barcollarono. Arthur ebbe la sensazione che i muscoli gli
venissero strappati dalle ossa. Fu sul punto di cedere, ma
l’angoscia che gli squarciò la mente al pensiero della sconfitta
lo sostenne e lo fece reagire con un moto rabbioso e subitaneo.
D’improvviso Haddo crollò e caddero entrambi a terra,
pesantemente. Il respiro di Arthur si era fatto più affannoso.
Pensò che se fosse riuscito a resistere ancora un istante
sarebbe stato salvo. Si gettò con tutto il suo peso sulla forma
che si dibatteva sotto di lui e piombò con furia sul suo braccio.
Lo torse bruscamente, con tutta la forza che aveva, e lo sentì
cedere. Emise un breve grido di trionfo; il braccio era spezzato.
Ora il nemico era in preda al panico; lottava come un folle,
voleva solo sfuggire alle mani d’acciaio che lo stavano
uccidendo. Arthur afferrò quel collo taurino, enorme, e vi
affondò le dita, che sprofondarono negli spessi rotoli di grasso.
Poi vi si gettò sopra con tutto il peso del corpo. Esultò perché
sapeva che il nemico era finalmente in suo potere. Lo stava
strangolando, e strangolandolo gli strappava la vita. Voleva la
luce, per poter vedere l’orrore su quel volto enorme, la paura
mortale, gli occhi sbarrati. Continuava a premere con le sue
mani d’acciaio. Con movimenti convulsi, la vittima si
divincolava nell’agonia della morte. La sua lotta era disperata,
ma le mani vendicatrici la tenevano come in una morsa. I
movimenti si fecero spasmodici, poi più deboli, e le mani
ancora premevano su quel collo gigantesco. Arthur dimenticò
ogni cosa, era pazzo di rabbia, di collera, di odio, di dolore.
Pensò all’angoscia di Margaret, alle diaboliche torture che
aveva subìto, e desiderò che quell’uomo avesse dieci vite, per
potergliele strappare a una a una. Poi tutto cessò, l’enorme
massa di carne rimase immobile e Arthur seppe che il nemico
era morto. Allentò la stretta e fece scivolare una mano sul
cuore. Non avrebbe battuto mai più. Haddo era morto
stecchito. Arthur si rialzò. L’oscurità era ancora intensa, non si
vedeva nulla. Susie lo sentì muoversi e finalmente riuscì a
parlare.
«Arthur, cosa hai fatto?».
«L’ho ucciso» disse con voce roca.
«Mio Dio, cosa faremo?».
Arthur cominciò a ridere forte, istericamente, e in quella
tenebra la sua ilarità era terrificante.
«Santo cielo, facciamo un po’ di luce».
«Ho trovato i fiammiferi» disse il dottor Porhoët.
Sembrò risvegliarsi di colpo dal suo lungo stupore. Ne sfregò
uno e non si accese. Ne sfregò un altro e, dopo che Susie ebbe
tolto il bulbo di vetro, accese lo stoppino. Poi il dottore sollevò
la lampada e videro Arthur che li fissava. Il suo volto era
spettrale. Il sudore gli scendeva sulla fronte in grosse gocce e
gli occhi erano iniettati di sangue. Tremava in ogni fibra. Il
dottor Porhoët avanzò tendendo la lampada davanti a sé.
Guardarono sul pavimento, in cerca del cadavere. Susie
proruppe in un grido inorridito.
Non c’era nessuno.
Arthur arretrò, sorpreso e atterrito. Non c’era nessuno nella
stanza, né vivo né morto, oltre loro tre. A Susie mancò la terra
sotto i piedi, si sentì male e svenne. Quando si riprese, come
emergendo a fatica da una notte eterna, Arthur le teneva la
testa.
«Sta’ giù,» le disse «sta’ giù».
Tutto quel che era accaduto le tornò alla mente, e Susie
scoppiò a piangere. Perse il controllo e, aggrappandosi a lui
alla ricerca di protezione, singhiozzò come se le si spezzasse il
cuore. Tremava dalla testa ai piedi. Il mistero di quell’ultimo
orrore l’aveva sopraffatta, avrebbe voluto urlare per il panico.
«Va tutto bene» disse lui. «Non avere paura».
«Ma che sta succedendo?».
