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W. Somerset Maugham Il mago Traduzione di Paola Faini Adelphi eBook TITOLO ORIGINALE: The Magician Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata In copertina: Cerchio magico-astrologico delle influenze tra micro e macrocosmo Prima edizione digitale 2020 © THE ROYAL LITERARY FUND © 2020 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO www.adelphi.it ISBN 978-88-459-8282-8 IL MAGO 1 Arthur Burdon e il dottor Porhoët camminavano in silenzio. Avevano pranzato in un ristorante di boulevard Saint-Michel, e ora facevano quattro passi per i giardini del Luxembourg. Il dottor Porhoët procedeva con le spalle curve, le mani dietro la schiena. Osservava la scena con gli occhi dei tanti pittori che hanno cercato di esprimere il loro senso della bellezza attraverso il giardino più suggestivo di Parigi. L’erba era disseminata di foglie secche, ma il loro languido disfarsi conferiva ben poca naturalezza all’artificiosità dello sfondo. Cinti da cespugli ordinati, a loro volta circondati da aiuole ben curate, gli alberi crescevano senza alcuna spontaneità, quasi fossero consapevoli dello schema decorativo che contribuivano a formare. Era autunno, e alcuni erano già spogli. Molti fiori erano appassiti. Il giardino formale faceva pensare a una donna un po’ vana, non più giovane, che con la sua eleganza datata, con cipria e belletto, tentasse di celare dietro un volto intrepido la sua disperazione. Aveva gli stessi sorrisi falsi, stentati, di imposta gaiezza, e quella penosa grazia che si sforza di mantenere il fascino reso inconsistente dal trascorrere veloce degli anni. Il dottor Porhoët si strinse al fragile corpo il pesante mantello di cui, anche in estate, non riusciva a fare a meno. Gran parte della sua vita l’aveva trascorsa in Egitto, lavorando come medico, e le fredde estati europee riuscivano appena a scaldargli il sangue. Il suo ricordo saettò per un istante sopra le strade variopinte di Alessandria; poi, come un uccello che torni al nido, volò via verso i verdi boschi e le coste percosse dal vento della natia Bretagna. I suoi occhi scuri si velarono di una improvvisa malinconia. «Fermiamoci un momento» disse. Presero due sedie di paglia e sedettero accanto alla vasca ottagonale che, con la sua fontana di cupidi, dà il tocco finale alla spettacolare artificiosità del Luxembourg. Il sole ora scaldava con più delicatezza e gli alberi che facevano da cornice alla scena erano dorati, incantevoli. Una balaustra di marmo racchiudeva con garbo lo spiazzo e i fiori, piantati di fresco, erano vivacissimi. In un angolo si scorgevano le pittoresche, tozze torri di Saint-Sulpice, e nell’altro i tetti diseguali di boulevard Saint-Michel. Il Palazzo era grigio, solido. Le balie, alcune con le cuffiette bianche della loro provincia d’origine, altre con i nastri di raso da nounou, marciavano tranquille a due a due, spingendo le carrozzine e chiacchierando. Bambini in abiti dai colori accesi correvano dietro ai cerchi o tentavano di far girare una trottola renitente. Mentre li osservava, le labbra del dottor Porhoët si schiusero in un sorriso talmente dolce che il suo volto sottile, ingiallito dalla lunga esposizione al sole subtropicale, ne fu trasfigurato. Non appariva più come un insignificante omino dalle guance scarne e dalla rada barba grigia, perché quell’espressione sfinita che gli era abituale svaniva dinanzi alla contagiosa simpatia del suo sorriso. Gli occhi infossati scintillavano di un tenero ma ironico buonumore. Passò davanti a loro una guardia avvolta in un romantico mantello da brigante di operetta, con il berretto a visiera simile a quello di un alguacil. Un gruppo di fattorini in divisa azzurra era radunato attorno a un pittore che faceva uno schizzo – nonostante le dita quasi congelate. Qua e là, in pantaloni di velluto sformati, giacche strette e cappelli a tesa larga, sciamavano studenti che sembravano usciti dalle pagine dell’immortale romanzo di Murger. Ma gli studenti di oggi temono di apparire ridicoli, e spesso vanno in giro con le bombette e gli abiti eleganti del boulevardier. Il dottor Porhoët parlava inglese fluentemente, con appena una traccia di accento straniero, ma il suo modo elaborato di esprimersi suggeriva che aveva imparato la lingua più dallo studio dei classici che dalla conversazione. «E come sta Miss Dauncey?» domandò, rivolto al suo amico. Arthur Burdon sorrise. «Oh, credo che stia benissimo. Oggi non l’ho vista, ma andrò a prendere il tè da lei nel pomeriggio. Perché non viene a cena con noi, allo Chien noir?». «Con molto piacere. Ma non preferireste star da soli?». «È venuta a prendermi alla stazione, ieri, e abbiamo cenato insieme. Abbiamo parlato ininterrottamente dalle sei e mezzo fino a mezzanotte». «O meglio, lei parlava e tu ascoltavi, con la beata attenzione di un innamorato felice». Arthur Burdon era appena arrivato a Parigi. Era chirurgo al St. Luke’s Hospital e ufficialmente era venuto per studiare i metodi operatori dei francesi, ma il suo vero scopo era vedere Margaret Dauncey. Aveva lettere di presentazione da parte di chirurghi londinesi di fama e aveva passato una mattinata all’Hôtel-Dieu, dove il chirurgo di turno, avvisato che il visitatore era un collega abile e ardito, dalla reputazione già considerevole in Inghilterra, aveva cercato di impressionarlo con imprese che sconfinavano nei giochi di destrezza. Allo sguardo acuto di Arthur Burdon non era sfuggita la sfumatura di ciarlataneria nei modi del francese, e nonostante ciò l’audace sicurezza della sua mano l’aveva entusiasmato. Durante il pranzo non aveva parlato d’altro, e il dottor Porhoët, attingendo ai suoi ricordi, gli aveva raccontato gli interventi più straordinari a cui aveva assistito in Egitto. Conosceva Arthur Burdon da quando era nato, anzi, non era stato presente alla sua nascita solo perché il chedivè Ismail lo aveva richiamato inaspettatamente al Cairo. Ma il padre di Arthur, un mercante levantino, era stato il suo più caro amico, e fu dunque con piacere tutto speciale che il dottor Porhoët aveva visto il giovanotto seguire i suoi consigli e intraprendere la sua stessa professione, raggiungendo una reputazione che lui mai aveva ottenuto. Era troppo interessato al carattere delle persone che la sorte gli faceva incontrare per nutrire in sé quell’ambizione che amava riscontrare negli altri. Osservava soddisfatto l’orgoglio con cui Arthur seguiva la sua vocazione, e la determinazione, sostenuta dalla fiducia in se stesso e dal talento, che poneva nel diventare un maestro nella sua arte. Il dottor Porhoët sapeva che la varietà di interessi, pur accrescendo il fascino di un uomo, tende anche a indebolirlo. Per superare i colleghi è necessario circoscrivere l’ambito del proprio impegno. Non gli dispiaceva, dunque, che Arthur per molti aspetti fosse limitato. Le belle lettere e le arti significavano poco per lui, né perdeva tempo con le garbate frivolezze che fanno di un uomo un buon conversatore. In compagnia si contentava di ascoltare gli altri, in silenzio, e soltanto se aveva da dire qualcosa di preciso era tentato di unirsi alla conversazione. Lavorava sodo, operava, sezionava, teneva conferenze nel suo ospedale e si dava pena di leggere qualunque pubblicazione medica, non solo in inglese, ma anche in francese e in tedesco. Appena riusciva a conquistarsi un giorno libero, lo passava sui campi da golf di Sunningdale, perché era un giocatore abile e appassionato. Ma al tavolo operatorio Arthur era un altro. Non era più la persona impacciata nei rapporti sociali, sufficientemente consapevole dei suoi limiti per non parlare di ciò che non capiva, e abbastanza sincera da non esprimere ammirazione per quel che non gli piaceva. Là, al contrario, si sentiva pervaso da una sensazione esaltante, del tutto speciale; era conscio del suo potere, e ne godeva. Nessun imprevisto era in grado di turbarlo. Mentre operava, sembrava seguire un istinto preciso; la mano e il cervello lavoravano in un modo quasi automatico. Non esitava mai, non temeva di fallire. Il suo successo era stato pari al suo coraggio, ed era chiaro che ben presto la sua reputazione pubblica avrebbe eguagliato quella già conquistata nella sua professione. Il dottor Porhoët continuava distrattamente a tracciare figure sulla ghiaia con il bastone da passeggio, e si rivolse ad Arthur con il suo sorriso contagioso. «Non smetterò mai di stupirmi dell’imprevedibilità della natura umana» osservò. «È davvero sorprendente che un uomo come te si innamori tanto intensamente di una ragazza come Margaret Dauncey». Arthur non rispose, e il dottor Porhoët, temendo che le sue parole potessero suonare offensive, si affrettò a spiegarsi. «Sai bene che la ritengo una ragazza affascinante. Ha bellezza, grazia, simpatia. Ma i vostri caratteri sono diversi quanto il sole e la luna. Nonostante tu sia nato in Oriente e abbia trascorso l’infanzia in luoghi da mille e una notte, sei la creatura più pratica che io abbia mai conosciuto». «Dica pure di mentalità chiusa, non mi offendo» sorrise Arthur. «Ammetto di non essere dotato né di immaginazione né di senso dell’umorismo. Sono un uomo piuttosto semplice, concreto, ma riesco a vedere con estrema chiarezza fino alla punta del mio naso. E fortunatamente ce l’ho piuttosto lungo». «Uno dei princìpi a me più cari è che è impossibile innamorarsi se si è privi di immaginazione». Ancora una volta Arthur Burdon non rispose, ma uno sguardo strano gli guizzò negli occhi, fissi su un punto davanti a lui. Era simile a quello che pervade gli occhi appassionati di un mistico che, in un momento di estasi, veda la Vergine oggetto delle sue incessanti preghiere. «Ma Miss Dauncey non ha affatto quella ristrettezza di vedute che, perdonami se lo dico, è forse il segreto della tua forza. Dimostra un eccezionale entusiasmo per qualsiasi forma di arte. La bellezza è il suo pane quotidiano. E si interessa con passione ai più vari aspetti della vita». «È giusto che Margaret ami la bellezza, perché ogni millimetro in lei è bellezza» rispose Arthur. Era estremamente restio ad analizzare i propri sentimenti, ma sapeva di essere stato attratto da lei in primo luogo per la sua perfezione fisica, che contrastava in modo stupefacente con le innumerevoli deformità al cui studio aveva fino ad allora consacrato la vita. Quasi contro la sua volontà, tuttavia, gli sfuggì una frase. «La prima volta che l’ho vista, mi è sembrato che dinanzi a me si spalancasse un mondo nuovo». Nelle parole di Arthur risuonava la musica divina dei versi di Keats, e in quella passione il francese colse una nota romantica, presaga di futura tragedia, quindi cercò di dissipare l’ombra che la sua immaginazione aveva gettato su quella bellissima storia d’amore. «Sei molto fortunato, amico mio. Miss Margaret ti ammira quanto tu l’adori. Non si stanca mai di ascoltare le storie noiose che le racconto sulla tua infanzia ad Alessandria, e sono assolutamente certo che si dimostrerà la più perfetta delle mogli». «Ho la stessa certezza» disse Arthur ridendo. Si considerava un uomo felice. Amava Margaret con tutto il cuore ed era sicuro che lei lo ricambiasse di pari affetto. Era impossibile che qualcosa riuscisse a turbare la vita piacevole che avevano progettato insieme. L’amore esaltava la magia del suo lavoro, e il lavoro, viceversa, rendeva l’amore ancora più coinvolgente. «Abbiamo deciso di fissare la data delle nozze» disse. «Sto già acquistando i mobili». «Credo che soltanto un inglese si sarebbe comportato in modo così strano, rimandando senza alcuna ragione il matrimonio per due anni, due anni mortali». «Sa, Margaret aveva dieci anni quando l’ho vista per la prima volta, e solo diciassette quando le ho chiesto di sposarmi. Credeva di avere buoni motivi per essermi grata, e mi avrebbe sposato immediatamente. Ma io sapevo che desiderava con tutta se stessa questi due anni a Parigi, e ho ritenuto che non fosse giusto legarla a me finché non avesse visto almeno un po’ di mondo. Non mi sembrava neanche pronta per il matrimonio, stava ancora maturando». «Non ho forse detto che sei un giovanotto estremamente pratico?» disse sorridendo il dottor Porhoët. «Non che avessimo dei dubbi sui nostri sentimenti. Ci volevamo bene e avevamo molto tempo davanti a noi. Potevamo permetterci di aspettare». In quel momento passò accanto a loro un uomo, un tipo grosso, massiccio, con una vistosa giacca a quadri. Con gran serietà si tolse il cappello per salutare il dottor Porhoët. Il dottore sorrise e ricambiò il saluto. «Quel grassone è un suo amico?» domandò Arthur. «È un tuo compatriota. Si chiama Oliver Haddo». «È uno studente d’arte?» chiese Arthur, con il tono un po’ sprezzante che usava per riferirsi a coloro che non svolgevano un’attività concreta quanto la sua. «Nient’affatto. L’ho incontrato qualche tempo fa, per puro caso. Stavo raccogliendo materiale per il mio volumetto sugli antichi alchimisti e ho consultato molti libri nella biblioteca dell’Arsenal che, come forse saprai, è ricchissima di opere sulle scienze occulte». Il volto di Burdon assunse un’espressione di divertito disprezzo. Non riusciva a capire perché il dottor Porhoët occupasse il suo tempo libero con studi così infruttuosi. Aveva letto il suo libro sui più celebri alchimisti, pubblicato di recente; e per quanto ammirasse la profondità delle conoscenze su cui si basava, non riusciva a giustificare lo spreco di tempo che il suo amico avrebbe potuto più utilmente dedicare a problemi di maggior peso. «Non sono in molti a studiare in quella biblioteca» proseguì il dottore «e ben presto ebbi modo di conoscere, almeno di vista, coloro che la frequentavano regolarmente. Questo signore lo incontravo ogni giorno. Quando arrivavo, il mattino presto, era immerso in strani libri antichi, e quando me ne andavo, esausto, lui ancora leggeva. A volte accadeva che i volumi da me richiesti li avesse lui, e così scoprii che studiava i miei stessi argomenti. Aveva un aspetto fuori del comune, ma non particolarmente affabile. Così, benché intuissi che mi offriva l’opportunità di rivolgergli la parola, non ne approfittai. Ma un giorno stavo facendo ricerche su alcuni argomenti e, curiosamente, pareva impossibile riuscire a trovare fonti documentate. Il bibliotecario non sapeva aiutarmi e avevo ormai rinunciato, quando lui mi portò proprio il libro di cui avevo bisogno. Pensai che il bibliotecario gli avesse parlato delle mie difficoltà e gli fui molto grato. Quel pomeriggio andammo via insieme e i nostri comuni studi ci offrirono un argomento di conversazione. Scoprii così che le sue conoscenze erano incredibilmente vaste e che era in grado di darmi informazioni su opere di cui non avevo mai sentito parlare. Rispetto a me aveva un vantaggio: a quanto pareva sapeva l’ebraico e l’arabo, e aveva studiato la Qabbalah in versione originale». «Ah, gli sarà stata certo di grande utilità» disse Arthur. «E qual è la sua professione?». Il dottor Porhoët fece un sorriso beffardo. «Mio caro amico, non mi fa particolarmente piacere dirtelo. Tremo in ogni fibra al pensiero del tuo illimitato disprezzo». «Ebbene?». «Devi sapere che Parigi è piena di personaggi bizzarri. È il luogo eletto per ogni genere di eccentricità. Può sembrarti incredibile, in quest’anno di grazia, ma il mio amico Oliver Haddo sostiene di essere un mago. E credo che dica sul serio». «Che stupido!» rispose Arthur con veemenza. 2 Margaret Dauncey divideva con Susie Boyd un appartamentino nei pressi di boulevard du Montparnasse, e quel pomeriggio Arthur si stava recando lì per il tè. Le due giovani donne lo aspettavano. L’acqua bolliva sul fornello; tazze e petits fours erano già disposti su un’alzatina per dolci. Susie aspettava con interesse quell’incontro. Aveva sentito molto parlare del giovanotto e sapeva che il rapporto tra lui e Margaret non mancava di romanticismo. Per anni Susie aveva condotto la vita monotona dell’istitutrice in una scuola femminile e si era ormai rassegnata a quel tedio per il resto della vita, quando un lascito testamentario da parte di un lontano parente le aveva fornito una rendita sufficiente per vivere, seppur in maniera modesta. Poco tempo dopo Margaret, che era stata sua allieva, era andata a trovarla per annunciarle la sua intenzione di trascorrere un paio d’anni a Parigi per studiare arte, e Susie aveva accettato volentieri di accompagnarla. Frequentava con impegno l’Académie Colarossi, senza la minima illusione di avere qualche talento, ma semplicemente per divertirsi. Non voleva rinunciare alla piacevole idea di trovarsi in un ambiente un po’ perverso. Dopo tanti anni di duro lavoro, era un sollievo affrontare le cose con più leggerezza, e provava un appagamento infinito nell’osservare la vita di chi le stava intorno. Nutriva un affetto profondo per Margaret e, sebbene il suo personale patrimonio di entusiasmo si stesse esaurendo, riusciva a godere appieno del giovanile rapimento di lei per ogni forma di raffinatezza. Era una donna insignificante, ma non conosceva l’invidia, e l’avvenenza di Margaret le faceva sinceramente piacere. Osservava con orgoglio quasi materno come il trascorrere degli anni aggiungesse nuova grazia a quella bellezza eccezionale. Ma Susie era dotata di un sano buonsenso e faceva in modo, stuzzicandola bonariamente, di stemperare gli elogi di cui gli ammiratori nella classe di disegno ricoprivano quella splendida fanciulla, sia per il suo aspetto sia per il suo talento. Si inorgogliva all’idea di aver contribuito a formare il carattere della donna che avrebbe consegnato ad Arthur Burdon, di averne coltivato le attrattive con delicate cure. Susie sapeva, in parte da frammenti di lettere che Margaret le leggeva, in parte dalla conversazione, quanto appassionatamente Arthur amasse la sua promessa sposa, e le faceva piacere vedere che Margaret ricambiava quell’amore con devozione e riconoscenza. La storia di quella visita a Parigi l’aveva commossa. Margaret era figlia di un avvocato di campagna, presso il quale un tempo Arthur aveva soggiornato regolarmente; quando questi morì, molti anni dopo sua moglie, Arthur si ritrovò tutore ed esecutore testamentario della fanciulla. La mandò a scuola, fece in modo che avesse tutto quel che poteva desiderare e acconsentì subito quando, a diciassette anni, ella espresse il desiderio di andare a Parigi per studiare disegno. Ma, sebbene non avesse mai cercato di guidarla con autorità, le suggerì di non vivere da sola, e fu per questo che lei si rivolse a Susie. I preparativi del viaggio erano appena terminati, quando Margaret scoprì per caso che suo padre era morto senza un soldo e che da allora lei aveva vissuto a carico di Arthur. Andò dunque a trovarlo, con gli occhi colmi di lacrime, e gli disse che ormai sapeva tutto; Arthur ne fu profondamente imbarazzato, in modo quasi paradossale. «Ma perché lo hai fatto?» gli chiese. «Perché non mi hai detto nulla?». «Non mi sembrava giusto farti sentire in obbligo nei miei confronti. Volevo che tu fossi completamente libera». Margaret pianse. Non riuscì a impedirselo. «Sciocchina» disse lui ridendo. «Non mi devi assolutamente nulla. Ho fatto ben poco per te, e quel che ho fatto mi ha dato un piacere immenso». «Non so come potrò mai ripagarti». «Non pensarci nemmeno» esclamò lui. «Mi rendi molto più difficile parlarti delle mie intenzioni». Ella gli lanciò uno sguardo veloce e arrossì. I suoi occhi, di un azzurro intenso, erano velati di lacrime. «Non sai che farei qualsiasi cosa per te?» disse. «Non voglio che tu mi sia grata perché speravo... un giorno o l’altro... di chiederti di sposarmi». La risata di Margaret, mentre gli tendeva le mani, fu irresistibile. «Dovresti saperlo che ho sempre desiderato sentirtelo dire, da quando avevo dieci anni». Era più che pronta a rinunciare all’idea di Parigi e a sposarsi senza indugio, ma Arthur insistette affinché non cambiasse i suoi piani. Dapprima Margaret dichiarò che non sarebbe partita, perché ormai sapeva di non aver denaro e non poteva accettare che il suo innamorato pagasse per lei. «Ma che importanza ha?» disse lui. «Sarò felice di continuare a passarti una piccola rendita, come ho fatto finora. Dopotutto, sono benestante. Mio padre mi