«Devi farti coraggio. Adesso andremo a Skene».
Susie balzò in piedi, come per allontanarsi da lui; il cuore le
batteva all’impazzata.
«No, non posso; ho paura».
«Dobbiamo capire cosa significa tutto questo. Non c’è tempo
da perdere, o non riusciremo a tornare prima di giorno».
Allora Susie cercò di trattenerlo.
«Per l’amor di Dio, non andare, Arthur. Potrebbe aspettarti
qualcosa di orribile. Non rischiare la vita».
«Non c’è pericolo. Ti dico che quell’uomo è morto».
«Se dovesse accaderti qualcosa...».
Si interruppe, cercando di soffocare i singhiozzi; non aveva il
coraggio di continuare. Ma egli sembrò capire cosa le passava
per la mente.
«Non correrò rischi, per amor tuo. So bene che la mia vita o
la mia morte non ti sono... indifferenti».
Susie alzò lo sguardo e vide che gli occhi di lui la fissavano
seri.
Arrossì. Uno strano sentimento si fece strada nel suo cuore.
«Verrò con te ovunque tu voglia» disse sottomessa.
«Allora andiamo».
Uscirono nella notte. Non pioveva, il temporale era passato e
brillavano le stelle. Camminavano veloci. Arthur guidava il
gruppo. Il dottor Porhoët e Susie lo seguivano, l’uno accanto
all’altro, e dovevano affrettare il passo per non restare indietro.
Pareva che l’orrore di quella notte fosse ormai passato e c’era
nell’aria una fragranza meravigliosamente fresca. Il cielo era
bello. Finalmente arrivarono a Skene. Arthur li guidò verso il
varco nella palizzata e prese Susie per mano. Ben presto
giunsero al punto da cui pochi giorni prima avevano visto la
casa. Come allora, la sua mole scura e massiccia si ergeva nella
notte e, come allora, le finestre della soffitta erano ben
illuminate. Susie trasalì, perché si aspettava che tutto fosse
immerso nell’oscurità.
«Non c’è pericolo, te lo assicuro» disse Arthur con tono
gentile. «Scopriremo presto il significato di questo mistero».
Cominciò ad avanzare verso la casa.
«Hai un’arma, una qualsiasi?» chiese il dottore.
Arthur gli porse una pistola.
«Prenda questa. Le darà sicurezza, ma non ci sarà bisogno di
usarla. L’ho comprata l’altro giorno quando... avevo altri
progetti».
Susie rabbrividì. Raggiunsero il viale e camminarono fino al
grande portico che decorava la facciata della casa. Arthur
abbassò la maniglia, ma la porta non si aprì.
«Aspettatemi qui» disse. «Entrerò da una finestra e poi verrò
ad aprirvi».
Si allontanò. Essi rimasero in silenzio, in preda all’ansia; non
riuscivano a immaginare cosa avrebbero visto. Temevano che
potesse accadere qualcosa ad Arthur, e Susie si pentì di non
aver insistito per seguirlo. D’improvviso ricordò quel momento
terribile in cui la luce della lampada aveva illuminato il punto
dove tutti si aspettavano di vedere un corpo, e invece non c’era
nulla.
«Cosa vorrà dire?» esclamò d’un tratto. «Qual è la
spiegazione?».
«Forse presto lo sapremo» rispose il dottore.
Arthur ancora non tornava ed ella si domandava cosa potesse
essergli accaduto. Orribili pensieri le passarono per la mente e
neanche lei sapeva cosa temere. Finalmente udirono dei passi
nella casa, e la porta si aprì.
«Ero sicuro che qui non dormisse nessuno, ma ho preferito
accertarmene. Ho avuto qualche difficoltà a entrare».
Susie esitava a varcare la soglia. Non sapeva quali orrori la
aspettassero e l’oscurità era terrificante.
«Non vedo nulla» disse.
«Ho portato una torcia» disse Arthur.
Premette un pulsante e un sottile raggio di luce si proiettò sul
pavimento. Il dottor Porhoët e Susie entrarono. Arthur chiuse
piano la porta e illuminò lo spazio intorno a loro. Si trovavano
in un ampio atrio, con il pavimento ricoperto dalle pelli dei
leoni che Haddo aveva ucciso nella sua famosa spedizione in
Africa. Ce n’era forse una dozzina, e conferivano al luogo un
che di selvaggio, di barbaro. Uno scalone di quercia portava ai
piani superiori.
«Dobbiamo ispezionare tutte le stanze» disse Arthur.
Non si aspettava di trovare Haddo finché non fossero arrivati
alla soffitta illuminata, ma gli sembrava necessario controllare
tutta la casa man mano che salivano. La luce della torcia gli
aveva rivelato che le pareti dell’atrio erano tappezzate di
armature di ogni foggia, spade antiche di fattura orientale,
armi primitive dell’Africa centrale, barbari strumenti da guerra
medioevali, e gli venne un’idea. Staccò dal muro un’enorme
ascia da battaglia e la strinse in pugno.
«Possiamo andare».
In silenzio, trattenendo il respiro come se temessero di
svegliare i morti, entrarono nella prima stanza. Vedevano poco,
poiché la luce scarsa proiettata dal raggio sottile della torcia
rendeva ancora più profonda l’oscurità che li avvolgeva,
rivelando l’ambiente solo pezzo a pezzo. Era una stanza ampia,
chiaramente inutilizzata: i mobili erano coperti da teli e
ovunque aleggiava un odore di muffa, segno che le finestre
venivano aperte solo di rado. Come in molte case antiche, le
stanze non davano su un corridoio, ma si succedevano
aprendosi l’una nell’altra; ne traversarono molte finché si
ritrovarono nell’atrio. Dappertutto regnava un’aria di
desolazione, di abbandono, resa ancora più tetra dai pannelli di
quercia che rivestivano le pareti, anche nell’atrio e lungo le
scale. Mentre salivano, Arthur si fermò un momento e sfiorò
con la mano il legno lucido.
«Brucerebbe in un attimo» disse.
Controllarono le stanze del primo piano, ugualmente vuote e
tristi. Giunsero infine a quella che era stata la stanza di
Margaret. In un vaso c’erano dei fiori ormai appassiti. Le sue
spazzole erano ancora sulla toeletta. Ma era una stanza cupa,
con tutti quei pannelli di quercia, e così priva di ogni comodità
che Susie rabbrividì. Arthur si fermò a guardarla per un po’,
ma non disse nulla. Tornati sulle scale, salirono al secondo
piano, ed ebbero l’impressione che fosse l’ultimo della casa.
«Ma come si arriva alla soffitta?» si chiese Arthur,
guardandosi attorno sorpreso.
Si fermò un momento a pensare. Poi fece un cenno con la
testa.
«Devono esserci delle scale in una delle stanze».
Proseguirono. I soffitti si erano fatti molto più bassi, con travi
pesanti, e non c’erano mobili. Tutto quel vuoto sembrava
rendere le stanze ancora più terrificanti. Avevano l’impressione
di trovarsi sulla soglia di un grande mistero e il cuore di Susie
cominciò a battere forte. Arthur condusse la sua ispezione
metodicamente; controllò con cura ogni stanza, cercando una
porta che desse su una scala, ma non ce n’era traccia.
«Cosa farai se non riuscirai a trovare il modo per salire?» gli
domandò Susie.
«Lo troverò» rispose lui.
Erano tornati allo scalone e non avevano scoperto nulla. Si
guardarono, impotenti.
«È chiaro che deve esserci una via» disse Arthur con
impazienza. «Da qualche parte ci sarà una specie di porta
segreta».
Si appoggiò alla balaustra per riflettere. La torcia illuminava
col suo stretto raggio la parete di fronte.
«Sono sicuro che deve essere in una delle stanze in fondo alla
casa. Mi sembra il posto più logico per un passaggio segreto».
Tornarono indietro ed esaminarono ancora una volta i
pannelli di una stanzetta che su tre lati dava all’esterno. Era
l’unica che non si aprisse su un’altra stanza.
«Deve essere qui» disse Arthur.
E in quello stesso momento fece una risatina, perché si era
accorto che tra i pannelli di legno si nascondeva un piccolo
uscio. Spinse dove pensava che potesse esserci una molla e la
porticina si spalancò. La torcia illuminò una scaletta di legno.
Salirono e si ritrovarono davanti a una porta. Arthur la spinse,
ma era chiusa a chiave. Sorrise cupo.