ha lasciato una discreta fortuna, e già guadagno molto bene con i miei interventi». «Sì, ma ora è diverso. Prima non lo sapevo. Credevo di spendere il mio denaro». «Se morissi domani, ogni centesimo di quel che ho sarebbe tuo. Ci sposeremo tra due anni, ormai ci conosciamo da troppo tempo per cambiare idea. Credo che le nostre vite siano irrevocabilmente unite». Margaret desiderava moltissimo trascorrere quel periodo a Parigi, e Arthur aveva ormai deciso, per correttezza nei suoi confronti, che non si sarebbero sposati finché lei non avesse compiuto diciannove anni. Margaret si consultò con Susie Boyd, una donna a cui il buonsenso impediva di dare troppo peso al lato romantico di una falsa delicatezza. «Mia cara, se tu avessi già firmato il registro dei matrimoni, questo denaro lo prenderesti senza alcuno scrupolo; poiché non c’è alcun dubbio che vi sposerete, non vedo motivo per non prenderlo ora. Oltretutto, non hai di che vivere, e non sei assolutamente adatta a fare la governante o la dattilografa. Quindi è una scelta obbligata, e faresti meglio a metter da parte i tuoi squisiti sentimenti». Miss Boyd, ora per un motivo ora per l’altro, non aveva mai incontrato Arthur, ma ne aveva sentito parlare così spesso che già le sembrava un vecchio amico. Lo ammirava tanto per il suo talento e per la forza di carattere, quanto per la premurosa tenerezza nei confronti di Margaret. Lo aveva visto in alcune fotografie, ma secondo Margaret non era fotogenico e Susie le aveva chiesto se fosse bello. «No, direi di no,» aveva detto Margaret «ma è un buon soggetto per un ritratto». «Il bello di questa risposta è che suona molto bene e non dice assolutamente nulla» aveva replicato Susie con un sorriso. Dentro di sé riteneva che la passione di Margaret per l’arte fosse una posa, non del tutto sgradevole, destinata a scomparire una volta che lei fosse stata felicemente sposata. Cinque o sei bambini, a suo modo di vedere, erano molto più importanti della pittura. Il talento di Margaret non era certo da disprezzare, ma Susie era convinta che degli insegnanti di solito insensibili non avrebbero dimostrato tutto quell’entusiasmo se Margaret fosse stata insignificante e vecchia come lei. Miss Boyd aveva trent’anni, ma portava i segni di una vita attiva e dimostrava più della sua età. Ma era una di quelle bruttine la cui aria dimessa non ha importanza. Un francese galante l’aveva apertamente definita una belle laide e lei, lungi dal negare la giustezza dell’osservazione, se ne era sentita quasi lusingata. Aveva la bocca larga, occhi piccoli, rotondi e luminosi. La pelle era pallida, sciupata dalle lentiggini; il naso lungo e sottile. Ma il viso era dolce, di una vivacità così attraente che nessuno, in capo a dieci minuti, faceva più caso alla sua bruttezza. E allora si notava che aveva bei capelli, nonostante i fili di bianco qua e là, e che il suo aspetto era incredibilmente lindo. Aveva mani candide e ben fatte, che muoveva continuamente nel fervore del suo gesticolare. Ora che disponeva di mezzi adeguati, curava molto l’abbigliamento, e i suoi vestiti, che costavano molto più di quanto potesse permettersi, erano sempre splendidi. Aveva un gusto raffinato e una sensibilità sicura, che le consentiva di ottenere il meglio da se stessa. Era ben decisa a far sì che chi la definiva brutta fosse allo stesso tempo costretto ad ammettere che il suo modo di vestire era perfetto. Il talento di Susie per gli abiti era notevole e, grazie alla sua influenza, Margaret era sempre vestita all’ultima moda. I gusti della fanciulla tendevano all’artistico, e il suo senso del colore rischiava di farle dimenticare l’equilibrio della discrezione. Se non fosse stato per il deciso influsso di Susie, probabilmente non avrebbe resistito al desiderio di indossare abiti ordinari dalle tinte sgargianti. Ma Susie si esprimeva sempre senza esitazione. «Mia cara, non credo che disegnerai peggio se indosserai un corsetto ben fatto, e avvolgerti in pezze di flanella grigia non accrescerà certo il tuo talento». «Ma la moda è orribile» diceva sorridendo Margaret. «Sciocchezze! La moda è sempre bella. L’anno scorso andavano tanto quei cappellini schiacciati, con la falda rialzata; e l’anno prossimo, per quanto ne so, magari sarà di moda indossare un cappellino a semicupio poggiato sulla nuca. L’arte non ha niente a che fare con un abito elegante, e che una scarpa a punta con il tacco alto sia apprezzata o meno dai pittori del Quartiere Latino non toglie che sia l’unica cosa nella quale un piede femminile avrà un aspetto grazioso». Susie Boyd dichiarò che non avrebbe accettato di vivere con Margaret se non avesse avuto il permesso di sovrintendere al suo guardaroba. «E quando sarai sposata, per l’amor del cielo, invitami a casa vostra almeno quattro volte l’anno, così potrò occuparmi dei tuoi abiti. Non riuscirai mai a conservare l’affetto di tuo marito se ti affiderai soltanto al tuo giudizio». La ricompensa di Miss Boyd era arrivata la sera prima, quando Margaret, rientrando dalla cena con Arthur, aveva ripetuto un’osservazione del fidanzato. «Sei elegantissima!» aveva detto lui. «Temevo quasi che ti saresti presentata con una casacca da pittore». «Spero non gli avrai detto che sono stata io a insistere per farti comprare tutto quello che indossavi» esclamò Susie. «Sì, invece» rispose Margaret con semplicità. «Gli ho detto che non avevo alcun gusto, e che il merito era tutto tuo». «È l’ultima cosa che avresti dovuto fare» rispose Miss Boyd. Ma sentì un moto di simpatia per Margaret, perché quel banale episodio le aveva dimostrato ancora una volta quanto la fanciulla fosse sincera. Sapeva perfettamente che ben poche delle sue amiche avrebbero ammesso una cosa del genere davanti al complimento di un innamorato, ed erano in molte ad approfittare dell’indubbio gusto di Susie. Bussarono alla porta dell’appartamento, ed entrò Arthur. «Ecco il principe azzurro» disse Margaret, guidandolo verso l’amica. «Sono felice di conoscerla, e voglio ringraziarla di tutto quel che ha fatto per Margaret» disse lui sorridendo e prendendo tra le sue la mano che Susie gli tendeva. Susie notò che egli la osservava con aria amichevole, ma con una certa superficialità, quasi fosse troppo attratto dalla sua amata per notare davvero qualcun altro, e si chiese come fosse possibile parlare con un uomo così palesemente assorto. Mentre Margaret preparava il tè, gli occhi di lui ne seguivano i movimenti con una devozione commovente, simile a quella di un cane. Lo sguardo si spostava dalla bocca sorridente alle agili mani. Sembrava che non avesse mai visto nulla che lo estasiasse quanto il modo in cui lei si chinava sul bollitore. Margaret sentì che la stava osservando e si voltò. I loro occhi si incontrarono e per un lungo momento si fissarono in silenzio. «Sembrate una coppia di perfetti idioti» esclamò Susie allegramente. «Su, non vedo l’ora di prendere il tè». I due innamorati risero, facendosi rossi in viso. Arthur pensò che fosse giunto il momento di dire qualcosa di gentile. «Spero che poi mi mostrerà i suoi disegni, Miss Boyd. Margaret dice che sono eccezionali». «La prego, non si senta obbligato a mostrare interesse per me» rispose Susie schiettamente. «Fa delle caricature deliziose» disse Margaret. «Te ne porterò una tua, dove sarai orribile; la farà appena te ne sarai andato». «Non essere impertinente, Margaret». Miss Boyd, tuttavia, non poté trattenersi dal pensare che Arthur Burdon sarebbe stato davvero un ottimo soggetto per una caricatura. Margaret aveva ragione quando diceva che non era bello, ma il suo volto ben rasato era molto interessante per chi, come lei, sapeva guardare attentamente. I due innamorati restavano in silenzio, lasciando Susie a condurre la conversazione. Ella chiacchierò senza sosta, e alla fine ebbe la soddisfazione di attrarre la loro attenzione. Arthur sembrò accorgersi della sua presenza e rise di cuore al buffo resoconto sui compagni dell’Académie Colarossi. Nel frattempo Susie lo osservava. Era molto alto e snello. Aveva la struttura solida di un uomo dello Yorkshire, l’ossatura forte. Riusciva a non essere goffo soprattutto grazie alla serena fiducia in se stesso. Aveva gli zigomi alti, il volto lungo, magro. Il naso e la bocca erano larghi, il colorito pallido. Ma c’erano in lui due caratteristiche che affascinavano Susie: una enorme forza di volontà e una singolare capacità di sopportazione. Sapeva bene quel che voleva ed era deciso a ottenerlo; per lei era una presenza ristoratrice, dopo l’estrema fragilità dei giovani pittori con cui ultimamente aveva avuto a che fare. Ma quegli occhi vispi, scuri, erano capaci di esprimere un’angoscia quasi intollerabile, e la bocca mobile aveva un’intensità nervosa che rivelava con quanta facilità avrebbe potuto soffrire i più profondi tormenti. Il tè era pronto e Arthur si alzò per prendere la sua tazza. «Resta seduto» disse Margaret. «Ti porto io tutto quel che vuoi, e so perfettamente quanto zucchero mettere. Mi piace accudirti». Con la grazia che distingueva tutti i suoi movimenti attraversò la stanza, la tazza piena in una mano e il piatto dei dolci nell’altra. Susie ebbe l’impressione che Arthur traboccasse di gratitudine per la condiscendenza di Margaret. I suoi occhi erano colmi di un’indescrivibile tenerezza mentre prendeva i pasticcini che lei gli porgeva. Margaret sorrise, felice e orgogliosa. Nonostante la sua buona indole, Susie non riuscì a evitare la fitta che le trafisse il cuore. Anche lei era capace di amare. Custodiva un tesoro di caldo affetto che nessuno si era dato pena di cercare. Nessuno le aveva mai sussurrato all’orecchio le allettanti sciocchezze che leggeva nei libri. Sapeva bene di non avere la bellezza dalla sua, ma un tempo, almeno, aveva il fascino vivace della giovinezza. Anche quella se ne era andata, adesso, e la libertà di girare il mondo era arrivata troppo tardi; eppure l’istinto le diceva che era fatta per diventare moglie di un uomo degno e madre dei suoi figli. Si interruppe nel bel mezzo dell’allegro chiacchierio, temendo l’incertezza della propria voce, ma Margaret e Arthur erano troppo occupati per accorgersi che aveva smesso di parlare. Sedevano fianco a fianco, godendosi la felicità della reciproca compagnia. «Che stupida sono!» pensò Susie. Da lungo tempo aveva imparato che buonsenso, intelligenza, un’indole affabile e forza di carattere non avevano alcuna importanza rispetto a un viso grazioso. Si strinse nelle spalle. «Non so se voi ragazzi vi siete accorti che si sta facendo tardi. Se desidera invitarci a cena allo Chien noir, dovrà andarsene e lasciarci preparare». «Benissimo» disse Arthur alzandosi. «Torno in albergo a rinfrescarmi. Ci vediamo alle sette e mezzo». Quando Margaret ebbe chiuso la porta alle sue spalle, si voltò verso l’amica. «Ebbene, che ne dici?» le chiese con un sorriso. «Non ti aspetterai che mi sia formata un’opinione precisa di un uomo che ho visto per così poco». «Sciocchezze!» disse Margaret. Susie esitò per un momento. «Credo che abbia un viso molto bello» disse infine, seria. «Non ho mai visto un uomo la cui onestà di intenzioni traspaia in tal modo». Susie Boyd era così pigra che era impossibile convincerla a occuparsi delle faccende di casa e, mentre Margaret riponeva le tazze, cominciò a disegnare una caricatura, come sempre ispirata da un viso nuovo. Fece uno schizzo di Arthur, spropositatamente alto e dinoccolato, con un naso gigantesco e le ali, l’arco e le frecce del dio dell’amore, ma non era neanche a metà dell’opera che la giudicò stupida, e la strappò stizzita. Quando Margaret rientrò nella stanza, si voltò verso di lei, fissandola. «Che c’è?» disse la fanciulla, sorridendo al suo sguardo severo. Era in piedi, nel mezzo della stanza dall’alto soffitto. Alcune tele incompiute erano poggiate contro il muro; oggetti vari erano appesi qua e là, insieme a fotografie di quadri famosi. Inconsapevolmente aveva assunto una posa magnifica, e la sua bellezza le conferiva, nonostante la giovinezza, una rara dignità. Susie sorrise, quasi prendendosi gioco di lei. «Sembri una dea greca vestita alla parigina» disse. «Cosa devi dirmi?» domandò Margaret, intuendo dallo sguardo inquisitorio che qualcosa frullava nella mente dell’amica. Susie si alzò e le andò vicino. «Sai, prima di conoscerlo speravo con tutto il cuore che ti avrebbe resa felice. Nonostante quel che mi avevi detto di lui, avevo qualche timore. Sapevo che era molto più vecchio di te, e che era il primo uomo che avevi conosciuto. Mi era difficile accettare di affidarti a lui, temevo che ti rendesse infelice». «Non credo che tu debba avere timori». «Ora invece spero con tutto il cuore che sia tu a rendere felice lui. Non è per te che ho paura, adesso, ma per lui». Margaret non rispose. Non riusciva a capire cosa volesse dire Susie. «Non ho mai visto nessuno tanto predisposto all’infelicità. Credo che tu neanche immagini quanto disperata potrebbe essere la sua sofferenza. Stai molto attenta, Margaret, sii buona con lui, perché tu hai il potere di fare di lui il più infelice degli esseri umani». «Oh, ma io voglio che sia felice!» esclamò Margaret con veemenza. «Tu lo sai che gli devo tutto. Farei qualsiasi cosa per renderlo felice, anche a costo di sacrificarmi. Ma non ha senso parlare di sacrificio, perché lo amo a tal punto che tutto ciò che faccio è piacere puro». Le si riempirono gli occhi di lacrime e la voce si spezzò. Susie, con una risatina quasi isterica, le dette un bacio. «Mia cara, per l’amor del cielo, non piangere! Sai bene che non sopporto la gente che piange, e se ti fai vedere con gli occhi rossi lui non mi perdonerà mai». 3 Lo Chien noir, dove Susie Boyd e Margaret cenavano di solito, era il ristorante più caratteristico del quartiere. Al pianoterra c’era una sala dove tutti apprezzavano il cibo. Il piccolo locale, infatti, oltre a essere economico, godeva di buona reputazione per la sua cucina; e il patron, un mercante di cavalli in pensione che si era dato alla ristorazione per avviare un’attività da lasciare al figlio, era un tipo allegro che con la sua festosa socievolezza attirava la clientela. Ma al primo piano c’era una saletta più piccola, con tre tavoli disposti a ferro di cavallo, riservata a una combriccola di pittori inglesi e americani con l’aggiunta di qualche francese, ciascuno con la propria moglie o presunta tale: ma tanta era la rispettabilità dei loro modi che Susie, quando lei e Margaret vennero presentate alla comitiva, si disse che sarebbe stato volgare starsene sulle sue. Secondo lei, era da puritani pretendere le convenzioni di Notting Hill in boulevard du Montparnasse. Le giovani che si accompagnavano ai pittori erano modeste nel comportamento e sobrie nel vestire. Perfette donne di casa, avevano mantenuto intatto il decoro nonostante una posizione difficile; mancava forse la parolina sussurrata davanti a Monsieur le Maire, ma non per questo si impegnavano con minor serietà nel rapporto. La saletta era piena quando entrò Arthur Burdon. Margaret gli aveva conservato un posto tra sé e Miss Boyd. Stavano parlando tutti insieme, in francese, a voce alta, ed era in corso una furiosa discussione sul valore dei tardi impressionisti. Arthur si accomodò e fu frettolosamente presentato a un giovane dinoccolato, che sedeva di fianco a Margaret. Era molto alto, molto magro, molto bello. Portava un colletto rialzato fino al mento, capelli lunghissimi e aveva l’aria languida di un giglio non più fresco. «Mi fa sempre venire in mente un Aubrey Beardsley che ne ha passate di tutti i colori» disse Susie sottovoce. «È una creatura dolce, gentile, ma si chiama Jagson. È virtuoso, diligente. Non ho visto nulla di suo, ma è assolutamente privo di talento». «Come fa a saperlo, se non ha visto i suoi quadri?» domandò Arthur. «È una delle nostre convenzioni, dire che nessuno ha talento» rise Susie. «Ci sopportiamo a vicenda, ma non cadiamo certo nell’errore di pensare che il lavoro del nostro vicino valga qualcosa». «Mi racconti chi sono, uno a uno». «Dunque, guardi quell’omino calvo, nell’angolo. Quello è Warren». Arthur guardò l’uomo che lei gli indicava. Era basso, con la pelata lucida come una palla da biliardo e la barbetta a punta. Aveva occhi sporgenti, luminosi. «Non avrà bevuto un po’ troppo?» domandò Arthur, freddamente. «Sì, certo,» si affrettò a rispondere Susie «ma è sempre in quelle condizioni, e meno è sobrio, più riesce a essere affascinante. È l’unico in questa sala dal quale non sentirà mai una parola cattiva. La cosa strana è che potrebbe essere un grande pittore. Ha un interessantissimo senso del colore, e quanto più è in preda all’ebbrezza, tanto più delicata e bella è la sua pittura. A volte, dopo un numero di apéritifs superiore al solito, si siede in un caffè per fare uno schizzo, con la mano che trema al punto di non riuscire a reggere il pennello; aspetta il momento giusto e di getto traccia dei segni sul cartoncino. Quel che fa rabbia è che ognuno di quei piccoli segni è delizioso. Credo che lui, più di chiunque altro, riesca a interpretare l’anima di Parigi. E quando avrà visto i suoi schizzi – ne ha centinaia, di incredibile grazia, pieni di sentimento e originalità – non potrà mai più guardare Parigi con gli stessi occhi». La minuta cameriera che si affannava a star dietro ai vari desideri dei clienti era adesso davanti a loro, pronta a ricevere l’ordinazione di Arthur. Era una creatura dal viso duro, di età 1 matura, linda nell’abito nero con la cuffietta bianca; aveva un modo quasi materno di servire quella gente, e l’ampio sorriso della sua grande bocca era pieno di fascino. «Quello che mangio non ha importanza. Ci penserà Margaret a ordinarmi la cena». «Tanto valeva che la ordinassi io» rise Susie. Cominciarono a discutere vivacemente con Marie i pregi dei vari piatti, e furono interrotti soltanto dalle allegre proteste di Warren. «Marie, mi prostro ai tuoi piedi e ti imploro: portami del poule au riz». «Oh, mi dia tempo, Monsieur» disse la cameriera. «Non dar retta a quel tale, la sua moralità è pessima, vuole solo allontanarti dall’impervio sentiero della virtù». Arthur giurò che in quel momento era solo l’ardore della fame a guidare il suo cuore, e questo escludeva ogni altro ardore. «Marie, tu non mi ami più!» esclamò Warren. «Un tempo non mi guardavi con tanta freddezza quando ordinavo una bottiglia di vino bianco». Il resto del gruppo fece eco alla sua lamentela, implorandola di non mostrarsi così dura con il pittore calvo e rubizzo. «Mais si, je vous aime, Monsieur Warren,» esclamò lei ridendo «je vous aime tous, tous». Corse di sotto, tra le grida degli uomini e delle donne, per passare le ordinazioni. «L’altro giorno lo Chien noir è stato teatro di una tragedia» disse Susie. «Marie ha lasciato il suo spasimante, un cameriere dell’Avenue, e non ne ha voluto sapere di una riconciliazione. Lui ha aspettato di avere la serata libera, poi si è presentato nella sala di sotto e ha ordinato la cena. Naturalmente lei è stata costretta a servirlo, e ogni volta che gli portava i piatti lui ricominciava a discutere e le loro lacrime si mescolavano». «Ha pianto a dirotto» intervenne un giovane con i capelli ben pettinati e il naso grosso. «Ha pianto sulle nostre portate e tutto quello che abbiamo mangiato era salato di lacrime. L’abbiamo implorata di non cedere e se non fosse stato per il nostro incoraggiamento sarebbe tornata sui suoi passi, ma lui la picchia». Marie ricomparve con i piatti, senza che il corteggiamento di poco prima avesse lasciato alcun segno in lei. Susie catturò ancora una volta l’attenzione di Arthur Burdon. «E ora, per favore, osservi l’uomo seduto accanto a Warren». Arthur vide un tipo alto, scuro, spettinato, con lineamenti molto marcati e ispidi baffi neri. «Quello è O’Brien, un esempio di quanto, per fare un pittore, non bastino forza di volontà e onestà d’intenti. È un fallito, lo sa, e l’amarezza gli ha guastato l’anima. Se lo ascolta, lo sentirà criticare aspramente ogni pittore di fama. Non riesce a perdonare chi ha successo, e non riconosce meriti a nessuno che non sia morto e sepolto». «Proprio un’allegra compagnia» rispose Arthur. «E chi è quella signora massiccia seduta accanto a lui, con quel