«Fatevi un po’ indietro» disse.
Sollevò l’ascia e la abbatté sul chiavistello. La maniglia si
divelse, ma la serratura non cedette. Arthur scosse la testa. Si
fermò per un momento e, nel silenzio assoluto, Susie udì
distintamente un lieve rumore. Posò la mano sul braccio di
Arthur per richiamare la sua attenzione e stettero in ascolto
con le orecchie tese. Dietro quella porta c’era qualcosa di vivo.
Sentivano un suono strano: non era il suono di una voce umana,
non era il grido di un animale, era qualcosa di completamente
diverso.
Era una sorta di borbottio, roco e veloce, che li riempì di un
gelido terrore, perché era innaturale e misterioso.
«Vieni via, Arthur» disse Susie. «Vieni via».
«Qui c’è un essere vivente» rispose lui.
Non sapeva perché quel suono lo colmasse di orrore. Il
sudore gli inondava la fronte.
«Ci accadrà qualcosa di tremendo» bisbigliò Susie, scossa da
un fremito incontrollabile.
«Non ci resta che abbattere la porta».
Quello spaventoso borbottio si perse nel frastuono provocato
da Arthur. Rapido, senza fermarsi, con tutte le sue forze, egli
cominciò a picchiare con l’ascia sulla porta di quercia. I colpi
piovevano in rapida successione e il rumore rimbombava per la
casa vuota. Poi la porta si spalancò di schianto. Erano stati
talmente a lungo al buio che per un istante furono abbagliati
dalla luce accecante. Indietreggiarono d’istinto, perché, mentre
la porta cedeva, un’ondata di calore piombò su di loro,
mozzando il respiro. La temperatura all’interno era torrida.
Entrarono. La stanza era illuminata da lampade enormi, la cui
luce era amplificata da riflettori; una grande fornace mandava
calore. Non riuscivano a capire a cosa servisse. Le strette
finestre erano chiuse. Il dottor Porhoët scorse un termometro e
rimase stupefatto vedendo quanti gradi segnava. La stanza,
chiaramente, era utilizzata come laboratorio. C’erano grandi
tavoli ricoperti di provette, bacili, vasche di porcellana bianca,
misurini di vetro, utensili d’ogni sorta; ma la cosa più
sorprendente erano le dimensioni dei singoli oggetti. Né Arthur
né il dottor Porhoët avevano mai visto misurini o provette così
grandi. Come nella farmacia di un ospedale, c’erano file di
bottiglie piene di sostanze chimiche. I tre amici rimasero in
silenzio. La stanza deserta dava l’inquietante impressione di
essere stata utilizzata fino a un attimo prima. Susie sentiva che
chi lavorava lì era in piena attività e sarebbe potuto tornare da
un momento all’altro; forse era uscito solo per un attimo, per
controllare come procedeva un esperimento in un’altra stanza.
C’era un grande silenzio. Qualsiasi cosa avesse prodotto quei
rumori strani, non umani, il loro arrivo l’aveva messa a tacere.
La porta che immetteva nella stanza accanto era chiusa.
Arthur la aprì e si ritrovarono in un locale mansardato lungo,
basso, dalle grandi travi a vista, soffocante e illuminato
violentemente proprio come il primo. Anche qui c’erano grandi
tavoli coperti di storte, fornelli, enormi provette e recipienti di
ogni sorta, e una fornace che emanava un calore costante. Lo
sguardo di Arthur si spostò lentamente da un tavolo all’altro ed
egli si chiese a quali esperimenti fosse mai dedito Haddo.
L’aria era pesante, impregnata di un odore particolare: non di
muffa, come nelle stanze chiuse che avevano attraversato, ma
pungente, sgradevole, nauseabondo. Si chiese da dove venisse.
Poi il suo sguardo cadde su un enorme recipiente posato sul
tavolo più vicino alla fornace. Era coperto da un telo bianco. Lo
scoprì. Era alto più di un metro e aveva la forma di una tinozza,
ma era di vetro spesso un paio di centimetri. Dentro c’era una
massa sferica un po’ più grande di un pallone, di un colore
strano, livido. La superficie era liscia ma irregolare, percorsa
da un fitto sistema di vasi sanguigni. Ai due medici ricordò quei
grossi tumori conservati sotto spirito nei musei degli ospedali.
Susie la guardò con disgusto, pur senza capire. All’improvviso
lanciò un grido.
«Santo cielo, si muove!».
Arthur le posò subito una mano sul braccio per zittirla e poi si
chinò, incapace di resistere alla curiosità. Era una massa di
carne diversa da quella di qualsiasi essere umano e pulsava in
modo regolare. Il movimento era evidente, si sollevava e si
abbassava come il seno delicato di una donna addormentata.
Arthur la toccò con un dito ed essa si ritrasse leggermente.
«È calda» disse.
La capovolse e quella rimase nella posizione in cui l’aveva
messa, come se non avesse un verso. Ma notarono, disposta
irregolarmente su un lato, una corta e rada peluria.
Sembravano capelli.
«È viva?» sussurrò Susie, stupefatta e inorridita.
«Sì!».
Arthur pareva affascinato. Non riusciva a distogliere gli occhi
da quella cosa disgustosa. La osservava palpitare con ritmo
regolare.
«Che cosa sarà mai?» domandò.
Guardò il dottor Porhoët con viso sorpreso, pallido. Nella sua
mente si faceva strada un pensiero, ma talmente innaturale,
stravagante, terribile che lo respinse con entrambe le mani,
quasi fosse un oggetto. Poi tutti e tre si voltarono di colpo, con
un sobbalzo, perché avevano di nuovo sentito il borbottio
selvaggio che prima aveva turbato le loro orecchie. Presi dallo
stupore per quell’oggetto rivoltante, avevano dimenticato tutto
il resto. Il suono sembrava straordinariamente vicino e Susie
indietreggiò istintivamente, perché sembrava provenire da un
punto proprio a fianco a lei.
«Qui non c’è nulla» disse Arthur. «Deve essere nella stanza
accanto».
«Oh, Arthur, andiamo via» gridò Susie. «Ho paura di scoprire
cosa ci aspetta. Tutto questo non ci serve a nulla e ciò che
stiamo vedendo potrebbe avvelenare per sempre i nostri
sonni».
Guardò il dottor Porhoët con occhi supplicanti. Egli era
pallido, in preda all’ansia. Il calore di quel luogo gli faceva
sudare copiosamente la fronte.
«Ho visto abbastanza. Non voglio vedere altro» disse.
«Allora voi due potete anche andarvene» rispose Arthur.
«Non desidero costringervi. Ma io vado avanti. Qualunque cosa
sia, voglio scoprirla».
«E Haddo? Se fosse qui, in attesa? Forse stai solo correndo
verso una trappola che ti ha teso».
«Sono certo che Haddo è morto».
Quella voce incomprensibile, inumana, stridula, giunse di
nuovo alle loro orecchie, e Arthur avanzò. Susie non ebbe
esitazioni. Era pronta a seguirlo ovunque. Egli aprì la porta, e
d’improvviso fu la quiete. Qualsiasi cosa producesse quel suono
era là. Era una stanza più grande di tutte le altre, e molto più
alta, perché dava sulla facciata della casa. Le potenti lampade
ne rivelarono subito ogni angolo, ma le travi del soffitto erano
immerse nell’ombra. E là l’odore nauseabondo che li aveva
colpiti prima era talmente forte che per un attimo non
riuscirono a entrare. Era rivoltante. Persino Arthur fu sul punto
di sentirsi male e guardò le finestre per capire se fosse
possibile aprirle, ma, a quanto pareva, erano chiuse
ermeticamente. Il calore estremo rendeva l’aria ancora più
viziata. C’erano tre fornaci, ed erano tutte accese. Per produrre
più calore e bruciare lentamente, avevano lo sportello aperto e
dentro si vedeva il carbone ardente.