cappello vistoso?». «Quella è la madre di Madame Rouge, la donnina pallida che le siede accanto e che è l’amante di Rouge, l’illustratore della “Semaine”. In un primo momento mi faceva sorridere l’idea che la signora lo chiamasse mon gendre, mio genero, e che accettasse l’unione irregolare di sua figlia, disinteressandosi con tanta grandezza d’animo del decoro; ma ormai la cosa mi sembra del tutto naturale». La madre di Madame Rouge mostrava ancora qualche traccia di bellezza e sedeva tutta impettita, mordicchiando con estrema dignità una coscia di pollo. Arthur si affrettò a distogliere lo sguardo perché, incontrando quello di lei, si era visto lanciare un’occhiata sensuale. Rouge aveva l’aria di un prospero commerciante, più che di un artista, ma era tutto preso a discutere con O’Brien, il cui francese era perfetto, sul valore di Cézanne. Per lui era un grande maestro, per l’altro un impudente ciarlatano. Ciascuno dei due insisteva nella sua opinione, accalorandosi come se bastasse continuare a ripetere qualcosa per renderla più convincente. «Accanto a me c’è Madame Meyer» continuò Susie. «Faceva la governante in Polonia, ma era troppo graziosa per quel lavoro; ora vive con il paesaggista seduto a fianco a lei». Lo sguardo di Arthur seguì le sue parole e si posò su un uomo ben rasato, con una gran massa di riccioli grigi. Aveva un bel viso, palesemente da esteta, ed era vestito con eleganza. I suoi modi e il suo eloquio avevano tutta la fastosità del pieno romanticismo. Si esprimeva in un flusso di frasi sentenziose e diceva cose giuste quanto ovvie. L’allegra dama che condivideva le sue fortune ascoltava ammirata la sua saggezza, ed egli ne era chiaramente lusingato. Miss Boyd aveva descritto ad Arthur tutti i presenti, tranne il giovane Raggles, discreto pittore di nature morte, e Clayson, lo scultore americano. Allo Chien noir Raggles incarnava il rango e la moda. Era vestito in modo assai ricercato, da cavallerizzo, e camminava con le gambe un po’ arcuate, come se passasse il tempo in sella. Era l’unico a usare una pomata profumata sui capelli lisci. La particolarità che più lo distingueva era l’ampio pastrano dalla fodera scarlatta; Warren, che aveva cattiva memoria per i nomi, riusciva a ricordarlo solo per quel dettaglio. Sembrava conoscere varie duchesse che vivevano nelle strade frequentate dal bel mondo e di tanto in tanto cenava con loro in un solenne splendore. Clayson aveva il naso rubizzo e la noiosa abitudine di dire cose brillanti. Con i suoi occhi luminosi, le guance arrossate e il pizzetto chiaro somigliava in tutto e per tutto a Frans Hals, ma era vestito come la caricatura di un francese in un giornale umoristico. Parlava inglese con accento parigino. Miss Boyd si apprestava a farlo allegramente a pezzi, quando si spalancò la porta e un uomo dalla stazza notevole entrò nella saletta. Si liberò del mantello con gesto teatrale. «Marie, sgravami di questa palandrana e appendi a un piolo il sombrero». Parlava un francese esecrabile, ma con tale magniloquenza che tutti risero. «Questo non lo conosco» disse Susie. «Io sì, almeno di vista» rispose Burdon. Si sporse verso il dottor Porhoët, che, seduto di fronte a lui, mangiava in silenzio e si godeva le sciocchezze dette dagli altri. «Quello non è il suo mago?». «Oliver Haddo» disse il dottor Porhoët, annuendo divertito. Il nuovo arrivato era fermo in fondo alla sala, con gli sguardi di tutti appuntati addosso. Assunse una postura imperiosa e per un attimo rimase perfettamente immobile. «Sembra in posa, Haddo» disse Warren con voce roca. «Non può evitarlo, neanche se si sforza» disse Clayson. Oliver Haddo spostò lentamente lo sguardo sul pittore. «Mi duole vedere, o eccellentissimo Warren, che il succo maturo dell’apéritif ha reso vitreo il suo occhio scintillante». «Vuol forse dire che sono ubriaco?». «Volendo usare una parola grossolana ma espressiva, sì, ubriaco». Con fare grottesco il pittore si abbandonò contro lo schienale, come se fosse stato colpito. Haddo guardò fisso Clayson. «Quante volte le ho spiegato, o Clayson, che la sua deplorevole mancanza di educazione le impedisce di raggiungere il livello di arguzia a cui aspira?». Per un attimo Oliver Haddo riprese la sua posa a effetto, e Susie lo osservò sorridendo. Era un uomo di mole notevole, sul metro e novanta; ma la cosa che più lo caratterizzava era un’incredibile obesità. Il ventre era di dimensioni imponenti, il volto grosso e carnoso. Aveva assunto l’atteggiamento arrogante di Del Borro nel ritratto di Velázquez conservato a Berlino e sfoggiava volutamente lo stesso sorriso sprezzante. Si fece avanti e strinse la mano al dottor Porhoët. «Salve, fratello mago! In lei saluto, se non un maestro, quanto meno uno studioso non indegno della mia stima». Dinanzi a tanta pomposità Susie fu presa da un convulso di riso, ed egli le si rivolse con grande serietà. «Signora, la sua risata è più dolce al mio orecchio del canto di Bulbul in un giardino persiano». Il dottor Porhoët intervenne per fare le presentazioni. Il mago si inchinò solennemente a Susie Boyd, a Margaret e ad Arthur Burdon. Poi tese la mano all’arcigno pittore irlandese. «Bene, mio caro O’Brien, lei come al solito ha mescolato le acque dell’amarezza con il leggero chiaretto di Bordeaux». «Perché non si siede e non pensa a mangiare?» rispose l’altro con tono rude. «Ah, amico mio, vorrei riuscire a ficcarle in testa che la malcreanza non è sinonimo di spiritosaggine. Non avrò vissuto invano se col tempo le avrò insegnato che lo stiletto dell’ironia è uno strumento più efficace del manganello dell’insolenza». O’Brien arrossì di stizza, ma su due piedi non riuscì a trovare una risposta, e Haddo rivolse la sua attenzione al giovane scialbo e innocuo che sedeva accanto a Margaret. «I miei occhi mi ingannano o qui abbiamo quel Jagson il cui nome, nella sua inanità, tanto bene si addice a chi lo porta? Sono ansioso di sapere se lei continua a dedicarsi inutilmente all’arte anziché più utilmente alla moda». Lo sventurato, aggredito con tanta brutalità, arrossì debolmente, senza replicare; Haddo passò al francese, Meyer, come se lo ritenesse più degno del suo scherno. «Temo che il mio arrivo vi abbia interrotti. Era forse in corso la celebre arringa sulla grandezza di Michelangelo? Oppure l’analisi minuziosa dell’arte di Wagner?». «Stavamo per andarcene» disse Meyer, alzandosi corrucciato. «Sono desolato di perdere le perle di saggezza che di solito cadono dalle sue dotte labbra» replicò Haddo, mentre l’altro spostava educatamente la sedia di Madame Meyer. Haddo si accomodò con un sorriso. «Ho visto che la sala era affollata, e con intuito napoleonico ho pensato che avrei potuto trovar posto soltanto insultando qualcuno. Dovreste congratularvi con me, perché le mie canzonature, che quello sciocco di Raggles scambia per spiritosaggini, hanno spinto ad andarsene una persona che vive apertamente nel peccato, liberando così due sedie e permettendomi di consumare un sobrio pasto con spazio sufficiente per i miei gomiti». Marie gli portò il menu ed egli lo studiò con grande serietà. «Prenderò del gelato alla vaniglia, o beneamata, una tenera ala di pollo, una sogliola fritta e della squisita zuppa di piselli». «Bien, un potage, une sole, un pollo e un gelato». «Ma perché vuoi servirmeli in quest’ordine, e non come ti ho detto io?». Marie e le due francesi dettero in esclamazioni dinanzi a tanta stravaganza, ma Oliver Haddo sventagliò la sua mano grassa. «Voglio cominciare con il gelato, o Marie, per raffreddare la passione di cui mi infiammano i tuoi occhi, e poi, senza esitazione, divorerò l’ala di un pollo per essere più forte dinanzi al tuo sorriso. Procederò quindi con una sogliola fresca, e con la zuppa di piselli chiuderò un pasto alquanto sostanzioso». Essendo riuscito a catturare l’attenzione generale nella sala, Oliver Haddo cominciò a mangiare le portate nell’ordine da lui indicato. Margaret e Burdon lo guardavano con occhi sprezzanti, mentre Susie, per nulla disturbata dalla vanità che cerca di attrarre l’altrui attenzione, lo osservava piena di curiosità. Di aspetto non era vecchio, anche se la sua corpulenza aggiungeva anni all’età che dimostrava. I lineamenti erano belli, le orecchie piccole, il naso delicato. Aveva denti grossi, ma bianchi e regolari. La bocca era larga, le labbra turgide e umide. Aveva un collo taurino. I capelli scuri e ricci erano radi sulla fronte e sulle tempie, tanto che il volto glabro pareva di una sconcertante nudità. La calvizie sulla sommità della testa rammentava vagamente una tonsura. Aveva l’aria di un prete sensuale, malvagio. Margaret gli lanciò un’occhiata di sottecchi mentre mangiava, e d’improvviso tremò con violenza: la vista di quell’uomo la riempiva di un disgusto incontrollabile. Egli sollevò lentamente lo sguardo e lei lo distolse, arrossendo come se fosse stata colta in flagrante indiscrezione. Gli occhi erano la cosa più singolare in lui. Non erano grandi, ma di un azzurro chiarissimo, e fissavano l’interlocutore in modo molto imbarazzante. Dapprima Susie non riusciva a spiegarsi che cosa avessero di tanto particolare, ma ben presto lo capì: gli occhi della maggior parte delle persone convergono su chi guardano; quelli di Oliver Haddo, invece, rimanevano paralleli, spontaneamente o per un’abitudine acquisita a effetto. Davano l’impressione di attraversare il corpo con lo sguardo, riuscendo a vedere la parete al di là. Era qualcosa di innaturale. Un’altra stranezza era l’impossibilità di capire se fosse serio. C’era un’aria ironica in quello sguardo bizzarro, un sorriso sardonico sulle labbra, e non si sapeva come interpretare il suo sfrontato modo di esprimersi. Era irritante non avere la certezza, mentre si rideva di lui, di non essere in realtà vittime di un suo elaborato scherzo. La sua presenza gettò un insolito gelo sulla comitiva. I francesi si alzarono e se ne andarono. Warren uscì barcollando con O’Brien, il cui rozzo sarcasmo non riusciva a tener testa agli aspri dileggi di Haddo. Raggles indossò il pastrano con la fodera scarlatta e uscì in compagnia di Jagson, ancora scosso dall’attacco insolente di Haddo. Lo scultore americano pagò il conto in silenzio. Era sulla porta, quando Haddo lo fermò. «Lei ha modellato leoni al Jardin des Plantes, mio caro Clayson. Ma ne è mai andato a caccia nelle loro pianure natie?». «No, mai». Clayson, pur non comprendendo perché Haddo gli avesse fatto quella domanda, cominciò ad avvampare di un’ira incipiente. «Allora lei non ha visto gli sciacalli, intenti a divorare un’antilope morta, darsi alla fuga terrorizzati quando il re degli animali si avvicina lentamente per fare il suo pasto». Clayson uscì sbattendo la porta. Haddo rimase con Margaret, Arthur Burdon, il dottor Porhoët e Susie. Sorrise senza parlare. «Perché, lei è un cacciatore di leoni?» domandò Susie con tono un po’ sfacciato. Lui le rivolse uno sguardo diretto e misterioso. «Non c’è nessuno che mi stia alla pari nella caccia grossa. Ho ucciso più leoni di chiunque altro. Credo che forse solo Jules Gérard, che nell’Ottocento i francesi chiamavano le tueur de lions, fosse alla mia altezza, ma non mi sovviene nessun altro». L’affermazione, fatta con incredibile calma, fu seguita da un momento di silenzio. Margaret lo fissò, stupefatta. «Lei non soffre certo di falsa modestia» disse Arthur Burdon. «La falsa modestia è un segno di cattiva educazione, da cui la mia nascita mi protegge ampiamente». Il dottor Porhoët lo guardò sorridendo, ironico. «Vorrei che Mr Haddo cogliesse l’opportunità di svelarci il mistero della sua nascita e della sua famiglia. Ho il sospetto che, come l’immortale Cagliostro, egli sia nato da ignoti ma nobili genitori, e sia stato allevato in segreto all’interno di palazzi orientali». «Quanto alle mie origini sono da paragonare più a Denis Zachaire o a Raimondo Lullo. Il mio avo, George Haddo, giunse in Scozia al seguito di Anna di Danimarca e si vide accordare i possedimenti dello Staffordshire che ancora mi appartengono quando Giacomo I, che di Anna era il consorte, salì sul trono inglese. La mia famiglia si è imparentata con il sangue più nobile d’Inghilterra, e i Mereston, i Parnaby, gli Hollington sono stati onorati di offrire le loro figlie al mio casato». «Questi fatti saranno certo verificabili nelle enciclopedie» disse Arthur, secco. «Naturalmente» ribatté Oliver. «E i palazzi orientali nei quali ha passato la sua giovinezza, gli schiavi neri che la servivano e gli sceicchi barbuti che le svelavano i segreti della conoscenza?» esclamò il dottor Porhoët. «Ho studiato a Eton e mi sono laureato a Oxford nel 1896». «Le spiacerebbe dirmi quale college ha frequentato?» chiese Arthur. «Ero al Christ Church». «Allora era insieme a Frank Hurrell». «Attualmente aiuto primario presso il St. Luke’s Hospital. Era uno dei miei più cari amici». «Gli scriverò per chiedergli di lei». «Muoio dalla voglia di sapere cosa ha fatto di tutti i leoni che ha ucciso» disse Susie Boyd. La sfrontatezza di quell’uomo non la esasperava quanto esasperava, con fin troppa evidenza, Margaret e Arthur. Haddo la divertiva, ed era ansiosa di riuscire a farlo parlare. «Fanno bella mostra di sé distesi sui pavimenti di Skene, la mia residenza nello Staffordshire». Si interruppe un attimo per accendersi un sigaro. «Sono l’unico essere vivente ad aver ucciso tre leoni con tre colpi di seguito». «Pensavo li avesse abbattuti a colpi di oratoria» disse Arthur. Oliver si appoggiò contro lo schienale e posò le sue enormi mani sul tavolo. «Burkhardt, il tedesco che era a caccia con me, aveva la febbre e non poteva muoversi dal letto. Una notte fui svegliato dai miei buoi, molto irrequieti, e udii, vicinissimo, il ruggito dei leoni. Presi la carabina e uscii dalla tenda. C’era solo una pallida luce lunare. Mi avviai da solo, perché sapevo che gli indigeni non mi sarebbero stati di alcuna utilità. Ben presto trovai la carcassa di un’antilope, mezzo divorata, e decisi di aspettare il ritorno dei leoni. Mi nascosi dietro alcune rocce, a una ventina di passi dalla preda. Tutt’intorno a me l’immensità dell’Africa, il silenzio. Attesi, immobile, ora dopo ora, finché cominciò ad albeggiare. Finalmente apparvero, sopra una rupe, tre leoni. Il giorno prima avevo notato le tracce di un maschio e due femmine». «Posso chiederle come aveva fatto a distinguere il sesso?» domandò Arthur, incredulo. «Le impronte delle zampe anteriori di un leone sono sproporzionatamente più grandi rispetto a quelle delle zampe posteriori. Le zampe delle leonesse sono tutte più o meno della stessa dimensione». «La prego, continui» disse Susie. «Erano davanti a me, li vedevo perfettamente; protesi in avanti, in quella debole luce, apparivano giganteschi come le strane bestie delle Mille e una notte. Mirai alla leonessa che mi era più vicina e feci fuoco. Senza un rumore, come un toro abbattuto al primo colpo, crollò. Il maschio emise un ruggito profondo. Rapido, infilai un’altra cartuccia nel fucile, poi mi resi conto che mi aveva visto. Abbassò la testa, la criniera gonfia, la coda dritta e ondeggiante, la bocca tirata a scoprire le gengive rosse e le enormi zanne bianche. Continuava a ringhiare, lo sguardo fiammeggiante. Poi avanzò di qualche passo, a testa bassa; gli occhi fissi nei miei, rabbiosi. D’improvviso drizzò la coda e, quando un leone fa così, sta per caricare. Mirai al petto, velocemente, e feci fuoco. Si sollevò sulle zampe posteriori, ruggendo forte e annaspando nell’aria. Poi ricadde morto. Restava una leonessa, e in mezzo al fumo la vidi lanciarsi su di me. Fuggire era impossibile, alle mie spalle c’erano alte rocce che non potevo scalare. Lei avanzava con un brontolio roco, convulso; animato dal coraggio della disperazione sparai il colpo che mi restava. La mancai. Indietreggiai di un passo, sperando di riuscire a mettere una nuova cartuccia nel fucile, e caddi a nemmeno due lunghezze da quella bestia feroce. Mi mancò. La caduta mi aveva salvato. Poi, all’improvviso, la vidi crollare. Dunque l’avevo colpita! Il proiettile le aveva trapassato il cuore, ma nello slancio lei aveva continuato ad avanzare. Quando a fatica mi rialzai scoprii che era moribonda. Tornai al campo e divorai una sontuosa colazione». La storia di Oliver Haddo fu accolta da un silenzio colmo di stupore. Nessuno poteva asserire che non fosse vera, ma egli la raccontava con tanta magniloquenza da riuscire poco convincente. Arthur era pronto a scommettere una bella somma che non ci fosse nulla di vero. Non aveva mai incontrato una persona del genere e non riusciva a capire che gusto potesse provare nell’inventare elaborate e improbabili avventure. «Lei è sicuramente molto coraggioso» disse. «Seguire un leone ferito nel suo nascondiglio è probabilmente la cosa più pericolosa al mondo» disse Haddo, tranquillo. «Richiede freddezza assoluta e nervi d’acciaio». La risposta fece un effetto strano ad Arthur. Lanciò un rapido sguardo a Haddo e d’improvviso fu colto da un attacco di riso incontrollabile. Si appoggiò allo schienale e rise fragorosamente. La sua ilarità contagiò gli altri, e tutti scoppiarono a ridere. Oliver li osservò, serissimo. Non sembrava sconcertato e nemmeno sorpreso. Quando Arthur si ricompose, scoprì che gli strani occhi di Haddo lo fissavano. «La sua risata mi rammenta il crepitio dei pruni sotto una pentola» disse. Haddo si guardò attorno. Gli occhi mantennero tutta la loro fissità, ma le labbra si schiusero in un sorriso bizzarro, sardonico. «Anche il più debole degli intelletti comprende con chiarezza che un uomo può comandare gli spiriti elementari soltanto se in lui non c’è alcun timore. Una mente capricciosa non potrà mai governare le silfidi, né una disposizione mutevole le ondine». Arthur lo fissò, stupefatto. Non aveva la minima idea di cosa stesse dicendo quell’uomo. Ma Haddo non badò a lui. «Al contrario, se l’adepto è attivo, adattabile, forte, il mondo intero obbedirà al suo comando. Egli camminerà nella tempesta, e la pioggia non bagnerà il suo capo. Il vento non scomporrà neanche una piega del suo mantello. Traverserà il fuoco e non si brucerà». Il dottor Porhoët si lanciò in una spiegazione di queste criptiche asserzioni. «Cher ami, le signore, qui, non hanno alcuna conoscenza degli esseri misteriosi di cui lei parla. È necessario che sappiano che, nel Medioevo, la fantasia popolava i quattro elementi di intelligenze, in genere invisibili; alcune erano amiche dell’uomo, altre gli erano ostili. Si riteneva che fossero potenti e consapevoli del loro potere, seppur coscienti di non avere un’anima. La loro vita dipendeva dalla persistenza di un qualche oggetto naturale, e dunque per loro non poteva esserci immortalità. Alla fine sarebbero tornate nell’abisso della notte perenne, e le tenebre della morte le avrebbero tormentate in eterno. Tuttavia si riteneva che così come l’uomo, mediante la sua unione con Dio, aveva conquistato un barlume di essenza divina, anche le silfidi, gli gnomi, le ondine, le salamandre, grazie alla loro associazione con l’uomo, fossero partecipi di questa sua immortalità. E molte delle loro donne, la cui bellezza era ben più che umana, conquistavano un’anima amando un esponente della stirpe degli uomini. Accadeva però anche il contrario, e spesso un giovane per amore perdeva la sua immortalità, perché lasciava i luoghi sicuri abitati dalla sua gente per dimorare con gli esseri senz’anima dell’acqua dei ruscelli o dell’aria delle foreste». «Non immaginavo che lei parlasse per simboli» disse Arthur a Oliver Haddo. Questi si strinse nelle spalle. «Cos’altro è il mondo se non immagine simbolica? La vita stessa non è che un simbolo. Solo il saggio può dire cos’è la realtà». «Confesso che, quando comincia a parlare di magia e di misticismo, va al di là della mia portata». «Eppure la magia non è altro che l’arte di impiegare consapevolmente mezzi invisibili per produrre effetti visibili. Volontà, amore, immaginazione sono poteri magici che chiunque possiede; chi sa come svilupparli appieno è un mago. La magia ha un solo dogma, ovvero che il visibile è la misura dell’invisibile». «Ci dica quali sono i poteri di un adepto». «Sono elencati in un manoscritto ebraico del Cinquecento, che è in mio