La stanza era arredata come le altre, ma ai vari strumenti
chimici di grandi dimensioni si aggiungeva ogni genere di
apparecchiatura elettrica. Qua e là c’erano dei libri, e uno era
rimasto aperto, rovesciato, sul bordo di un tavolo. Ma quel che
attrasse immediatamente la loro attenzione fu una fila di grandi
recipienti, come quello visto nella stanza attigua. Erano tutti
coperti da un telo bianco. Esitarono per un istante, poiché
sapevano di essere al cospetto del grande enigma. Alla fine
Arthur ne scoprì uno. Nessuno parlò. Guardarono con occhi
stupiti. Anche qui c’era una strana massa di carne, grande
quasi quanto un bambino appena nato, e con l’abbozzo di
qualcosa di orrendamente umano. Aveva la vaga forma di un
neonato, ma le gambe erano unite l’una all’altra, tanto che
pareva una mummia avvolta nelle bende. Non aveva né piedi né
ginocchia. Il tronco era informe, ma su entrambi i lati c’era una
bizzarra sporgenza; era come se uno scultore avesse voluto
realizzare una figura con le braccia appena discoste, ma avesse
lasciato incompiuto il lavoro e queste fossero ancora saldate al
corpo. C’era qualcosa che somigliava a una testa umana,
coperta di lunghi capelli biondi, ma era orribile; era una massa
informe, senza occhi, né naso, né bocca. Era di un color rosa
pallido, quasi trasparente. Si percepiva un movimento
lievissimo, lento e ritmico. Anche quella cosa era viva.
Allora Arthur rimosse velocemente i teli che coprivano tutti
gli altri recipienti, tranne uno; e in un batter di ciglia videro
cose talmente abominevoli, orrende, che Susie dovette
stringere i pugni per non urlare. C’era un mostro dalle membra
quasi umane. Era compatto, con piccole braccia grasse,
gambette gonfie e un assurdo corpo tozzo, come la statuina in
porcellana di un mandarino cinese. Un altro aveva il tronco
simile a quello di un bambino, ma cosparso di strane macchie
rosse e grigie. La cosa più raccapricciante era che all’altezza
del collo si biforcava e aveva due teste separate,
spropositatamente grandi, ma perfettamente delineate. I tratti
erano la caricatura di un essere umano, talmente orridi che
quasi non si riusciva a guardarli. Quando la luce li colpì, gli
occhi di ciascuna testa si aprirono lentamente. Erano privi di
pigmentazione, rosa come quelli dei conigli bianchi; per un
attimo fissarono il vuoto con uno sguardo inquietante, cieco.
Poi si richiusero, ed era terrificante vedere che i loro
movimenti non erano simultanei; le palpebre di una testa si
chiudevano lentamente, un po’ prima di quelle dell’altra. C’era
un mostro agghiacciante, fatto di due corpi orribilmente
avviluppati. Era una creatura d’incubo, con quattro braccia e
quattro gambe, e si muoveva davvero. Strisciava con uno
strano movimento sul fondo del grande recipiente in cui era
rinchiusa, in direzione delle tre persone che la osservavano.
Pareva chiedersi cosa stessero facendo. Susie indietreggiò
impaurita, mentre quell’essere si sollevava sulle quattro gambe
nel tentativo di raggiungerli.
Susie si voltò e nascose il viso. Non riusciva a guardare
quelle spaventose contraffazioni di umanità. Era terrorizzata,
umiliata.
«Capisci che cosa significa?» disse ad Arthur il dottor
Porhoët, con un misto di orrore e reverenza nella voce. «Ha
scoperto il segreto della vita».
«Ed è per questi immondi mostri che Margaret è stata
sacrificata, e con lei la sua bellezza?».
I due uomini si guardarono con occhi tristi, stupefatti.
«Ricordate che aveva parlato della fabbricazione di esseri
umani? Ecco quel che è riuscito a produrre, queste cose
deformi» disse il dottore.
«Ce n’è un’altra che non abbiamo ancora visto» disse Arthur.