possesso. Ventuno sono i privilegi di colui che stringe nella mano destra le chiavi di Salomone e nella sinistra il ramo del mandorlo in fiore. Costui può scorgere il volto di Dio senza morire e conversare con i sette geni che comandano l’armata celeste. È superiore a qualsivoglia afflizione e paura. Regna in cielo, e gli inferi lo servono. Detiene il segreto della resurrezione dei morti e la chiave dell’immortalità». «Se tutto questo le appartiene, allora nulla le è precluso» disse Arthur, ironico. «Chiunque può prendersi gioco di quel che non conosce» replicò Haddo, stringendosi nelle spalle possenti. Arthur non rispose, osservandolo incuriosito. Si chiedeva se credesse davvero a quelle assurdità, o se stesse volgarmente divertendosi alle loro spalle. Haddo sembrava serio, ma un’espressione strana aleggiava sulle sue labbra, uno scintillio duro negli occhi; l’effetto che ne scaturiva aveva qualcosa di falso. Susie si godeva lo spettacolo. La divertiva starsene in una prosaica trattoria e sentir discutere, con apparente gravità, di argomenti occulti. Il dottor Porhoët ruppe il silenzio. «Arago, dal quale ha preso nome un boulevard nelle vicinanze, sosteneva che il dubbio è un segno di modestia che raramente ha ostacolato il progresso della scienza. Non altrettanto può dirsi dell’incredulità, e manca di prudenza colui che usa la parola “impossibile” al di fuori della matematica pura. Va ricordato che secondo Lattanzio era insensato credere all’esistenza degli antipodi, mentre per sant’Agostino era fuor di questione, in ogni caso, immaginarli come terre abitate». «Si direbbe che lei non è affatto scettico, caro dottore» disse Miss Boyd. «Da giovane non credevo in nulla, poiché la scienza mi aveva insegnato a diffidare persino dell’evidenza dei miei cinque sensi» replicò, stringendosi nelle spalle. «Ma in Oriente ho visto molte cose impossibili da spiegare con i processi scientifici a noi noti. Mr Haddo vi ha dato una definizione della magia, io ve ne darò un’altra. Può essere semplicemente descritta come l’impiego intelligente di forze sconosciute, che il volgo non comprende o non tiene in alcun conto. Un giovane che vada a vivere in Oriente al principio si fa gioco del concetto imperante di magia, ma qualcosa nell’aria prosciuga la linfa del suo scetticismo. Dopo qualche anno, arriva inconsapevolmente a condividere l’opinione di molti saggi, i quali ritengono che, in fondo, qualcosa di vero c’è». Arthur Burdon ebbe un gesto di stizza. «Non credo che, pur vivendo a lungo in un paese orientale, potrei mai arrivare a credere in qualcosa che abbia contro di sé tutto il peso della scienza. Se ci fosse anche una sola parola vera in quel che dice Haddo, noi saremmo incapaci di costruire una qualsiasi ragionevole teoria sull’universo». «Per essere un uomo di scienza, lei ragiona con incredibile superficialità» disse Haddo, gelido, e il suo tono era talmente offensivo da risultare profondamente irritante. «Dovrebbe sapere che la scienza, trattando solo gli aspetti generali, non prende in considerazione i singoli casi che contraddicono la maggior parte delle evenienze. Può talvolta capitare che il cuore sia nella parte destra del corpo, ma lei non poggerebbe mai lo stetoscopio in un punto diverso dal solito. È possibile che, in particolari condizioni, non si applichi la legge di gravità, eppure lei vive nella convinzione assoluta che essa sia universalmente valida. Ora, ci sono alcuni di noi che scelgono di considerare soltanto queste eccezioni alla norma. Lo stolto che gioca al casinò di Montecarlo punta il suo denaro sul rosso o sul nero, e in genere esce o l’uno o l’altro. Ma ogni tanto esce lo zero, e lo stolto perde. Mentre noi, che abbiamo sempre puntato sullo zero, vinciamo una posta moltiplicata. Esistono uomini la cui immaginazione si innalza al di sopra della banalità del genere umano. Essi sarebbero disposti a perdere tutto quel che hanno in cambio di una grande ricompensa. Le pare poco conoscere il futuro come i profeti del tempo antico e, conoscendolo, forzare le porte dell’inconoscibile?». D’improvviso la serietà giocosa con la quale parlava lo abbandonò. Una luce singolare gli illuminò lo sguardo, e la voce si arrochì. Finalmente compresero che era serio. «Ma cosa può saperne lei di quella bramosia di grandi segreti che mi consuma fin nel fondo dell’anima?». «Comunque, sono proprio felice di aver incontrato un mago» esclamò Susie allegramente. «Ah, non mi definisca così» disse lui con un gesto plateale delle mani grasse, riconquistando immediatamente la sua incredibile disinvoltura. «Piuttosto, vorrei essere conosciuto come il Fratello dell’Ombra». «Avrei giurato che tra lei e una cosa tanto immateriale potesse esserci solo una parentela lontanissima» disse Arthur ridendo. Il volto di Oliver si fece rosso per la furia. I suoi strani occhi azzurri si raggelarono d’odio e le labbra scarlatte si tesero al punto da fargli assumere l’espressione spietata di un Nerone. La battuta sulla sua obesità lo aveva punto nel vivo. Susie temeva che avrebbe dato una risposta insultante e che ne sarebbe scaturita una lite. «Bene, se vogliamo andare alla fiera dobbiamo proprio muoverci» si affrettò a dire. «Marie non vede l’ora di liberarsi di noi». Si alzarono e scesero rumorosamente le scale, uscendo per strada. 4 Si ritrovarono nella strada stretta e affollata che portava a boulevard du Montparnasse. I tram elettrici la percorrevano tra scampanellii acuti e una fiumana di gente si riversava sui marciapiedi. La fiera si teneva al Lion de Belfort, a poco meno di due chilometri, e Arthur fermò una vettura. Susie disse al conducente dove volevano scendere. Notò che Haddo, nell’attesa che partissero, aveva posato la mano sul collo del cavallo. D’improvviso, senza una ragione apparente, la bestia cominciò a tremare. Il tremito gli percorse il corpo e scese fino alle zampe; il poveretto fremeva dalla testa ai piedi come se avesse il capostorno. Il cocchiere saltò giù da cassetta e gli bloccò la testa. Margaret e Susie scesero. Era uno spettacolo orribile, penoso. Il cavallo non dava l’impressione di patire un dolore fisico, quanto piuttosto di essere terrorizzato. Senza sapere perché, Susie ebbe un’idea. «Tolga la mano, Mr Haddo» disse bruscamente. Egli sorrise, e fece come gli era stato ordinato. In quello stesso istante il tremito diminuì e dopo un attimo il povero ronzino tornò in condizioni normali. Pareva ancora un po’ spaventato, ma comunque si era ripreso. «Vorrei sapere cosa diavolo è stato» disse Arthur. Oliver Haddo lo fissò con quei suoi occhi azzurri che sembravano penetrare le persone; poi, toccandosi il cappello, si allontanò. Susie si voltò di scatto verso il dottor Porhoët. «Crede sia stato lui? È successo non appena gli ha posato la mano sul collo, e quando l’ha tolta è cessato». «Sciocchezze!» disse Arthur. «Ho pensato che fosse uno dei suoi trucchi» disse il dottor Porhoët, molto serio. «Una volta è venuto a trovarmi ed è accaduta una cosa singolare. Io ho due gatti persiani, educatissimi esemplari della loro specie. Passano giornate intere davanti al fuoco a meditare su problemi di metafisica. Ma non appena è entrato lui, sono saltati su col pelo dritto e hanno cominciato a correre furiosamente per la stanza, come in preda a un terrore incontrollabile. Ho aperto la porta, e sono schizzati fuori. Non sono mai riuscito a capire con esattezza cosa sia successo». Margaret ebbe un brivido. «Non ho mai incontrato nessuno che mi riempisse di tanto disgusto» disse. «Non so cosa c’è in lui che mi spaventa. Anche ora sento quei suoi occhi che mi fissano in modo strano. Spero di non rivederlo mai più». Arthur scoppiò in una risatina e le prese la mano. Margaret strinse forte la sua e lui si accorse che tremava. Per quanto lo riguardava, non aveva alcun dubbio. Non erano argomenti su cui scherzare. O Haddo credeva in cose che solo un pazzo avrebbe ritenuto vere, oppure era un ciarlatano, che cercava di attirare l’attenzione con le sue stravaganze. In ogni caso era da disprezzare. Per certo, comunque, né lui né altri erano in grado di fare miracoli. «Vi dico io cosa farò» disse Arthur. «Se davvero conosce Frank Hurrell, scoprirò tutto su di lui. Stasera stessa scriverò due righe al mio amico e gli chiederò di raccontarmi quel che sa». «Oh sì, la prego» rispose Susie. «Mi interessa moltissimo. Non c’è posto migliore di Parigi per incontrare gente così bizzarra. Prima o poi ti imbatti in persone che credono in qualsiasi cosa. Non c’è forma di religione, non c’è eccentricità o aberrazione che non abbia i suoi sostenitori. Basta pensare a quale privilegio sia incontrare un uomo che, nel ventesimo secolo, crede in tutta sincerità nelle forze occulte». «Occupandomi di questi argomenti, mi sono imbattuto spesso in strani individui,» disse tranquillamente il dottor Porhoët «ma sono d’accordo con Miss Boyd: Oliver Haddo è il più straordinario di tutti. Tanto per cominciare, è impossibile sapere quanto davvero creda in ciò che dice. È un impostore o un pazzo? È lui a ingannarsi, o se la ride alle spalle di quei folli che lo prendono sul serio? Non saprei. Quel che so è che ha viaggiato in lungo e in largo, e parla molte lingue. Ha una conoscenza minuziosa della letteratura alchemica e non saprei nominare un solo libro di magia nera che egli non conosca». Il dottor Porhoët scosse lentamente la testa. «Su di lui non sarei troppo categorico. So di fare oltraggio ai sentimenti del mio amico Arthur, ma confesso che non mi stupirebbe scoprire che possiede poteri grazie ai quali può fare cose apparentemente prodigiose». Arthur non poté ribattere, perché erano arrivati al Lion de Belfort. La fiera era in pieno fermento. Il rumore era assordante. Organetti a vapore tuonavano le melodie più in voga, e le giostre giravano al ritmo della musica. All’ingresso dei baracconi uomini infervorati invitavano i passanti a entrare. Dai banchi del tiro a segno arrivava il crepitio continuo dei fucili giocattolo. In sottofondo, le voci della folla che si accalcava nel viale e lo scalpiccio di una miriade di piedi. La notte sfolgorava di torce ad acetilene, che fiammeggiavano con un ruggito cupo e continuo. Era uno spettacolo strano, tra il sordido e l’allegro. La gente sembrava in preda a una gaiezza sfrenata, come se, stanca del penoso affanno quotidiano, cercasse con uno sforzo disperato di divertirsi. I tre inglesi e il dottor Porhoët, bonariamente ironico, erano appena entrati quando Oliver Haddo li raggiunse, senza tenere in alcun conto il fatto lampante che non desiderassero la sua compagnia. Haddo attirava l’attenzione per l’originalità dell’aspetto e dei modi, e Susie notò che godeva nel vedere la gente indicarlo a dito. Indossava un mantello spagnolo, la capa, e drappeggiava con noncuranza sulla spalla la fodera di velluto rosso e verde. Portava un cappello ampio e floscio. La sua statura era notevole, pur se resa meno evidente dall’obesità, e torreggiava su quella moltitudine minuscola. I cinque osservavano pigramente i vari spettacoli, resistendo ai melodrammi, ai numeri circensi, alle esibizioni eccentriche che cercavano rumorosamente di attirare spettatori. A un certo punto giunsero vicini a un uomo che stava incidendo dei profili su carta nera, e Haddo volle a tutti i costi posare per lui. Una piccola folla gli si radunò attorno, e non gli vennero risparmiate battute sul suo aspetto singolare. Egli assunse la sua postura preferita, fiera e imperiosa. Margaret avrebbe voluto cogliere l’occasione per lasciarlo lì, ma Miss Boyd insistette per restare. «È la creatura più ridicola che abbia mai visto in vita mia» sussurrò. «Non rinuncerei a osservarlo per nulla al mondo». Quando il profilo fu ultimato, egli lo offrì a Margaret con un profondo inchino. «La supplico di voler accettare l’unico ritratto esistente di Oliver Haddo» disse. «Grazie» rispose lei freddamente. Non aveva alcun desiderio di prenderlo, ma non ebbe la presenza di spirito di rifiutarlo con una battuta e non le garbava essere apertamente brusca. Certo che il dono fosse stato apprezzato, Haddo lo ripose con cura in una busta. Ripresero a camminare e d’un tratto arrivarono davanti a un tendone con sopra un nome orientale. Sotto alcune parole in arabo, era dipinta rozzamente l’immagine di un incantatore di serpenti. All’entrata, un forestiero sedeva a gambe incrociate, percuotendo incessantemente un tamburo. Quando li vide fermarsi, si rivolse loro in pessimo francese. «Dottor Porhoët, non le rammenta il torbido Nilo?» disse Haddo. «Entriamo a vedere cos’ha da mostrarci». Il dottor Porhoët fece un passo avanti e si rivolse all’incantatore, che si illuminò nel sentire la lingua del suo paese. «È egiziano, di Asyut». «Compro i biglietti per tutti» disse Haddo. Tenne sollevata la tenda per consentire l’accesso al baraccone, e Susie entrò. Margaret e Arthur Burdon, benché controvoglia, si trovarono costretti a seguirla. Il forestiero richiuse la tenda alle loro spalle. Si ritrovarono in un luogo angusto e sporco, mal illuminato da due lampade fumose. Una dozzina di sgabelli erano piazzati in circolo sulla nuda terra. In un angolo, immobile, sedeva una fellah, avvolta in ampie vesti di un nero sbiadito. Il suo volto era nascosto da un lungo velo, fermato da uno strano ornamento d’ottone al centro della fronte. Gli occhi erano l’unica parte visibile: grandi, neri, con le ciglia scurite dal kohl. Le dita erano vivacemente dipinte con l’henné. Si mosse appena quando entrarono i visitatori, e l’uomo le affidò il tamburo. Cominciò a carezzarlo con un movimento particolare, producendo un suono simile a un ronzio arcano e misterioso. C’era un tanfo insolito, tanto che il dottor Porhoët, per un attimo, fu come trasportato nelle strade maleodoranti del Cairo. Era una mistura acre di incenso ed essenza di rosa, insieme a ogni immaginabile putredine. Le due donne ne furono soffocate, e Susie chiese una sigaretta. Il forestiero fece una smorfia quando sentì parlare inglese. Mise in mostra una fila di denti belli e scintillanti. «Mio nome Mohammed» disse. «Sirdar Lord Kitchener ha visto mio spettacolo di serpenti. Aspettate e vedrete. Serpenti molto velenosi». Indossava una tunica azzurra, più adatta alle rive assolate del Nilo che a una fiera di Parigi, e il colore si intuiva a stento sotto lo sporco. In testa portava un fez. Da sotto un tappeto steso su un lato della tenda tirò fuori una sacca di pelle di capra. La posò in mezzo al cerchio formato dagli sgabelli e si accovacciò. Margaret rabbrividì, perché la superficie rigonfia del sacco si muoveva in modo strano. Egli ne aprì l’imboccatura. La donna nell’angolo continuava a carezzare come in trance il tamburo, e di tanto in tanto emetteva un grido barbarico. Con un lampeggiare sinistro della smagliante dentatura, l’arabo infilò la mano nel sacco e vi frugò come fosse pieno di grano. Ne estrasse un lungo serpente che si contorceva. Lo posò a terra, rimase in attesa per un attimo, poi gli sfiorò il dorso con la mano. Immediatamente il serpente si fece rigido come una spranga di ferro, e se non fosse stato per gli occhi, quegli occhi feroci ancora aperti, si sarebbe detto che in lui non c’era più vita. «Osservate,» disse Haddo «ecco il miracolo compiuto da Mosè alla presenza del faraone». L’arabo prese quindi uno strumento a canna, non troppo diverso dal flauto che Pan suonava per le driadi sui colli della Grecia. Intonò una nenia monotona, misteriosa. D’improvviso la rigidità abbandonò il serpente, che sollevò la testa e si allungò tutto, fin quasi a tenersi in equilibrio sulla punta della coda, ondeggiando avanti e indietro. Oliver Haddo sembrava profondamente affascinato. Si protendeva con il volto avido, e i suoi occhi soprannaturali fissavano l’incantatore con un’espressione indescrivibile. Margaret si ritrasse in preda al terrore. «Non devi aver paura» disse Arthur. «Questa gente lavora soltanto con animali a cui sono stati estratti i denti del veleno». Oliver Haddo lo fissò prima di rispondere. Ogni volta sembrava riflettere su chi fosse l’uomo davanti a lui. «Incantatore è soltanto colui che resiste al morso dei serpenti più velenosi senza fare ricorso alla medicina». «Lo crede davvero?» disse Arthur. «Ho visto il più famoso incantatore di Madras morire due ore dopo essere stato morso da un cobra» disse Haddo. «Avevo sentito molto parlare della sua abilità e una sera pregai un amico di condurmi da lui. Al nostro arrivo non c’era, ma lo aspettammo finché tornò, accompagnato da alcuni amici. Gli spiegammo cosa volevamo. Era stato a una festa di matrimonio ed era ubriaco. Mandò comunque a prendere i suoi serpenti e ci mostrò prodigi di cui quest’uomo non ha mai neppure sentito parlare. Alla fine estrasse dalla sacca un grosso cobra e cominciò a passarlo da una mano all’altra. D’improvviso il cobra gli si lanciò contro il mento e lo morse. Gli lasciò due segni simili a punture di spillo. L’incantatore trasalì. “Sono un uomo morto” disse. «Gli amici volevano uccidere il cobra, ma egli si oppose. «“Lasciate vivere questa creatura” disse. “Può essere utile ad altri che fanno il mio stesso mestiere. Per me, ormai, ucciderla non sarebbe di alcun giovamento. Nulla può salvarmi”. «I suoi amici e gli altri incantatori gli si strinsero attorno e lo misero a sedere. Dopo due ore era morto. Nell’ebbrezza del vino aveva dimenticato quella parte dell’incantesimo che serviva a proteggerlo, e così era morto». «Ha una gran bella collezione di storie incredibili» disse Arthur. «Temo proprio di aver bisogno di ben altre prove per credere che questi serpenti siano velenosi». Oliver si rivolse all’incantatore, parlandogli in arabo. Poi rispose ad Arthur. «Quest’uomo possiede una vipera cornuta. Cerastes è il nome con cui è nota a voi uomini di scienza, ed è il più mortale tra i serpenti egiziani. È conosciuta comunemente come aspide di Cleopatra, perché è il serpente che fu portato in una cesta di fichi all’amante di Cesare per risparmiarle l’umiliazione del trionfo di Augusto». «Cosa ha intenzione di fare?» domandò Susie. Egli sorrise, senza rispondere. Fece un passo avanti verso il centro della tenda e cadde in ginocchio. Disse alcune parole in arabo, che il dottor Porhoët tradusse per gli altri. «O vipera, per il grande Dio onnipotente, ti ordino di farti avanti. Tu sei solo un serpente e Dio è più grande di tutti i serpenti. Obbedisci al mio richiamo e vieni». Un tremito percorse la sacca di pelle di capra, e dopo un attimo ne uscì una testa. Strisciò fuori un corpo flessuoso. Era un serpente grigio chiaro, lievemente attorcigliato, con un corno sopra ciascun occhio. «Lo riconosce?» sussurrò Oliver al dottore. «Sì». L’incantatore sedeva immobile e la donna, nella penombra, pose fine alla straniante percussione del tamburo. Haddo prese il serpente, gli aprì la bocca ed esso gli si attaccò immediatamente alla mano, con i denti che penetravano a fondo nelle carni. Arthur lo scrutava per scorgere in lui segni di dolore, ma egli non mosse un muscolo. Il serpente pendeva dalla sua mano, contorcendosi. Haddo ripeté una frase in arabo e, d’improvviso, come una goccia d’acqua da un tetto, il serpente cadde a terra. Il sangue fluiva copioso. Haddo sputò per tre volte sulla ferita, bisbigliando parole che gli altri non riuscivano a udire, e per tre volte la strofinò con le dita. Il sangue si arrestò. Tese la mano perché Arthur potesse osservarla. «Questo è senza dubbio ciò che un chirurgo definirebbe “guarigione per prima intenzione”» disse. Burdon era stupefatto, ma al tempo stesso irritato, e non avrebbe mai ammesso che ci fosse qualcosa di strano in quella improvvisa interruzione del flusso di sangue. «Non mi ha ancora dimostrato che quel serpente fosse velenoso». «Non ho ancora finito» sorrise Haddo. Parlò di nuovo all’egiziano, che dette un ordine alla moglie. Senza dire una parola, ella si alzò in piedi ed estrasse da una scatola un coniglio bianco. Lo tenne sollevato per le orecchie, mentre dimenava le buffe zampette. Haddo lo mise davanti alla vipera cornuta. In men che non si dica il serpente si avventò come un fulmine contro il coniglio. La sventurata bestiola emise un gridolino, fu percorsa da un brivido e crollò morta. Margaret sussultò con un urlo. «Oh, che crudeltà! Che odiosa crudeltà!». «Adesso si sarà convinto» disse Haddo, gelido. Le due donne si precipitarono verso l’uscita. Erano spaventate, disgustate. Oliver Haddo fu lasciato solo con l’incantatore di serpenti. 