Indicò il telo che nascondeva il recipiente più grande. Aveva
la sensazione che contenesse il più spaventoso di quei mostri, e
con una certa fatica si costrinse a scoprirlo. Qualcosa saltò su,
facendo sussultare Arthur, e cominciò a farfugliare con tono
stridulo. Erano questi i suoni disumani che avevano udito. Non
era una voce, ma una specie di grido roco, aspro e acuto,
mutevole come il latrato di un cane e terrificante. I suoni
uscivano in rapida successione, rabbiosi, come se l’essere che li
emetteva cercasse di esprimersi con parole furiose. Sembrava
in preda al delirio e batteva i pugni chiusi contro le pareti di
vetro della sua prigione. Le sue erano mani umane e il corpo,
benché assai più grande, somigliava a quello di un bambino
appena nato. Era alto circa un metro e venti. La testa era
deforme, con il cranio gigantesco, liscio e teso come quello di
un idrocefalo, e una spaventosa fronte sporgente. I tratti erano
appena accennati, di dimensioni talmente ridotte da risultare
innaturali, e gli davano un’aria di demoniaca malvagità. Quella
fisionomia piccola e grottesca si contorceva con furia convulsa,
e dalla bocca usciva una bava schiumante. La creatura alzava
sempre più la voce, urlando nella sua rabbia mugugni privi di
senso. Poi, come impazzita, cominciò a scagliarsi con tutto il
corpo contro le pareti di vetro e a sbattere la testa. Sembrava
che d’un tratto fosse stata pervasa da un odio inspiegabile
verso quegli estranei. Cercava di avventarsi su di loro. Le
gengive prive di denti si muovevano spasmodicamente e il volto
si atteggiava a smorfie orribili. Quell’aborto senza nome,
repellente, era quanto di più vicino a una forma umana Oliver
Haddo fosse riuscito a creare.
«Venite via» disse Arthur. «Non dobbiamo guardarlo».
Si affrettò a ricoprire il recipiente.
«Sì, per l’amor di Dio, andiamo via» disse Susie.
«Ancora non abbiamo finito» rispose Arthur. «Non abbiamo
trovato l’autore di tutto questo».
Osservò la stanza nella quale si trovavano, ma non c’era altra
porta oltre quella da cui erano entrati. Poi lanciò un grido
improvviso, fece un passo avanti e crollò sulle ginocchia.
Al di là dei lunghi tavoli ricoperti di strumenti, nascosto,
tanto che in un primo momento non lo avevano notato, Oliver
Haddo giaceva morto sul pavimento. I suoi occhi azzurri erano
spalancati e sembravano più grandi che mai. Avevano ancora
l’espressione terrorizzata dell’agonia e il volto pesante era
stravolto da una paura mortale. Era livido, con gli occhi
iniettati di sangue.
«È morto soffocato» sussurrò il dottor Porhoët.
Arthur indicò il collo di Haddo. Si vedevano chiaramente i
segni delle dita vendicative che, strangolandolo, gli avevano
strappato la vita. Era impossibile avere dubbi.
«Ve lo dicevo che l’avevo ucciso» disse Arthur.
Poi ricordò qualcos’altro. Gli afferrò il braccio destro. Era
sicuro di averglielo rotto durante la lotta disperata
nell’oscurità. Lo tastò con attenzione, tendendo l’orecchio.
Sentì chiaramente le due parti dell’osso sfregare l’una contro
l’altra. Il braccio del morto era rotto proprio nel punto in cui
glielo aveva spezzato lui. Arthur si alzò. Dette un ultimo
sguardo al suo nemico. Quell’immensa massa di carne giaceva
come un mucchio di stracci sul pavimento, orribilmente
scomposta.
«Ora che l’hai visto, vuoi venire via?» disse Susie.
Le parole sembrarono riportarlo repentinamente alla realtà.
«Sì, dobbiamo andare via subito».
Si voltarono e percorsero a passo svelto la soffitta illuminata
fino a raggiungere le scale.
«Adesso scendete e aspettatemi alla porta» disse Arthur. «Vi
raggiungerò subito».
«Cosa hai intenzione di fare?» domandò Susie.
«Non preoccuparti. Fa’ come ti dico. Non ho ancora finito
qui».
Scesero lo scalone di quercia e lo aspettarono nell’atrio. Si
chiedevano cosa stesse facendo, quand’ecco che egli arrivò
correndo.
«Presto!» urlò. «Non c’è tempo da perdere».
«Cosa hai fatto, Arthur?».
«Non è il momento di dare spiegazioni».
Li spinse fuori e sbatté la porta dietro di sé. Prese la mano di
Susie.
«Adesso dobbiamo correre. Coraggio».
Lei non sapeva il motivo di tanta fretta, ma il cuore le batteva
all’impazzata. Arthur la trascinava e il dottor Porhoët li
seguiva. Arthur si tuffò nel bosco. Non dava loro neanche il
tempo di respirare.
«Bisogna far presto» disse.
Giunsero al varco nella palizzata ed egli li aiutò a superarlo.