5 Il dottor Porhoët aveva invitato Arthur, con Margaret e Miss Boyd, a fargli visita la domenica nel suo appartamento sull’Île Saint-Louis; i due fidanzati avevano così programmato di trascorrere un’ora al Louvre, che si trovava lungo la strada. Susie preferì non accompagnarli per essere libera di stare con i propri pensieri. Per evitare la folla che sempre si accalca nelle gallerie della pinacoteca durante i giorni di festa, Arthur e Margaret visitarono quella parte del museo che ospita le sculture antiche. Era relativamente vuota, e le sale avevano la tranquillità tipica dei luoghi in cui sono raccolte le opere d’arte. Margaret era colma di una sincera emozione e sebbene non riuscisse ad analizzarla, come avrebbe invece fatto Susie, che amava dissezionare il suo stato d’animo, ne era curiosamente esaltata. Sentiva il cuore librarsi al di sopra delle brutture terrene e provava un senso di libertà piacevole e a un tempo indescrivibile. Arthur non si era mai interessato all’arte, finché l’entusiasmo di Margaret non gli aveva rivelato un aspetto della vita che aveva sempre trascurato. Sebbene la bellezza avesse scarso significato per la sua indole pratica, il grande amore per Margaret lo spingeva ad apprezzare le opere che generavano in lei quell’estasi irresistibile. Camminava docile al suo fianco e ascoltava quasi con deferenza le sue esclamazioni. Ammirò la perfezione dell’anatomia greca, e una statua di atleta attrasse a lungo la sua attenzione perché i muscoli erano riprodotti con la precisione di una tavola anatomica in un testo di chirurgia. Quando Margaret parlò della compostezza olimpica dei greci e della loro spensierata allegria, fu colpito dall’intelligenza di quelle osservazioni che, se fossero venute da un uomo, avrebbero suscitato la sua insofferenza. Eppure c’era un’opera, la splendida Diana di Gabii, che toccava in lui delle corde diverse, e insistette per andare a vederla. Margaret protestò ridendo, ma nel suo intimo non era dispiaciuta. Era consapevole che la passione di Arthur per quella scultura scaturiva non dalla sua bellezza intrinseca, ma dalla somiglianza che vi aveva scoperto con lei. La statua si trovava nella bella e ampia galleria che ospita anche l’Omero cieco e il Fauno ridente, festosa espressione di un senso di comunione con la terra di matrice divina. La dea non aveva l’arroganza della cacciatrice innamorata di Endimione, né la maestà della fredda signora dei cieli. Aveva le sembianze di una giovanetta, e con gesto riservato si drappeggiava nel mantello. Non c’era nulla di divino in lei, tranne un dolce, strano spirito virgineo. Un innamorato nella Grecia antica, in procinto di offrire un sacrificio, avrebbe potuto facilmente dimenticare di essere prostrato ai piedi di una dea, vedendo invece in lei solo una fanciulla terrena, in tutta la freschezza della gioventù, della castità e della bellezza. Agli occhi di Arthur Margaret aveva la stessa grazia squisita di quella statua, e il medesimo inconsapevole contegno; anche lei esalava un profumo di primavera, di ineffabile purezza. I suoi lineamenti erano cesellati con la netta, divina perfezione della fanciulla greca; le sue orecchie erano altrettanto delicate e finemente scolpite. Il colore della sua pelle aveva la leggiadria delle cose belle ed eteree, la radiosità del tramonto e l’oscurità della notte, il cuore delle rose e la profondità dell’acqua che scorre. La mano che la dea portava alla spalla destra e quella di Margaret erano ugualmente piccole, fini, bianche. «Non esser sciocco» disse lei, mentre Arthur osservava la statua in silenzio. Egli volse lo sguardo lentamente, e i suoi occhi si posarono su di lei. Margaret vide che erano velati di lacrime. «Ma che ti succede?». «Vorrei che tu non fossi così bella» rispose lui, imbarazzato, come se solo a fatica potesse costringersi a dire simili banalità. «Ho paura che qualcosa possa impedirci di essere felici. Mi sembra troppo sperare di godere una fortuna tanto straordinaria». Margaret aveva sufficiente immaginazione da comprendere quanto significasse per un uomo così pratico esprimersi in quel modo. L’amore per lei lo estraniava dal suo modo di essere e, benché gli fosse impossibile resistervi, ne mal sopportava l’effetto. Non sapendo cosa rispondere, gli prese la mano. «Finora mi è andato tutto bene» disse lui, parlando quasi tra sé. «Ogni volta che ho davvero desiderato qualcosa, sono riuscito a ottenerlo. Non c’è motivo che le cose ora mi si rivoltino contro». Cercava di proteggersi dal sospetto istintivo che le circostanze gli fossero avverse, ma si riscosse e raddrizzò la schiena. «È stupido essere così morbosi» sussurrò. Margaret rise. Uscirono dalla galleria e imboccarono il viale. Attraversando il ponte e seguendo il fiume sarebbero giunti a casa del dottor Porhoët. Nel frattempo Susie passeggiava per un boulevard SaintMichel animato dalla folla domenicale, in direzione di quella parte di Parigi che più era cara al suo cuore. L’Île Saint-Louis rappresentava per lei una sintesi dello spirito francese, e le piaceva infinitamente di più degli sgargianti boulevard nei quali gli inglesi ricercano di solito il fascino locale. L’isola della Senna aveva un fascino compatto. Le viuzze, con le vetrine ricolme di prelibatezze, sembravano strade di una cittadina di provincia. Avevano un’aria pittoresca che stimolava la fantasia, ed erano molto tranquille. I loro nomi ricordavano la monarchia che si era estinta nel sangue e nella poudre de riz. Persino i platani avevano una sobrietà maggiore che altrove, quasi fossero consapevoli di crescere in una Parigi in cui il progresso si era fermato. Davanti a lei c’era la torbida Senna e, oltre, le torri gemelle di Notre-Dame: Susie avrebbe potuto baciare le dure pietre che lastricavano il lungofiume. Il suo viso affabile, insignificante, si illuminò davanti alla piacevolezza della scena e fu con una lieve fitta di dolore che ella volse le spalle a quello spettacolo per entrare a casa del dottor Porhoët, la mente ancora infiammata dai personaggi e dagli avvenimenti della storia e dei romanzi. Fu lieta che la prima impressione non contrastasse con le sue fantasticherie. Salì una scalinata buia ma spaziosa e, seguendo le indicazioni della concierge, suonò il campanello a una delle porte che si trovò davanti. Venne ad aprire il dottor Porhoët in persona. «Arthur e Mademoiselle sono già qui» disse, e la fece entrare. Traversarono un’elegante sala da pranzo alla francese, con molto legno e pesanti tendaggi scarlatti, poi entrarono nello studio. Era una stanza ampia, ma gli scaffali allineati lungo le pareti e il grande scrittoio coperto di libri ne riducevano di molto le dimensioni. C’erano libri ovunque, accatastati sul pavimento, impilati su ogni sedia. Restava appena lo spazio per muoversi. Susie ebbe un’esclamazione di piacere. «Non parlatemi. Voglio guardare tutti i libri». «Nulla potrebbe rendermi più felice» disse il dottor Porhoët. «Temo tuttavia che ne resterà delusa. Sono volumi di ogni genere, ma ben pochi potranno essere d’interesse per una signorina inglese». Frugò sul suo scrittoio finché trovò un pacchetto di sigarette e ne offrì educatamente una a ciascuno degli ospiti. Susie era stregata dallo strano odore di muffa dei libri antichi, e dette una prima occhiata all’intorno. Quasi tutti avevano delle sovraccoperte di carta; alcuni erano in buone condizioni, molti avevano il dorso rotto e i bordi sporchi; erano disposti sugli scaffali a ranghi serrati, disordinatamente, senza alcun metodo o criterio. Ce n’erano di vecchi, con le rilegature in pelle di vitello o di maiale, provenienti dalle librerie di mezza Europa, insieme a enormi in-folio alti come granatieri prussiani, e minuscoli elzeviri che erano stati letti da nobildonne veneziane. Proprio come Arthur, che in sala operatoria diventava un altro, così il dottor Porhoët cambiava quando era in mezzo ai suoi libri. Pur mantenendo l’amabile serenità che lo rendeva tanto affascinante, in quel luogo si comportava in un modo rude ma divertente, che contrastava con la sua calma abituale. «Quando lei è arrivata, stavo raccontando a questi giovani di un antico Corano regalatomi ad Alessandria da uno studioso che avevo operato di cataratta». Le mostrò un volume arabo, splendidamente miniato, con meravigliosi capilettera e titoli in oro. «Lei sa che è praticamente impossibile per un infedele acquistare il libro sacro, e questa è una copia particolarmente rara, perché opera di Qaitbay, il più grande dei sultani mamelucchi». Sfiorava le pagine delicate come un amante dei fiori avrebbe maneggiato dei petali di rosa. «E ha molti testi di scienze occulte?» domandò Susie. Il dottor Porhoët sorrise. «Oserei dire che non c’è biblioteca privata che disponga di una collezione altrettanto completa, anche se non oso mostrargliela in presenza del nostro amico Arthur. È troppo educato per accusarmi di stoltezza, ma il suo sorriso sarcastico lo tradirebbe». Susie si diresse verso gli scaffali che il dottor Porhoët aveva genericamente indicato e guardò quella misteriosa esposizione in preda a una singolare euforia. I suoi occhi scorsero i titoli. Le sembrò di entrare in una regione favolosa e sconosciuta. Si sentiva un’audace principessa che cavalca il suo palafreno in una foresta di grandi alberi spogli e mistici silenzi, dove forme inconsistenti e ultraterrene le si affollano attorno, lungo la strada. «Un tempo pensavo di scrivere la biografia di quella fantastica e magniloquente creatura che risponde al nome di Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim, detto Paracelso,» affermò il dottor Porhoët «perciò ho raccolto molti suoi libri». Prese un sottile volume in-dodicesimo, stampato nel Seicento, con enigmatiche tavole sulle quali era rappresentato ogni segno della Qabbalah. Le pagine avevano un odore particolare, di muffa. Erano coperte di macchie brune. «Ecco uno dei testi più interessanti sulla magia nera. È il Grimoire di papa Onorio, il testo principale fra tutti quelli che trattano di scienze occulte». Poi indicò l’Hexameron di Torquemada e il Tableau de l’inconstance des démons di De Lancre; fece scorrere il dito lungo il dorso di pelle delle Disquisitiones magicae di Delrio e raddrizzò la Pseudomonarchia daemonum di Wierus; i suoi occhi si posarono per un istante sugli Acta et scripta magica di Hauber, e soffiò via con cura la polvere dal più famoso e famigerato di tutti, il Malleus maleficarum di Sprenger. «Ecco il più grande dei miei tesori. È la Clavicula Salomonis; ho buon motivo di credere che sia proprio la copia appartenuta al più grande avventuriero del Settecento, Giacomo Casanova. Vede? Il nome del proprietario è stato tagliato, ma rimane la parte bassa delle lettere, che corrisponde esattamente alla firma di Casanova, così come l’ho osservata alla Bibliothèque Nationale. Egli narra nelle sue memorie che una copia di questo libro gli fu portata via, insieme ai suoi effetti personali, quando venne arrestato a Venezia per i suoi traffici occulti; e fu proprio a Venezia che la trovai, durante uno dei miei viaggi da Alessandria». Rimise a posto la preziosa opera e il suo sguardo cadde su un robusto volume rilegato in pergamena. «Avevo quasi dimenticato il più splendido, il più misterioso di tutti i libri che trattano di scienze occulte. Avrà certo sentito parlare della Qabbalah, ma dubito che per lei sia qualcosa più di un nome». «Non ne so assolutamente nulla,» disse Susie ridendo «ma è tutto così romanzesco, straordinario, ridicolo». «Ecco dunque la sua storia. Mosè, che conosceva a fondo tutta la saggezza dell’Egitto, fu iniziato alla Qabbalah nella sua terra di nascita, ma giunse a padroneggiarla durante le peregrinazioni nel deserto. Là, per quarant’anni, egli non solo dedicò il suo tempo libero a questa scienza misteriosa, ma fu istruito da un angelo misericordioso, e grazie alla Qabbalah fu in grado di risolvere tutte le difficoltà sorte mentre era alla guida degli israeliti – l’esilio, le guerre, le sventure di quella nazione difficile da governare. Egli celò i princìpi della dottrina nei primi quattro libri del Pentateuco, ma non nel Deuteronomio, e iniziò ai suoi segreti anche i settanta saggi, che a loro volta li tramandarono. Di tutti coloro che formavano la linea ininterrotta della tradizione, Davide e Salomone furono i più dotti nella Qabbalah. Nessuno, tuttavia, osò metterne per iscritto i fondamenti fino a Shimon bar Yohai, che visse al tempo della distruzione di Gerusalemme; dopo la sua morte, Rabbi Eleazar, suo figlio, e Rabbi Abba, il suo segretario, ne raccolsero i manoscritti e da essi composero il famoso trattato chiamato Zohar». «E quanta parte di questa meravigliosa storia ritiene che sia vera?» chiese Arthur Burdon. «Neanche una parola» rispose il dottor Porhoët con un sorriso. «Gli studiosi hanno dimostrato che lo Zoharè di origine moderna. Con singolare sfrontatezza, esso cita un autore che sappiamo essere vissuto nell’undicesimo secolo, fa menzione delle Crociate e registra eventi che ebbero luogo nel 1264 dopo Cristo. Prima del 1291 alcune copie dello Zohar cominciarono a circolare grazie a un ebreo spagnolo, un certo Moshe de León, il quale dichiarava di possedere un manoscritto autografo del presunto autore, Shimon bar Yohai. Ma quando Moshe de León fu richiamato al seno del padre Abramo, un ricco ebreo, Giuseppe d’Avila, promise alla vedova, rimasta in povertà, che avrebbe dato il proprio figlio in sposo a sua figlia, insieme a una cospicua dote, se lei gli avesse consegnato il manoscritto originale dal quale erano state tratte le copie. Ma la vedova (è facile immaginare con quale digrignar di denti) fu costretta a confessare che non possedeva alcun manoscritto, perché lo Zohar era frutto dell’invenzione di Moshe de León, che l’aveva scritto di suo pugno». Arthur si alzò per sgranchirsi le gambe e sbottò in una risata. «Non capisco mai fino a che punto lei creda in quel che ci racconta. Parla con tanta serietà che ci inganna tutti, e poi si scopre che ci sta prendendo in giro». «Mio caro amico, io stesso non so quanto ci credo» replicò il dottor Porhoët. «Mi chiedo se è per la stessa ragione che Mr Haddo ci incuriosisce tanto» disse Susie. «Ah, quello è un caso davvero interessante» ribatté il dottore. «Le assicuro che, per quanto io lo conosca abbastanza bene, non sono mai riuscito a capire se si tratti di un abile burlone, o se sia realmente convinto, come sostiene, di avere tutti quegli straordinari poteri». «Per certo ieri sera abbiamo visto cose tutt’altro che normali» disse Susie. «Perché quel serpente non ha avuto alcun effetto su di lui, mentre in un attimo ha ucciso il coniglio? E come spiega il tremito violento di quel cavallo, dottor Burdon?». «Non saprei spiegarlo,» rispose Arthur irritato «ma non sono disposto a giudicare soprannaturale tutto ciò che non comprendo immediatamente». «Non so cosa sia, ma c’è in lui qualcosa che provoca in me una specie di orrore» disse Margaret. «Non ho mai provato un’antipatia così istintiva per qualcuno». Era molto restia ad aprirsi, ma quella notte il ricordo delle parole e delle azioni di Haddo le aveva fatto uno strano effetto. Si era risvegliata più di una volta da un incubo nel quale egli assumeva forme fantastiche e spettrali. La sua voce sarcastica le risuonava nelle orecchie, e le sembrava ancora di vedere la sua grande mole e il suo volto feroce e sensuale. Era come uno spirito del male sul suo cammino, e lei ne era curiosamente allarmata. Soltanto la fiducia nel buonsenso di Arthur le aveva impedito di dare spazio a ridicoli terrori. «Ho scritto a Frank Hurrell e gli ho chiesto di raccontarmi tutto quel che sa di lui» disse Arthur. «Avrò presto una risposta». «Vorrei non averlo mai incontrato» esclamò Margaret con forza. «Sento che ci porterà sfortuna». «Siete tutti assurdamente pieni di pregiudizi» ribatté Susie, allegra. «Io invece lo trovo molto interessante, e ho intenzione di invitarlo a prendere il tè a casa nostra». «Sarò felicissimo di accettare». Margaret lanciò un grido; aveva riconosciuto il tono di voce profondo e canzonatorio di Oliver Haddo e si voltò di scatto. Furono tutti presi alla sprovvista, per un attimo nessuno parlò. Erano raccolti attorno alla finestra e non lo avevano sentito entrare. Si domandarono, sentendosi in colpa, da quanto tempo fosse lì e quanto avesse udito. «Come diavolo è entrato?» esclamò Susie, calma, riprendendosi per prima. «Nessuno stregone ben educato è indifferente ai sentimenti più delicati al punto di entrare in una stanza dalla porta» rispose lui con il suo sorriso ambiguo. «Eravate tutti attorno alla finestra, e ho pensato che vi avrei fatto sobbalzare se avessi scelto di entrare da lì; così sono sceso con incredibile destrezza giù per la cappa del camino». «Infatti ha un po’ di fuliggine sul gomito sinistro» replicò Susie. «Spero che non si sia bruciato». «Per nulla, grazie» rispose lui, spazzolandosi tutto serio il cappotto. «In qualunque modo sia entrato, lei è il benvenuto» disse il dottor Porhoët, tendendogli amichevolmente la mano. Ma Arthur si rivolse con insofferenza al padrone di casa. «Vorrei proprio sapere che cosa l’ha spinta a intraprendere questi studi» disse. «Credevo che la professione medica bastasse a proteggerla da ogni debolezza nei confronti della superstizione». Il dottor Porhoët si strinse nelle spalle. «Ho sempre provato interesse per le stranezze del genere umano. Un tempo leggevo molti testi di filosofia e scienze, così ho imparato che non esiste nulla di certo. Alcuni, seguendo la scienza, sono impressionati dalla dignità dell’uomo, mentre io diventavo sempre più consapevole della sua insignificanza. Le grandi domande vengono sviscerate sin da quando egli ha acquisito i fondamenti della civiltà, e mai come ora si è lontani dalla soluzione. L’uomo non è in grado di conoscere nulla, perché i suoi sensi sono gli unici mezzi della conoscenza e non possono dare alcuna certezza. C’è un solo argomento del quale può parlare con autorevolezza, ed è la propria mente; ma anche in questo caso egli è circondato dalle tenebre. Io credo che ignoreremo sempre le questioni che pure sarebbe più necessario conoscere, pertanto non posso occuparmene. Preferisco accantonarle tutte e, poiché la conoscenza è irraggiungibile, ho scelto di occuparmi soltanto della follia». «È un punto di vista che non posso condividere» disse Arthur. «Eppure non sono persuaso che tutto sia follia» riprese il francese, come riflettendo tra sé. Fissò Arthur con ironia mista a serietà. «Credi che ti abbia mentito quando ho promesso di dire la verità?». «Sicuramente no». «Vorrei raccontarti un’esperienza vissuta una volta ad Alessandria. Per quanto ne so, nessuno dei princìpi noti alla scienza può spiegarla. Ti prego solo di credere che non ti sto ingannando consapevolmente». La solennità con cui si esprimeva conferiva autorevolezza alle sue parole. Era chiaro persino ad Arthur che raccontava l’accaduto esattamente come si era verificato. «Avevo tanto sentito parlare di un certo sceicco il quale, grazie a uno specchio magico, era in grado di mostrare a chi lo richiedesse persone assenti o morte; un mio amico del posto mi aveva spesso sollecitato a incontrarlo. Io avevo sempre pensato che non ne valesse la pena, ma giunse un momento in cui la mia mente era profondamente turbata. La mia povera madre era una donna anziana, vedova, e non avevo sue notizie da settimane. Pur avendole scritto più volte, non avevo ricevuto risposta. Ero molto in ansia, e molto infelice. Pensai che non sarebbe accaduto nulla di male se avessi mandato a chiamare quello stregone, il quale forse, in fondo, possedeva davvero i poteri che gli venivano attribuiti. Il mio amico, che era interprete al consolato francese, lo accompagnò da me una sera. Era un bell’uomo, alto e robusto, di carnagione chiara, ma con la barba scura. Era vestito miseramente e, essendo un discendente del Profeta, indossava un turbante verde. La sua conversazione era gioviale e priva di affettazione. Gli domandai che genere di persone potessero leggere nel suo specchio magico, ed egli rispose che potevano farlo un ragazzo non ancora giunto alla pubertà, una vergine, una schiava di pelle scura e una donna incinta. Per essere sicuro che non ci fosse collusione, spedii il mio domestico da un amico intimo e gli chiesi di mandarmi suo figlio. Mentre aspettavamo, seguendo le indicazioni del mago preparai dell’incenso, dei semi di coriandolo e un fornello con del carbone ardente. Nel frattempo, egli scrisse delle formule propiziatorie su sei striscioline di carta. Quando giunse il ragazzo, lo stregone gettò l’incenso e una delle striscioline di carta nel fornello, poi prese la mano destra del ragazzo e sul palmo tracciò un quadrato e dei segni mistici. Al centro del quadrato versò un po’ d’inchiostro, che formò lo specchio magico. Chiese al ragazzo di guardarvi dentro, fissamente, senza sollevare la testa. Le esalazioni dell’incenso riempivano la stanza di fumo. Lo stregone borbottò in arabo alcune parole indistinte e continuò così per tutto il tempo, interrompendosi solo per porre alcune domande al ragazzo. «“Vedi nulla nell’inchiostro?” disse. «“No” rispose il ragazzo. «Ma, poco dopo, cominciò a tremare e sembrò molto spaventato. «“Vedo un uomo che spazza a terra” disse. «“Quando ha finito di spazzare, avvisami” disse lo sceicco. «“Ha finito” disse il ragazzo. «Lo stregone si voltò verso di me e mi chiese chi volevo che il ragazzo vedesse. «“Desidero che veda la vedova Jeanne-Marie Porhoët”. «Il mago gettò la seconda e la terza strisciolina di carta nel fornello, e venne aggiunto altro incenso. I fumi mi ferivano gli occhi. Il ragazzo cominciò a parlare. «“Vedo una vecchia stesa su un letto. Ha un abito nero, e sulla testa una cuffietta bianca. Ha il viso rugoso e gli occhi chiusi. Ha una sciarpa legata sotto il mento. Il letto è in una specie di nicchia nel muro, con degli sportelli”. «Il ragazzo stava descrivendo un letto bretone, e la cuffietta bianca era la coiffe che mia madre era solita indossare. E se portava il suo abito nero, con una sciarpa legata sotto il mento, sapevo che voleva dire una cosa sola. «“Cos’altro vede?” domandai allo stregone. «Egli ripeté la mia domanda, e il ragazzo parlò di nuovo. «“Vedo quattro uomini che entrano con una lunga cassa. Ci sono delle donne che piangono. Indossano tutte delle cuffie bianche e degli abiti neri. E vedo un uomo con una cotta bianca e una grande croce tra le mani, e un ragazzino con una lunga veste rossa. Gli uomini si tolgono il cappello. Adesso si stanno inginocchiando tutti”. «“Non voglio sentire altro” dissi. “Basta così”. «Sapevo che mia madre era morta. «Dopo un po’ di tempo, ricevetti una lettera dal prete del paese in cui viveva. L’avevano sepolta proprio il giorno in cui il ragazzo aveva avuto la visione nello specchio d’inchiostro». Il dottor Porhoët si passò la mano sugli occhi e per un po’ rimanemmo in silenzio. «Cosa ne dite?» domandò infine Oliver Haddo. «Nulla» rispose Arthur. Haddo lo guardò per qualche istante con quegli strani occhi che sembravano fissare il muro alle sue spalle. «Ha mai sentito parlare di Eliphas Lévi?» domandò. «È l’occultista più famoso dei nostri tempi. Si dice che di scienze occulte sappia più di qualunque altro adepto sin dai tempi del divino Paracelso». «L’ho incontrato una volta» lo interruppe il dottor Porhoët. «Mai visto nessuno che somigliasse meno a un mago. Il suo viso irradiava cordialità, aveva una lunga barba grigia che gli arrivava fino a metà del petto. Era di bassa statura, molto corpulento». «La pratica delle arti magiche evidentemente dispone all’obesità» disse Arthur, gelido. Susie notò che questa volta Oliver Haddo non aveva dato segno di essere toccato da quel sarcasmo. I suoi occhi immobili, fissi, rimasero posati su Arthur, senza alcuna espressione. «Lévi si chiamava in realtà Alphonse-Louis Constant, ma adottò il nome con il quale è noto per motivi fin troppo chiari a una mente romantica. Suo padre faceva il calzolaio. Egli era destinato al sacerdozio, ma si innamorò di una bella fanciulla e la sposò. La loro unione fu infelice. La stessa sorte è toccata a uomini anche più grandi di lui: la moglie, poco dopo, abbandonò il tetto coniugale con l’amante. Per consolarsi egli si dedicò a serie ricerche nel campo dell’occulto, e nel tempo pubblicò un gran numero di trattati mistici su ogni aspetto della magia». «Sono certa che Mr Haddo stava per dirci qualcosa di molto interessante su di lui» disse Susie. «Desideravo soltanto darvi un resoconto di come egli evocò lo spirito di Apollonio di Tiana a Londra». Susie si mise comoda sulla poltrona e accese una sigaretta. «Egli si recò a Londra nella primavera del 1856 per sfuggire a un’intima inquietudine e per dedicarsi ai suoi studi senza che nulla potesse distrarlo. Aveva lettere di presentazione per vari illustri studiosi del soprannaturale, ma, avendoli trovati banali e indifferenti, si immerse nello studio della somma Qabbalah. Un giorno, rientrando in albergo, trovò nella sua stanza un messaggio. Nella busta c’era una mezza carta, divisa trasversalmente, su cui riconobbe subito il simbolo del sigillo di Salomone, e un bigliettino con scritto a matita: “L’altra metà di questa carta le sarà consegnata domani alle tre davanti all’abbazia di Westminster”. Il giorno successivo, recandosi al luogo indicato con la sua parte di carta in mano, trovò ad attenderlo una carrozza baronale. Un valletto gli si avvicinò e, facendogli un cenno, aprì la porta della carrozza. All’interno c’era una dama in un abito di raso nero, il volto nascosto da un fitto velo. Gli indicò il posto accanto a sé e gli mostrò l’altra metà della carta. La porta fu chiusa e la carrozza partì. Quando la dama sollevò il velo, Eliphas Lévi vide che era di età matura, e sotto le sopracciglia grigie splendevano due occhi scuri e luminosi, di una fissità soprannaturale». Susie Boyd batté le mani per l’entusiasmo. «È fantastico, e sono sicura che è tutto vero» esclamò. «Sono stregata da questo misterioso incontro all’abbazia di Westminster in piena età vittoriana. Mi pare di vedere l’anziana dama con un’enorme crinolina e un cappellino nero allacciato sotto il mento, e il mago con un buffo copricapo, una redingote verde bottiglia e una cravatta di seta nera». «Eliphas osservò che la dama parlava francese con un forte accento inglese» continuò Haddo imperturbabile. «Ella si rivolse a lui con queste parole: “Signore, sono consapevole che la legge della segretezza è rigorosa fra gli adepti e so che lei è stato invitato a parlare di fenomeni rari, ma si è sempre rifiutato di gratificare la curiosità di gente frivola. Può darsi che lei non possieda tutto il materiale necessario. Io posso mostrarle un gabinetto di magia completamente attrezzato, ma prima devo esigere da lei il più inviolabile silenzio. Se non me lo garantirà sul suo onore, darò ordine di riaccompagnarla a casa”». Oliver Haddo raccontava questa storia con una certa eloquenza, ma con un’aria tra il serio e il faceto, perciò non si sapeva come prenderla esattamente. «Dopo la promessa, Eliphas Lévi fu ammesso a vedere una collezione di vesti e strumenti magici. La dama gli prestò alcuni libri dei quali aveva bisogno e, dopo molti colloqui, lo convinse a tentare a casa sua l’esperimento di un’evocazione completa. Egli si preparò per ventuno giorni, osservando scrupolosamente le regole previste dal rituale. Alla fine tutto fu pronto. Decisero di evocare lo spirito del divino Apollonio e di interrogarlo su due argomenti, il primo riguardante Eliphas Lévi, l’altro la dama dalla crinolina. Dapprima ella aveva pensato di assistere all’evocazione con una persona di fiducia, ma all’ultimo momento il suo amico si tirò indietro. E poiché i riti magici prescrivono rigorosamente la triade o l’unità, Eliphas fu lasciato solo. Lo studiolo preparato per l’esperimento si trovava in una torre. Vi erano appesi quattro specchi concavi, e c’era un altare di marmo bianco circondato da una catena di ferro magnetico, sulla quale era inciso il simbolo del Pentalfa, riprodotto anche sul bianco vello di montone steso a terra e ancora intatto. Sull’altare era posato un braciere di rame, con dentro carbone di ontano e legno di alloro; di fronte, su un tripode, c’era un secondo braciere. Eliphas Lévi indossava una veste bianca, più lunga e più ampia della cotta di un prete, e sulla testa aveva una ghirlanda di foglie di verbena intrecciate con una catena d’oro. In una mano stringeva una spada nuova fiammante, nell’altra il Rituale». La passione di Susie per la caricatura si ridestò immediatamente, ed ella rise nell’immaginare il tarchiato francese, dal viso tondo e rubizzo, abbigliato in quel modo eccezionale. «Egli accese due fuochi con gli ingredienti che aveva preparato e dette inizio, dapprima a bassa voce, poi sempre più forte, alle invocazioni del rituale. Le fiamme si posavano con luce tremula su tutti gli oggetti, poi d’improvviso si estinsero. Egli aggiunse altri ramoscelli ed essenze nel braciere e, quando la fiamma riprese a divampare, vide distintamente davanti all’altare una figura umana, di dimensioni più grandi del reale, che si dissolse e scomparve. Riprese le invocazioni ed entrò all’interno di un cerchio che aveva precedentemente tracciato fra l’altare e il tripode. La profondità dello specchio che aveva dinanzi cominciò a farsi sempre più luminosa e da essa scaturì una forma pallida, che pareva pian piano avvicinarsi. Egli chiuse gli occhi e per tre volte chiamò Apollonio. Quando li riaprì, davanti a lui c’era un uomo, completamente avviluppato in un sudario che pareva più grigio che nero. Era gracile, malinconico, glabro. Eliphas sentì un freddo intenso e, quando cercò di porgli le domande, si accorse che non riusciva a parlare. Posò allora la mano sul Pentalfa e rivolse la punta della spada verso la figura, ingiungendole mentalmente di non terrorizzarlo, ma anzi di obbedirgli. L’entità d’improvviso si fece indistinta e poi, misteriosamente, scomparve. Egli le ordinò di ritornare, e allora si sentì sfiorare come da un soffio; qualcosa gli toccò la mano che reggeva la spada e subito il braccio si intorpidì fino alla spalla. Immaginando che l’arma avesse contrariato lo spirito, Eliphas la posò all’interno del cerchio. La figura umana ricomparve immediatamente, ma Eliphas fu colto da un tale improvviso sfinimento in tutte le membra che fu obbligato a sedersi. Cadde in una sorta di coma profondo e fece strani sogni dei quali, quando si riprese, non serbò che un vago ricordo. Il braccio rimase intorpidito e dolente per giorni. La figura non gli aveva parlato, ma Eliphas Lévi aveva l’impressione di aver ricevuto, nella propria mente, tutte le risposte. Perché, a ciascuna domanda, una voce interiore replicava con un’unica, sinistra parola: morto». «A quanto pare il suo amico non temeva i fantasmi, proprio come lei non teme i leoni» disse Burdon. «A me sembra chiaro che tutti questi preparativi, le essenze, gli specchi, i Pentalfa, colpiscano enormemente l’immaginazione. L’unica cosa che mi sorprende è che il suo mago non abbia visto nulla di più». «Fu lo stesso Eliphas Lévi a parlarmi di questa evocazione» disse il dottor Porhoët. «Mi disse che ebbe un’enorme influenza su di lui. Dopo non fu più lo stesso, perché gli sembrava che qualcosa dall’aldilà fosse passato nella sua anima». «Mi stupisce che lei non abbia provato di persona un esperimento così interessante» disse Arthur a Oliver Haddo. «L’ho fatto» rispose l’altro, tranquillamente. «Mio padre perse la facoltà di parlare poco prima di morire, ed era chiaro che cercava con tutte le forze di dirmi qualcosa. Un anno dopo la sua morte, richiamai il suo spirito dalla tomba, perché mi mettesse a parte delle sue ultime volontà. L’apparizione avvenne in circostanze molto simili a quelle che vi ho appena raccontato, e vi annoierebbe sentirle di nuovo. L’unica differenza fu che mio padre parlò». «E cosa disse?» domandò Susie. «Disse solennemente: “Compra le Ashanti, saliranno”. Io feci come mi aveva ordinato. Ma mio padre era sempre stato sfortunato con le speculazioni, e quelle azioni scendevano regolarmente. Le rivendetti con una perdita considerevole e conclusi che nell’aldilà ignorano le tendenze della borsa proprio come le ignoriamo noi in questa valle di lacrime». Susie non riuscì a trattenere una risata. Ma Arthur si strinse nelle spalle con insofferenza. Disturbava la sua mente pragmatica non sapere mai con certezza se Haddo fosse serio o se, come ora, stesse semplicemente prendendosi gioco di loro. 6 Due giorni dopo, Arthur ricevette la risposta di Frank Hurrell alla sua lettera. Era tipico di Frank darsi pena di rispondere a una domanda con dovizia di particolari, ed era evidente che non aveva affatto perduto il suo antico interesse per le personalità eccentriche. Egli analizzava il carattere di Oliver Haddo con la pazienza di uno scienziato che studi con zelo e passione una nuova specie. «Mio caro Burdon, «è singolare che tu mi scriva proprio adesso per chiedermi cosa so di Oliver Haddo; l’altra sera, in Queen Anne’s Gate, ho infatti cenato con un uomo che aveva molto da raccontare su di lui. Sono curioso di conoscere il motivo del tuo interesse, visto che le sue peculiarità lo rendono senza dubbio ripugnante a una persona dotata del tuo solido buonsenso. Non riesco a immaginare due uomini destinati ad andare meno d’accordo. Benché non veda Haddo ormai da anni, posso comunque raccontarti molte cose su di lui. Ha sbagliato a descrivermi come un suo amico intimo. È vero che un tempo ci vedevamo spesso, ma io non ho mai smesso di detestarlo cordialmente. Arrivò a Oxford da Eton con la reputazione di atleta e di eccentrico. Ma tu sai che niente più dell’eccentricità suscita la malevolenza dei giovani, ed egli divenne incredibilmente impopolare. Si scoprì che era un eccellente calciatore e, se non fosse stato per la sua sprezzante indolenza, sarebbe riuscito senza difficoltà a entrare nella squadra del college. Ma si prendeva gioco del diffuso entusiasmo per lo sport e soleva dire che il cricket è perfetto per i giovani, ma non è certo un passatempo adatto a un uomo (a quel tempo aveva diciotto anni!). Parlava con grande pomposità di caccia grossa e alpinismo, definendoli sport che richiedono coraggio e fiducia in se stessi. Sembrava amare il calcio, ma lo praticava con tale feroce brutalità che gli altri giocatori naturalmente se ne risentivano. Divenne voce comune che anche in altre attività non rispettasse le regole. Non faceva nulla di palesemente scorretto, ma si prendeva delle libertà che altri avrebbero giudicato sleali; giocando con lui era più duro accettare la sconfitta, perché esultava sui vinti con il volgare scherno che i giovani trovano tanto difficile da sopportare. «Sembra incredibile, eppure a quel tempo era molto avvenente. Adesso è ingrassato, ma allora era bellissimo. Ricordava una di quelle statue colossali di Apollo, nelle quali il dio è rappresentato con una delicatezza e una morbidezza tipicamente femminee. Era molto alto, e aveva una figura splendida. Era così prestante per la sua età che c’era da prevedere la sua precoce corpulenza. Il suo portamento era straordinariamente eretto. Molti lo definivano uno spaccone insolente. I suoi lineamenti erano fini, regolari. Aveva una gran massa di capelli ricci, che portava lunghi, quasi con grazia poetica: mi hanno detto che ora è calvo, e posso immaginare che brutto colpo debba essere stato per lui, perché era vanitosissimo. Ricordo un particolare dei suoi occhi, che dubito fosse naturale, anche se non so come sia riuscito ad acquisirlo. Di solito gli occhi delle persone convergono sull’oggetto osservato, mentre i suoi restavano paralleli. Ciò gli conferiva uno sguardo singolare, come se scrutasse i più intimi pensieri della persona con cui parlava. Era famoso anche per la stravaganza del suo vestiario ma, a differenza degli esteti del tempo, che si abbigliavano con artistica noncuranza, amava i colori sgargianti. Talvolta, per uno strano capriccio, si vestiva con una formalità eccessiva, inadatta al momento. È l’unico studente universitario che io abbia mai visto passeggiare per High Street con il cappello a cilindro e una redingote abbottonata fino al collo. «Ti ho detto che era molto impopolare, ma questo non significa che gli altri lo ignorassero lasciandolo in compagnia di se stesso. Haddo conosceva tutti, e capitava di incontrarlo nei posti più impensati. Sebbene la gente lo detestasse, provava uno strano piacere nel frequentarlo, ed egli era, probabilmente, l’uomo più richiesto di tutta Oxford. Ogni volta che lo vedevo era sempre circondato da una piccola folla che, pur prendendosi gioco di lui alle sue spalle, non riusciva a resistere al suo fascino. «Ho spesso cercato di analizzare questo fenomeno poiché riguardava anche me; sebbene in tutta onestà non riuscissi a sopportare Haddo, non potevo fare a meno di ricercare la sua compagnia ogni volta che se ne presentava l’occasione. Suppongo che avesse il fascino dell’insolito per la gran massa di studenti universitari che, sotto una scorza di pragmatica disinvoltura, nascondevano un’insospettata indole avventurosa. Era impossibile prevedere cosa avrebbe detto o fatto un attimo dopo, e con lui si stava perennemente in guardia. Di certo non era spiritoso, ma il suo umorismo grossolano eccitava il gusto giovanile per il ridicolo. Aveva un’ingegnosa attitudine alla caricatura, una sicurezza imperturbabile e una particolare predisposizione al linguaggio blasfemo. La sua inventiva in questo campo esercitava un vero potere sui giovani, la cui fantasia non andava oltre le forme più scontate della volgarità. L’ho sentito predicare, con gli stessi accenti del defunto decano del Christ Church, un sermone dei più sacrileghi, offensivo ma al tempo stesso irresistibile per chiunque lo ascoltasse. Aveva una cultura più variegata rispetto agli altri studenti e poiché nel contempo aveva una grande capacità mnemonica e una considerevole prontezza, assumeva un atteggiamento di onniscienza suggestivo quanto irritante. Mai che abbia ammesso di non aver letto un libro. Spesso, quando cercavo di coglierlo in fallo, egli mi confondeva citando parola per parola brani di opere che avrei giurato non avesse mai letto. Sarei portato a dire che fossero meri giochi di destrezza, come quelli del prestigiatore, che dà l’illusione di far scegliere una carta, mentre in effetti la impone. Egli, con estrema abilità, guidava la conversazione proprio al punto in cui avrei dovuto per forza citare un certo libro. Parlava molto bene, in un flusso travolgente e pomposo che rendeva particolarmente spassose le cose divertenti che diceva. Il suo linguaggio ricercato contrastava in modo stridente con i discorsi semplici di chi gli stava intorno e conferiva maggiore autorevolezza alle sue parole. Era orgoglioso della sua famiglia e non esitava a raccontare ai curiosi della sua illustre casata. A meno che non sia molto cambiato, sicuramente l’avrai sentito parlare dei suoi rapporti con più di una nobile famiglia. In effetti, è strettamente imparentato con persone di rilievo, e la sua ascendenza è insigne quanto egli asserisce. Suo padre è morto e ha una proprietà storica nello Staffordshire. Ho visto alcune foto, è bellissima. I suoi antenati si sono distinti nella storia d’Inghilterra fin dai tempi del cortigiano che accompagnò in Scozia Anna di Danimarca: ha dunque buoni motivi per andare orgoglioso della sua famiglia. Nel tempo che visse a Oxford era detestato cordialmente, ma sempre rispettato, pur senza godere della fiducia altrui. Aveva fama di bugiardo e canaglia, ma la sua influenza sugli altri era innegabile. Divertiva, faceva infuriare, irritava, interessava chiunque venisse in contatto con lui. Aveva un che di misterioso e amava ammantarsi di una romantica impenetrabilità. Benché conoscesse tanta gente, nessuno conosceva lui, e fino alla fine rimase un estraneo nella nostra cerchia. Attorno a lui sorse una leggenda, che egli alimentava con cura: si raccontava che avesse dei vizi segreti, di cui si poteva solo parlare sottovoce. Pareva che facesse uso di droghe orientali e frequentasse le più