Poi risistemò con cura le tavole di legno e, prendendo
sottobraccio Susie, si avviò velocemente verso la locanda.
«Sono esausta» disse lei. «Non ce la faccio a camminare così
in fretta».
«Devi farlo. Tra poco potrai riposare quanto vuoi».
Per un po’ camminarono di gran fretta. Di tanto in tanto
Arthur si voltava indietro. La notte era ancora scura e le stelle
brillavano a migliaia. A un certo punto egli rallentò il passo.
«Adesso potete procedere con calma» disse.
Susie vide lo sguardo sorridente che egli le lanciò. I suoi
occhi erano pieni di tenerezza. Le mise affettuosamente un
braccio attorno alle spalle per rincuorarla.
«Devi essere sfinita, poverina» disse. «Mi dispiace averti
messo tanta fretta».
«Non ha alcuna importanza».
Si appoggiò a lui, rassicurata. Con quel braccio che la
proteggeva, si sentiva in grado di affrontare qualsiasi fatica. Il
dottor Porhoët si fermò.
«Devi proprio concedermi il tempo di prepararmi una
sigaretta» disse.
«Può fare tutto quel che vuole» rispose Arthur.
La sua voce aveva un suono diverso, addolcita com’era da un
buonumore che non vi sentivano da molti mesi. Appariva
incredibilmente sollevato. Susie era pronta a dimenticare i
dolori del passato per abbandonarsi alla felicità che finalmente
sembrava aspettarla. Camminavano a passo lento. Ora
potevano godersi quella splendida notte. L’aria era dolcissima,
profumata dall’erica, e la pace incantevole del paesaggio era
un balsamo per il loro sfinimento. Era ancora buio, ma
sapevano che l’alba era vicina, e Susie ne era lieta. A oriente il
blu della notte sfumava in un pallido ametista e gli alberi
parevano emergere lentamente dal buio nella loro spettrale
bellezza. D’un tratto gli uccelli intonarono un coro celestiale.
Un’allodola si levò con un fruscio d’ali e, innalzandosi
superbamente nell’aria, gorgheggiò un allegro cantico per dare
il benvenuto al mattino. Susie, Arthur e il dottor Porhoët
sostarono su una collinetta.
«Fermiamoci qui e aspettiamo il sorgere del sole» disse
Susie.
«Come vuoi».
Rimasero lì tutti e tre; Susie respirò a fondo, con gioia, l’aria
soave dell’alba. La terra ai loro piedi era ammantata di una
foschia violetta, araldo del giorno, e Susie esultò davanti a
tanta bellezza. Ma notò che Arthur, a differenza di lei e del
dottor Porhoët, non guardava a oriente. I suoi occhi erano fissi
sul luogo da cui erano fuggiti. Cosa cercava il suo sguardo nelle
tenebre dell’occidente? Susie si voltò e le sue labbra ruppero in
un grido, poiché le ombre di quel luogo lontano
fiammeggiavano di un bagliore rosso e profondo.
«Sembra un incendio» disse.
«È un incendio. Skene brucia come legna da ardere».
E mentre Arthur parlava, il tetto crollò: all’improvviso,
nell’aria ancora immobile della notte, si levarono fiamme
enormi, altissime; la casa che avevano appena lasciato era
avviluppata in un violento rogo. Era uno spettacolo grandioso
vedere, da lontano, le fiamme alzarsi al cielo e sprofondare,
lanciare ovunque lingue scarlatte come strani mostri titanici,
infuriare di stanza in stanza. Skene bruciava. A nulla sarebbe
servito l’intervento umano. Di lì a poco non sarebbe rimasta
traccia di tutti quei crimini e di tutti quegli orrori. Ormai la
casa era un’unica massa di fiamme. Sembrava una fornace
primordiale, nella quale gli dèi forgiavano inauditi miracoli.
«Arthur, cosa hai fatto?» domandò Susie con un filo di voce.
Egli non rispose, ma le cinse nuovamente le spalle con un
braccio, obbligandola a voltarsi.
«Guarda, sta sorgendo il sole».
A oriente, un lungo raggio di luce si faceva strada nel cielo, e
il sole, giallo e rotondo, si affacciava sul volto della terra.
1
Jag significa «sbornia» [N.d.T.].