malfamate fumerie d’oppio dei quartieri a est di Londra. La sorpresa più grande la serbò per ultima: benché nessuno l’avesse mai visto studiare, tra lo stupore generale riuscì a ottenere la laurea con il massimo dei voti. Dopodiché ripartì e, a quanto mi risulta, a Oxford non lo si è più visto. «Ho sentito accennare vagamente ai suoi viaggi per il mondo, e quando mi capitava di incontrare qualcuno che lo aveva conosciuto all’università, mi giungevano all’orecchio strane chiacchiere. C’era chi diceva che girovagava per l’America, guadagnandosi da vivere qua e là; chi raccontava di averlo visto in un monastero in India; chi sosteneva che aveva sposato una ballerina di Milano, e chi dichiarava con assoluta certezza che si era dato al bere. Un’opinione, però, era comune a tutti i miei informatori: quel che faceva era sicuramente al di fuori della norma. Era chiaro che non si trattava di una persona disposta a adattarsi alla monotona vita del gentiluomo di campagna, come la sua posizione e il suo patrimonio avrebbero potuto consigliare. Un giorno, dopo tanto tempo, lo incontrai a Piccadilly e cenammo insieme al Savoy. Quasi feci fatica a riconoscerlo, giacché era diventato molto robusto e i suoi capelli si erano diradati. Sebbene non potesse avere più di venticinque anni, sembrava notevolmente più vecchio. Cercai di scoprire che cosa avesse fatto nel frattempo, ma, con l’aria di mistero che soleva ostentare, evitò di scendere in particolari. Mi dette a intendere di essere stato in terre dove l’uomo bianco non si era mai visto prima e di aver appreso segreti esoterici che sconvolgevano le fondamenta della scienza moderna. Mi sembrò involgarito di mente e di aspetto. Non so se per via della mia maturazione rispetto ai tempi di Oxford, e della mia maggior conoscenza del mondo, ma non mi parve brillante quanto lo ricordavo. La sua propensione allo scherzo era piuttosto sciocca e lui, a dirla tutta, mi annoiava. Quella posa che sembrava divertente in un giovane appena uscito da Eton era intollerabile, e fui lieto quando ci salutammo. Non si smentì: dopo avermi invitato a cena, con il suo fare da gran signore lasciò che fossi io a pagare il conto. «Poi non ho più sentito parlare di lui fino all’altro giorno, quando la nostra amica, Miss Ley, mi ha invitato a cena insieme all’esploratore tedesco Burkhardt. Ricorderai sicuramente che Burkhardt ha pubblicato, qualche tempo fa, un libro sulle sue avventure nell’Asia centrale. Sapevo che Oliver Haddo l’aveva accompagnato in quel viaggio, e proprio per questo mi ero riproposto di leggere il libro, ma avevo avuto troppo da fare e non c’ero ancora riuscito. Ho colto l’occasione per chiedere al tedesco della nostra comune conoscenza, e così abbiamo fatto una lunga chiacchierata. Burkhardt l’aveva incontrato per caso a Mombasa, nell’Africa orientale, dove stava organizzando una spedizione di caccia grossa, e si erano accordati per partire insieme. Mi ha raccontato che Haddo aveva una mira infallibile ed era un cacciatore eccellente. Burkhardt diffidava di chi si vantava continuamente delle proprie imprese, ma fu ben presto costretto ad ammettere che le vanterie di Haddo non erano infondate. Egli fu protagonista di un episodio straordinario, del quale Burkhardt fu testimone. Una notte uscì da solo sulle tracce di tre leoni e li uccise tutti prima dell’alba, e tutti al primo colpo. Io non mi intendo di queste cose, ma da come ne parlava Burkhardt direi che si tratta di un caso pressoché unico. Ovviamente, nessuno più di Haddo era consapevole della singolarità dell’impresa, ed egli rese dunque la vita insopportabile al suo compagno di viaggio. Burkhardt è convinto che Haddo sia davvero eccezionale nel dare la caccia alle grosse prede. Ha una sorta di istinto che lo guida nei posti più opportuni e un prodigioso senso dell’orientamento, che gli consente di intercettare e sorprendere animali di cui ha notato le tracce. Ha un coraggio immenso. Seguire un leone ferito nel suo nascondiglio è il comportamento più pericoloso del mondo e richiede un’assoluta freddezza. L’animale infallibilmente vede il cacciatore prima di essere visto, e nella maggior parte dei casi lo aggredisce. Ma Haddo, in occasioni simili, non ha mai esitato, e Burkhardt non ha potuto fare a meno di esprimere la più totale ammirazione per tanta audacia. Haddo non è quel che si dice un cacciatore sportivo. Uccide per capriccio, senza una ragione plausibile, per il semplice piacere di farlo e, con grande indignazione di Burkhardt, spesso non si curava nemmeno di portare via le pelli e le corna delle prede. Quando le antilopi erano talmente lontane che era impossibile ucciderle, e l’approssimarsi della notte rendeva inutile l’inseguimento, egli sparava lo stesso, per poi abbandonare la povera bestia ferita a morire lentamente. Il suo egoismo era estremo e non condivideva mai nessuna informazione con l’amico, temendo che potesse togliergli il piacere dell’inseguimento della preda. Nonostante tutto, Burkhardt aveva un’opinione talmente elevata delle sue capacità e delle sue risorse che, quando organizzò il viaggio in Asia, lo cercò per chiedergli di andare con lui. Haddo acconsentì, e il libro di Burkhardt fornisce ulteriori prove, se mai ce ne fosse bisogno, delle sue straordinarie qualità. Il tedesco mi ha confessato che in più di un’occasione il singolare intuito di Haddo gli ha salvato la vita. Ma alla fine litigarono per il trattamento dispotico che Haddo riservava agli indigeni. Burkhardt già lo sospettava di crudeltà, ma ben presto apparve chiaro che Haddo si comportava con loro in modo ingiustificabile. Infine ebbe una violentissima lite con uno degli inservienti del campo, che si concluse con l’uccisione dell’uomo. Haddo giurò di aver sparato per difendersi, ma il suo gesto provocò una diserzione generale e i due viaggiatori si ritrovarono in una situazione estremamente pericolosa. Burkhardt pensava che Haddo fosse da condannare senza esitazione e rifiutò di avere ancora a che fare con lui. Si separarono. Burkhardt rientrò in Inghilterra e Haddo, inseguito dagli amici dell’uomo assassinato, ebbe serie difficoltà a salvare la pelle. Non ho più sentito parlare di lui, finché non ho ricevuto la tua lettera. «Insomma, un uomo fuori del comune. Confesso di non capire nulla di lui. Niente che lo riguardi potrà mai sorprendermi. Ti raccomando di evitarlo come la peste. Non può essere amico di nessuno. Come conoscente, è ingannevole e insincero; come nemico, incline a comportarsi in modo spietato e privo di scrupoli. «Che lettera lunghissima! «Arrivederci, ragazzo mio. Spero che gli studi sui metodi chirurgici francesi abbiano accresciuto la tua saggezza. La tua industriosità mi è di esempio e sono certo che alla fine riuscirai a diventare baronetto e presidente del Royal College of Surgeons, liberando i membri della famiglia reale dalla loro appendice vermiforme. Con affetto, Frank Hurrell». Arthur, dopo aver letto due volte questa lettera, la mise in una busta e la lasciò, senza alcun commento, a Miss Boyd. La risposta della donna arrivò di lì a due ore: «L’ho invitato per il tè mercoledì, non posso disdire. Venga ad aiutarci, ma la prego, sia garbato con lui; faccia conto che, come la maggior parte di noi, si sia preso comandamenti». qualche libertà mentale con i dieci 7 La mattina del tè, Oliver Haddo lasciò sulla porta di Margaret enormi mazzi di crisantemi. Ce n’erano così tanti da mutare l’aspetto dell’austero appartamentino, conferendogli quella luminosità effimera che Margaret non era mai riuscita a dargli, nonostante i drappi di seta appesi qua e là alle pareti. Quando Arthur arrivò, si dolse che la cosa non fosse venuta in mente a lui. «Mi dispiace davvero» disse. «Non ho dato gran prova di urbanità». Margaret sorrise e gli tese la mano. «Mi piaci proprio perché non ti preoccupi delle banali, piccole attenzioni degli innamorati». «Margaret è una ragazza saggia» sorrise Susie. «Sa bene che quando un uomo manda dei fiori, vuol dire che ha corteggiato più di una donna». «Non credo che questi fiori siano stati mandati a me in particolare». Arthur Burdon si sedette e osservò con piacere il fuoco allegro. Le tende chiuse e le lampade creavano una gradevole intimità e si respirava quella speciale aria romantica tipica degli appartamenti degli artisti, dove un senso di libertà dispone la mente a liete speculazioni. In un’atmosfera simile si può essere seri senza pomposità, allegri senza essere fatui. Nei pochi giorni della loro conoscenza, Arthur e Susie erano giunti a instaurare un rapporto piacevolmente familiare. Susie, dal suo piedistallo di donna nubile e non più giovane, lo trattava con bonaria ironia. Per lei era un innamorato giovane e svanito, e si stupiva che persino il più intelligente degli uomini, in quella condizione, si comportasse come un perfetto idiota. Ma Margaret sapeva che, se la sua amica lo prendeva in giro, era soltanto perché lo approvava incondizionatamente. Man mano che cresceva la loro confidenza, Susie imparava ad apprezzare il carattere equilibrato di Arthur. Ne ammirava la capacità di gestire le questioni di cui aveva competenza, e la semplicità con cui evitava di immischiarsi laddove non si sentiva all’altezza. In lui non c’era alcuna posa. Susie era inoltre commossa dall’ingenuo candore che conferiva un fascino suadente ai suoi modi sbrigativi; benché ella attribuisse alla bellezza il valore che può darle una donna piuttosto scialba, le fattezze di Arthur, abbozzate come in una statua di porfido, le piacevano in modo particolare. Erano un riflesso del suo carattere. Il suo aspetto dava l’idea dell’uomo forte ma gentile, probo e semplice, non troppo fantasioso né troppo brillante, ma del tutto affidabile e onesto fin nel profondo dell’anima. In quel momento egli sedeva con il terrier di Margaret sulle ginocchia e gli carezzava le orecchie; Susie, guardandolo, si chiese con una piccola stretta al cuore perché nessun uomo simile ad Arthur si fosse mai interessato a lei. Era evidente che sarebbe stato un compagno perfetto e il suo amore, una volta conquistato, era di quelli che non mutano mai. Il dottor Porhoët entrò e prese posto con la sobria tranquillità che costituiva una delle sue attrattive. Non era un gran parlatore, preferiva ascoltare in silenzio le chiacchiere dei giovani. Il cane saltò giù dalle ginocchia di Arthur, andò verso il dottore e gli si strofinò con aria amichevole sulle gambe. In quella luce soffusa, cominciarono a parlare e quasi dimenticarono che aspettavano un altro ospite. Margaret sperava con tutta se stessa che non arrivasse. Non era mai stata attraente come quel pomeriggio, ed era intenta a preparare il tè con una grazia domestica che aggiungeva un tocco delicato alla sua bellezza. La sua perfezione circonfusa di tenera dignità rammentava quelle dolci sante familiari che stemperano l’intensità di certe pagine dei codici miniati. «C’est tellement intime ici» sorrise il dottor Porhoët ricorrendo al francese nell’impossibilità di esprimere in inglese la sensazione esatta che quella scena gli procurava. Pareva il quadro di un pittore di genere. Non sembrava un caso che i colori assumessero toni così gradevoli, o che le linee della parete e delle persone sedute raggiungessero una tale garbata armonia. L’atmosfera era straordinariamente tranquilla. Si sentì bussare alla porta e Arthur si alzò per aprire, seguito dal terrier. Entrò Oliver Haddo. Susie osservò il cane e stavolta non fu sorpresa dal suo cambiamento. Con la coda tra le zampe, quella bestiola affettuosa scivolò lungo il muro fino all’angolo più lontano. Rivolse a Haddo uno sguardo sospettoso, pieno di paura, poi nascose la testa. L’ospite, impegnato nei saluti, non aveva neppure notato la presenza di un animale. Con una semplicità e una cortesia inaspettate, accolse i ringraziamenti di Margaret per i fiori. Il suo comportamento li sorprese. Aveva abbandonato ogni posa. Sembrava ammirare sinceramente l’accogliente appartamentino. Chiese a Margaret di mostrargli i suoi schizzi e li osservò senza ostentare interesse. I suoi commenti erano acuti e denotavano una certa consapevolezza. Si definiva un amatore, ovvero «colui che sa quel che gli piace» ed è spesso oggetto della derisione dei pittori; ma le sue considerazioni, per quanto generose, dimostravano che non era uno sciocco. Le due donne erano impressionate. Messi da parte i disegni, Haddo cominciò a parlare, una volta tanto non di se stesso, ma, in modo brillante e spontaneo, dei molti luoghi che aveva visto. Era evidente che cercava di piacere. Susie cominciò a capire per quale motivo, nonostante gli atteggiamenti affettati, avesse esercitato un’influenza così forte sugli studenti di Oxford. Nella sua conversazione c’era qualcosa di avvincente e allegro; non era spiritoso, come aveva detto Frank Hurrell, ma compensava tale carenza con un’amena piacevolezza che poteva facilmente venir scambiata per umorismo. Eppure Susie, per quanto divertita, sentiva che non era questo lo scopo per cui gli aveva chiesto di venire. Il dottor Porhoët le aveva prestato la sua pregevole opera sugli antichi alchimisti, e questo le offriva l’occasione di portare il discorso su argomenti di cui Haddo era esperto. Aveva letto il libro con molto piacere; la sua mente era infiammata da quelle strane storie in cui realtà e fantasia si intrecciavano in maniera così mirabolante, ed era ansiosa di saperne di più. Gli affanni dei tanti che avevano perso tutto, spesso patendo persecuzioni e torture, la interessavano non meno dei racconti ben documentati di coloro che erano riusciti nella loro straordinaria impresa. Si rivolse al dottor Porhoët. «Lei ha un bell’ardire ad affermare che talvolta gli alchimisti di un tempo riuscissero davvero a creare l’oro» disse. «Non arrivo a tanto» sorrise lui. «Mi limito a dire che, se venisse fornita una prova parimenti decisiva di altri eventi storici, vi si crederebbe al di là di ogni dubbio. Possiamo rifiutarci di prestare fede a questi dettagli di secondaria importanza soltanto partendo dalla premessa che non siano veri». «Vorrei proprio che lei scrivesse quella biografia di Paracelso cui accenna nella prefazione». Il dottor Porhoët scosse la testa sorridendo. «Non credo che lo farò» disse. «Eppure è il più interessante di tutti gli alchimisti, una figura estremamente complessa che pone un enigma intrigante. È impossibile sapere fino a che punto fosse un ciarlatano e fino a che punto un serio uomo di scienza». Susie lanciò un’occhiata a Oliver Haddo, che sedeva in silenzio, il viso pesante avvolto nell’ombra e gli occhi fissi sul dottore che parlava. L’immobilità di quella mole immensa era straordinaria. «Il suo nome non è ridicolo quanto alcune associazioni successive farebbero pensare» continuò il dottore. «Egli apparteneva infatti all’illustre casata dei Bombast, che prese poi il nome di Hohenheim dalla residenza avita, un castello nei pressi di Stoccarda, nel Württemberg. La parte più interessante della sua esistenza è proprio quella che è impossibile circostanziare accuratamente, per mancanza di documenti. Paracelso viaggiò in Germania, Italia, Francia, nei Paesi Bassi, in Danimarca, Svezia e Russia. Arrivò persino in India. Fu fatto prigioniero dai tartari e condotto alla presenza del Gran Khan, il cui figlio in seguito accompagnò a Costantinopoli. Davvero ottusa dev’essere la mente che non si esalti al pensiero di questo genio vagabondo che traversò la terra in un tempo di grandi eventi storici. Fu a Costantinopoli che, secondo un certo aureum vellus stampato a Rorschach nel Cinquecento, egli ricevette la pietra filosofale da Salomone Trismosino. Costui possedeva anche la panacea universale e si diceva che fosse stato visto ancora in vita da un viaggiatore francese alla fine del Seicento. Paracelso, quindi, raggiunse l’Italia attraverso i paesi che costeggiano il Danubio, e lì prestò servizio come medico nell’esercito imperiale. Con tutta probabilità prese parte alla battaglia di Pavia. Raccolse informazioni da medici, chirurghi, alchimisti; da boia, barbieri, pastori, ebrei, zingari, levatrici, cartomanti; da gente di alta e bassa estrazione; da dotti e incolti. Nella breve storia della sua carriera da me delineata, ho riportato alcune sue frasi sull’acquisizione della conoscenza che suscitano in me una particolare emozione». Il dottor Porhoët prese il libro dalle mani di Miss Boyd e lo aprì con volto pensoso. Lesse ad alta voce un estratto della prefazione del Paragrano: «“Sono andato in cerca della mia arte, spesso rischiando la vita. Non mi sono vergognato di apprendere quel che mi pareva utile anche dai vagabondi, dai boia, dai barbieri. Sappiamo che un amante percorrerà molta strada per incontrare la sua amata; tanto più l’amante della Saggezza sarà allora tentato di andare alla ricerca della sua divina passione”». Voltò pagina per leggere ancora qualche riga: «“Dovremmo cercare la sapienza dove ci aspettiamo di trovarla, perché dunque disprezzare chi la persegue? Coloro che restano a casa possono arricchirsi e vivere più confortevolmente di chi vaga; ma io non desidero né vivere confortevolmente né arricchirmi”». «Per Giove, questo è parlare» disse Arthur alzandosi in piedi. La coraggiosa semplicità di quelle parole lo aveva commosso quanto nessuna retorica sarebbe riuscita a fare, ed esse alimentavano in lui il desiderio di dedicare la vita all’ardua conquista della conoscenza. Il dottor Porhoët gli regalò il suo sorriso ironico. «Eppure, l’uomo che si espresse in questi termini era per molti versi un vero buffone, che decantava i pregi delle sue merci con la volgare abilità di un ciarlatano. Era vanesio ed esibizionista, sfrenato e vanaglorioso. Ascolta: “Dopo di me, Avicenna, Galeno, Rasis e Montagnana! Dopo di me, non io dopo di voi, uomini di Parigi, Montpellier, Meissen e Colonia; voi tutti che venite dai paesi lungo il Danubio e il Reno, e voi che venite dalle isole del mare. Non mi si addice seguirvi, perché mia è la signoria. Verrà il tempo in cui ciascuno di voi, relegato nel suo angolo oscuro, sarà oggetto di disprezzo per il mondo, perché io sarò il Re, e la Monarchia sarà mia”». Il dottor Porhoët chiuse il libro. «Avete mai sentito un simile vaniloquio in vita vostra? Eppure Paracelso fece una cosa coraggiosa. Scrisse in tedesco, anziché in latino, e così, indebolendo l’antica fede nell’autorità, contribuì a dare avvio alla diffusione del libero pensiero nella scienza. Continuò a viaggiare di luogo in luogo, seguito da una folla di discepoli, a volte attratto in una ricca città dalla speranza di guadagni, a volte raggiungendo una piccola corte su invito di un principe. La sua follia e la malevolenza dei suoi nemici gli impedivano di restare a lungo in un posto. Inventò molte cure prodigiose. I medici di Norimberga lo denunciarono come ciarlatano e impostore. Per confutarli, egli chiese al consiglio cittadino di affidargli pazienti dichiarati incurabili. Gli mandarono diversi casi di elefantiasi, ed egli li guarì: esistono testimonianze in merito, ancora rintracciabili negli archivi di Norimberga. Morì in una rissa da taverna e fu sepolto a Salisburgo. La tradizione narra che, essendo il suo corpo astrale diventato autocosciente nel corso della sua esistenza fisica, egli è ora un adepto vivente e dimora con altri della sua stessa specie in un certo luogo dell’Asia. Da lì ancora agisce sulle menti dei seguaci, e talvolta appare loro in sostanza visibile e tangibile». «Ma mi dica un po’,» domandò Arthur «Paracelso, come molti di questi antichi, non fece anche qualche scoperta dotata di utilità pratica, nel corso delle sue ricerche?». «Io preferisco quelle prive di utilità pratica,» confessò il dottore con un sorriso «ad esempio la tinctura physicorum, che né papi né imperatori poterono mai comprare, nonostante le loro ricchezze. Fu uno dei più grandi misteri alchemici, e sebbene sia menzionata in molte opere di occultismo con il nome di Leone rosso, in realtà, prima di Paracelso, era nota a ben pochi, se si escludono Ermete Trismegisto e Alberto Magno. La sua preparazione era estremamente complessa, essendo necessaria la presenza di due persone in perfetta armonia e di pari competenza. Si diceva che fosse un fluido rosso ed etereo. La meno portentosa delle sue virtù era il potere di trasformare tutti i metalli vili in oro. Si dice che della tintura sia ancora sepolta sotto una vecchia chiesa in Baviera. Nel 1698 una piccola quantità di fluido filtrò dal terreno e molte persone furono testimoni di questo fenomeno, ritenuto un miracolo. La chiesa che fu eretta sul posto è un famoso luogo di pellegrinaggio. Paracelso conclude le sue indicazioni per la preparazione della tintura con queste parole: “Ma se ciò vi risulta incomprensibile, rammentate che soltanto colui che vuole con tutto il cuore troverà, e soltanto a colui che bussa con forza la porta sarà aperta”». «Io non cercherò mai di prepararla» sorrise Arthur. «C’era poi l’electrum magicum, con il quale i sapienti facevano degli specchi per poter vedere non solo i grandi avvenimenti del passato e del presente, ma anche le azioni compiute dagli uomini, di giorno e di notte. Potevano vedere qualunque cosa fosse stata scritta o detta, colui che l’aveva detta e i motivi che l’avevano spinto a farlo. Ma quello che preferisco è il primum ens melissae. Per la sua preparazione occorre seguire un’elaborata ricetta. È un rimedio per prolungare la vita, e non solo Paracelso, ma anche i suoi predecessori Galeno, Arnaldo da Villanova e Raimondo Lullo si erano adoperati con zelo nella sua ricerca». «Riuscirà a farmi tornare ai miei diciotto anni?» esclamò Susie. «Sicuramente» rispose serio il dottor Porhoët. «Lesebren, uno dei medici di Luigi XIV, dà un resoconto di alcuni esperimenti di cui egli stesso fu testimone. Pare che uno dei suoi amici avesse preparato il rimedio, ed egli non trovò pace finché non ne ebbe visto con i propri occhi l’effetto». «Ecco un vero atteggiamento scientifico» rise Arthur. «Ogni mattina, al sorgere del sole, egli beveva un bicchiere di vino bianco con una goccia di questo preparato. Dopo quattordici giorni, cominciarono a cadergli le unghie, senza che sentisse alcun dolore. A quel punto gli mancò il coraggio e somministrò la stessa dose a una vecchia serva. Con suo grande stupore, poiché non sapeva di aver preso una medicina, la donna riconquistò almeno in parte l’aspetto che aveva da giovane; e, spaventata, si rifiutò di continuare. Lo sperimentatore, allora, prese del grano, lo immerse nella tintura e lo dette a una vecchia gallina. Il sesto giorno questa cominciò a perdere le piume fino a ritrovarsene, ben presto, completamente priva, come un pulcino appena nato; ma, dopo neppure due settimane, le crebbe un nuovo piumaggio, molto più bello e colorato di quanto lo avesse mai avuto. Le si drizzò di nuovo la cresta e riprese a deporre le uova». Arthur rise di cuore. «Devo confessare che questa storia mi piace molto di più. Il primum ens melissae quanto meno offre un beneficio meno futile rispetto agli altri segreti magici». «E lei definisce futile la ricerca dell’oro?» domandò Haddo, che era rimasto a lungo in perfetto silenzio. «Io la definirei sordida». «Lei è un essere superiore». «Perché giudico gli intenti di questi mistici invariabilmente grossolani o volgari? A mio modo di vedere, è vano far risorgere i morti solo per udire dalle loro labbra spettrali dei banali luoghi comuni. E, in realtà, non vedo proprio perché l’alchimista che dedicò la vita al tentativo di creare l’oro debba essere più rispettabile di un operatore di borsa della civiltà moderna». «Ma se cercava l’oro, era per il potere che gli avrebbe assicurato, ed era al potere che mirava quando meditava notte e giorno su nebulosi segreti. Il potere era l’oggetto di tutti i suoi sogni, ma non il potere limitato, meschino, sull’una o sull’altra cosa; bensì il potere su tutto il creato, il potere sugli stessi elementi, il potere su Dio. La sua bramosia era così sfrenata da non dargli pace finché il corso delle stelle non avesse obbedito alla sua volontà». Per una volta Haddo aveva perso i suoi modi enigmatici. Era ormai chiaro che le sue stesse parole lo inebriavano, e aveva sul volto una nuova, strana espressione. Un’arroganza tutta particolare gli lampeggiava negli occhi luminosi. «E cos’altro cercherebbero gli uomini nella vita se non il potere? Se vogliono denaro, è solo per il potere che esso assicura; e la conquista della conoscenza è sempre una lotta per il potere. Miserabili e stolti mirano alla felicità, ma gli uomini mirano solo al potere. Il mago, lo stregone, l’alchimista sono conquistati dal fascino dell’ignoto e anelano a una grandezza inaccessibile al genere umano. Pensano che, grazie alla scienza studiata tanto pazientemente, grazie alla sopportazione e alla forza, alla volontà e all’immaginazione – perché queste sono le grandi armi del mago –, potranno finalmente conquistare un potere che consenta loro di sfidare il Dio dei cieli». Oliver Haddo sollevò l’immensa mole dalla bassa poltrona nella quale era seduto e cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza. Era curioso vedere quell’omone dalla serietà sempre indecifrabile in preda a una curiosa eccitazione. «A proposito di Paracelso,» disse «c’è un suo esperimento che il dottore vi ha taciuto. Vi renderete conto che non è né gretto né interessato, ma terribile. Io non so se quel che se ne dice sia vero, ma sarebbe molto interessante poterlo verificare». Fece correre lo sguardo sui quattro che lo fissavano con attenzione. C’era una singolare agitazione nei suoi modi, come se ciò di cui parlava gli stesse molto a cuore. «Gli antichi alchimisti credevano che la generazione spontanea fosse possibile. Mediante la combinazione di energie psichiche e di strane essenze, essi sostengono di aver creato forme nelle quali si manifestava la vita. Di queste, le più meravigliose erano alcuni misteriosi esseri, maschi e femmine, che chiamarono homunculi. Gli antichi filosofi dubitavano che questa operazione fosse realizzabile, ma Paracelso ne era convinto. Una volta, per quattro soldi, acquistai un libretto in tedesco su un carrettino vicino al London Bridge. Era sporco e gualcito, molte pagine erano strappate e la legatura teneva a stento insieme i fogli. Si intitolava Die Sphinx, ed era curato da un certo dottor Emil Besetzny. Conteneva il resoconto più straordinario che io abbia mai letto sulla generazione di alcuni spiriti a opera di Johann Ferdinand, conte von Kufstein, in Tirolo, nel 1775. Le fonti sono manoscritti massonici, ma soprattutto un diario tenuto da un certo James Kammerer, maggiordomo e famiglio del conte. Le prove sono dieci volte più forti di quelle a sostegno di qualsiasi articolo di religione, in cui gli uomini pur credono. Se gli argomenti fossero meno sensazionali, non si esiterebbe a dar credito a ogni parola. Dieci homunculi –Kammerer li chiama spiriti profetici – erano tenuti dentro robusti vasi di vetro come quelli usati per conservare la frutta, pieni d’acqua e chiusi con un sigillo magico. Erano stati creati in cinque settimane dal conte von Kufstein e da un mistico Rosacroce italiano, l’abate Geloni. Erano alti circa una spanna e il conte non vedeva l’ora che crescessero. I vasi vennero pertanto ricoperti con abbondanza di sterco e sul tumulo veniva spruzzata ogni giorno un’essenza preparata con estrema cura dagli adepti, finché esso cominciò a fermentare e a esalare vapore, quasi fosse scaldato da un fuoco sotterraneo. Quando i vasi furono rimossi, si scoprì che gli spiriti erano alti fino a una spanna e mezzo; a tutti erano cresciute le unghie, e ai maschi barbe fluenti. In due dei vasi non si vedeva nient’altro che acqua limpida, ma quando l’abate picchiò tre volte sul sigillo, pronunciando alcune parole in ebraico, l’acqua assunse uno strano colore e apparvero dei volti, dapprima erano molto piccoli, poi via via più grandi fino a raggiungere le dimensioni di un volto umano. Avevano un aspetto orribile, demoniaco». Haddo parlava piano; gli tremava la voce ed era profondamente scosso. La storia lo turbava tanto da fargli quasi perdere il controllo. Continuò. «Queste creature venivano nutrite dal conte ogni tre giorni con una sostanza rosa conservata in una scatola d’argento. Una volta alla settimana i vasi venivano vuotati e riempiti di nuovo con pura acqua piovana. L’operazione doveva svolgersi rapidamente, perché quando gli homunculi erano esposti all’aria sembravano indebolirsi e perdere coscienza, come se stessero per morire. Nell’acqua degli spiriti invisibili, invece, a intervalli di tempo stabiliti veniva versato del sangue, che scompariva immediatamente e inspiegabilmente senza colorare o mutare l’essenza dell’acqua. Un giorno uno dei vasi cadde e si ruppe. L’homunculus che c’era dentro morì dopo pochi penosi respiri, nonostante tutti gli sforzi fatti per salvarlo, e il suo corpo venne sepolto nel giardino. Il conte tentò di generarne un altro ma, senza l’assistenza dell’abate, che nel frattempo era partito, fallì. Riuscì a produrre solo un esserino piccolo come una sanguisuga, con ben poca vitalità, che presto morì». Haddo smise di parlare, e Arthur lo guardò con stupore. «Ammettiamo pure che la cosa sia possibile, ma qual è mai l’utilità di creare queste strane bestiole?» domandò. «L’utilità!» esclamò Haddo con ardore. «Secondo lei che sensazioni prova un uomo dopo aver risolto il grande mistero dell’esistenza, dopo aver visto con i propri occhi una sostanza inerte prendere vita? Questi homunculi furono visti da personaggi storicamente esistiti, dal conte Max Lemberg, dal conte Franz Josef von Thun e da molti altri. Io non ho alcun dubbio che siano stati effettivamente creati. Ma con i nostri strumenti moderni, con le nostre possibilità, che cosa saremmo in grado di fare se solo avessimo il coraggio? Ci sono chimici che nei loro laboratori lavorano per creare il protoplasma primitivo da una materia morta, l’organico dall’inorganico. Io ho studiato i loro esperimenti. So tutto quello che sanno loro. Perché non si dovrebbe lavorare su più ampia scala, coniugando la conoscenza degli antichi adepti con le scoperte scientifiche dei moderni? Non so quale risultato si potrebbe ottenere. Molto strano, e molto prodigioso. A volte la mia mente è ossessionata dal desiderio di vedere una sostanza inerte prendere vita grazie ai miei incantesimi; sono ossessionato dal desiderio di essere come Dio». Emise una risata bassa, disumana, tra il crudele e il voluttuoso. Margaret rabbrividì, colta da un’improvvisa paura. Haddo si era lasciato cadere su una poltrona, avvolto nell’ombra più totale. Per un singolare effetto, i suoi occhi apparivano iniettati di sangue e fissavano il vuoto, stranamente paralleli, con un’intensità terrificante. Arthur ebbe un lieve sobbalzo e gli lanciò uno sguardo inquisitorio. La risata, lo sguardo innaturale, l’insondabile emozione parlavano da sé. Poteva esserci una sola spiegazione: che Oliver Haddo fosse pazzo. Scese un silenzio imbarazzato. Le parole di Haddo erano state fuori luogo rispetto al tono della conversazione. Il dottor Porhoët aveva parlato di magia con un’ironia venata di scetticismo che aveva reso quasi umoristico l’argomento, e Susie ci aveva scherzato sopra. Ma la veemenza di Haddo li aveva lasciati increduli e sgomenti. Il dottor Porhoët si alzò per andarsene. Strinse la mano a Susie e a Margaret; Arthur lo accompagnò alla porta. Il garbato scienziato cercò con gli occhi il terrier di Margaret. «Devo salutare il suo cagnolino». La bestiola era stata così tranquilla che avevano dimenticato la sua presenza. «Vieni qui, Copper» disse Margaret. Il cane, lentamente, si trascinò verso di loro, e con espressione terrorizzata si accucciò ai piedi di Margaret. «Che diavolo ti prende?» disse lei. «Ha paura di me» disse Haddo, con quella sua risata roca che lasciava un’impressione tanto sgradevole. «Sciocchezze!». Il dottor Porhoët si chinò, carezzò il cane sul dorso e gli strinse la zampa. Margaret lo sollevò e lo mise sul tavolo. «Su, fai il bravo» disse, sollevando un dito. Il dottor Porhoët se ne andò con un sorriso e Arthur chiuse la porta alle sue spalle. D’improvviso, come se il male si fosse impadronito di lui, il terrier si avventò contro Oliver Haddo e gli conficcò i denti nella mano. Haddo lanciò un grido e, dopo averlo scosso via, gli dette un calcio violento. Il cane ruzzolò con un guaito acuto, quasi un grido di dolore; poi giacque immobile, come se fosse gravemente ferito. Margaret gridò, inorridita, indignata. D’improvviso Arthur fu preso da una rabbia feroce, al punto di non rendersi conto di quel che faceva. La sofferenza della povera bestia, il terrore di Margaret, il suo odio istintivo per quell’uomo si mescolarono in un folle impulso febbrile. «Maledetto» disse tra i denti. Colpì Haddo con un pugno in pieno viso. L’uomo crollò a terra di peso e Arthur, afferrandolo per il colletto, cominciò a tempestarlo di calci con tutte le sue forze. Lo scosse come un cane scuote un topo, poi lo scaraventò violentemente a terra. Per qualche misterioso motivo, Haddo non oppose resistenza. Rimase dove era caduto, del tutto inerme. Arthur si voltò verso Margaret, che teneva fra le braccia il povero cane ferito e, piangendo, cercava di dare conforto alla sua sofferenza. Con grande delicatezza egli lo esaminò per vedere se il calcio brutale di Haddo gli avesse spezzato un osso. Si sedettero accanto al camino. Susie, per calmare i nervi, si accese una sigaretta. Avvertiva la presenza inquietante di quell’uomo, riverso con tutta la sua stazza sul pavimento alle loro spalle. Che cosa avrebbe fatto, adesso? Perché non se ne andava? Provò vergogna per la sua umiliazione. Poi sentì il cuore fermarsi; si rese conto che Haddo si stava alzando in piedi, lentamente, con la difficoltà di una persona molto grassa. Egli si appoggiò alla parete e li fissò, senza muovere un muscolo. La sua immobilità la innervosiva e, sentendosi puntare addosso quegli occhi innaturali, la cui espressione non osava neppure immaginare, Susie avrebbe avuto voglia di urlare. Infine non riuscì più a resistere e si voltò quel tanto che bastava per vederlo. Gli occhi di Haddo fissavano Margaret con tale intensità che egli non si rese conto di essere a sua volta osservato. Il viso, stravolto dall’ira, era orribile a vedersi. Quella vasta massa di carne aveva una malignità inumana, orrendamente deformata da un odio satanico. Ma poi mutò espressione. La vampa cedette a un pallore spettrale. Il perfido sguardo vendicativo scomparve, e un torpido sorriso si diffuse pian piano sui suoi tratti, un sorriso ancor più terrificante di quel ghigno malefico. Che voleva dire? Susie avrebbe voluto gridare, ma la lingua era come inchiodata alla gola. Il sorriso svanì e il volto di Haddo si fece di nuovo impassibile. Dopo un po’ anche Margaret e Arthur si resero conto del potere di quegli occhi inumani e rimasero impietriti. Il cane smise di guaire. Il silenzio era talmente profondo che ciascuno sentiva il battito del proprio cuore. Era intollerabile. Poi Oliver Haddo si mosse. Avanzò adagio. «Vi prego di perdonarmi per quel che ho fatto» disse. «Il dolore per il morso del cane è stato talmente acuto che ho perso il controllo. Sono costernato di avergli dato un calcio. Il dottor Burdon ha fatto benissimo a colpirmi. Era quel che meritavo». Parlava a voce bassa, ma con estrema chiarezza. Susie ne fu sorpresa. Quell’umile apologia era l’ultima cosa che si sarebbe aspettata. Haddo tacque e attese la risposta di Margaret, ma lei non riusciva neanche a guardarlo. Quando parlò, le sue parole quasi non si udirono. Non sapeva perché, ma le sue scuse glielo rendevano ancora più odioso. «Se non le dispiace, credo che farebbe meglio ad andarsene». Haddo accennò un inchino, poi si rivolse a Burdon. «Desidero informarla che non provo risentimento per quel che lei ha fatto. Mi rendo conto di quanto fosse giusta la sua ira». Arthur non rispose. Haddo esitò un attimo, mentre i suoi occhi si posavano lenti su di loro. A Susie sembrò di vedervi guizzare l’ombra di un sorriso. Lo osservò con profondo stupore. Egli prese il cappello, si inchinò di nuovo e se ne andò. 8 Susie non riusciva a convincersi che il dispiacere di Haddo fosse sincero. L’umiltà con cui era stato espresso la insospettiva. Non riusciva a togliersi di mente l’insidia orrenda del sorriso che, sul suo volto, aveva sostituito lo sguardo d’odio mortale del primo impulso. La fantasia le suggeriva che Oliver Haddo avrebbe potuto vendicarsi del suo nemico in tanti modi misteriosi e non sapeva come mettere in guardia Arthur. Ma egli si limitò a riderne. «Quell’uomo è un codardo» disse. «Se avesse avuto un po’ di fegato non mi avrebbe consentito di prenderlo a pugni senza neppure tentare di difendersi». La vigliaccheria di Haddo accresceva il disgusto che Arthur provava per lui. La trepidazione di Susie lo divertiva. «Che mai potrà fare? Non può certo tirarmi una tegola in testa. Se mi spara mette a repentaglio la sua vita, e non è tanto stupido da rischiare in questo modo!». Margaret era lieta che quell’incidente li avesse liberati della compagnia di Haddo. Lo incontrò per strada un paio di giorni dopo e, poiché egli si tolse il cappello all’uso francese, senza attendere che lei lo salutasse, poté fingere di non vederlo. Cominciò a programmare con Arthur la data del matrimonio. Le pareva di aver ormai avuto da Parigi tutto quel che la città poteva darle e desiderava cominciare una nuova vita. L’amore per Arthur le appariva all’improvviso più pressante, e il pensiero della felicità che gli avrebbe dato la riempiva di piacere. Un paio di giorni dopo Susie ricevette un telegramma. Diceva: «Vediamoci alla Gare du Nord, 2.40. Nancy Clerk». Era una sua vecchia amica e, a quanto pareva, arrivava a Parigi quel pomeriggio. Sul camino c’era una sua foto, corredata di una vistosa firma; Susie le lanciò uno sguardo inquisitorio. Non vedeva Nancy da molto tempo e quel messaggio così urgente la sorprendeva. «Che seccatura! Mi toccherà proprio andare». Lei e Margaret erano state invitate a un tè sull’altra sponda del fiume, ma il tragitto per la stazione era talmente lungo che a Susie non sarebbe convenuto tornare a casa dopo aver visto Nancy; decisero dunque di incontrarsi direttamente sul luogo dell’appuntamento. Susie si avviò un po’ prima delle due. Margaret quel pomeriggio aveva lezione e uscì qualche minuto dopo. Mentre attraversava il cortile sussultò, perché le passò accanto Oliver Haddo. Camminava piano e sembrava non averla vista. D’un tratto si fermò, si portò la mano al cuore e cadde pesantemente a terra. La concierge, l’unica persona nei pressi, corse verso di lui con un grido. Si inginocchiò e, guardandosi attorno terrorizzata, si accorse di Margaret. «Oh, Mademoiselle, venez vite!» urlò. Margaret fu costretta ad avvicinarsi, con il cuore che batteva all’impazzata. Chinò lo sguardo su Oliver e le sembrò morto. Dimenticò quanto lo detestasse. D’istinto gli si inginocchiò accanto e gli allentò il colletto. Egli aprì gli occhi. Un’espressione di orribile angoscia gli si diffuse sul volto. «Per l’amor di Dio, mi porti dentro un momento» disse con un singulto. «O morirò per la strada». Il cuore di lei fu commosso. Non poteva certo portarlo nell’angusto stanzino, maleodorante e privo d’aria, della concierge. Sorreggendolo insieme a quest’ultima, Margaret lo portò nel suo appartamento. Con aria sofferente, egli sprofondò in una poltrona. «Desidera dell’acqua?» gli domandò Margaret. «Potrebbe prendermi una pasticca dalla tasca?». Inghiottì una compressa bianca, che Margaret tirò fuori da un astuccio attaccato alla catena dell’orologio. «Sono mortificato, non volevo causarle tutto questo fastidio» disse lui ansimando. «Soffro di cuore, e a volte mi ritrovo a un passo dalla morte». «Sono contenta di averla potuta aiutare» disse lei. Sembrava che respirasse meglio. Margaret lo lasciò tranquillo, a recuperare le forze. Prese un libro e cominciò a leggere. D’improvviso, senza muoversi dalla poltrona, Haddo parlò. «Mi odierà, per questa mia intrusione». La sua voce era più forte e la pietà di lei scomparve man mano che egli si riprendeva. Gli rispose con gelida indifferenza. «Non avrei potuto fare altrimenti. Avrei portato dentro anche un cane, se mi fossi accorta che era ferito». «Capisco. Vuole che me ne vada». Si alzò e fece per andare verso la porta, ma inciampò e cadde sulle ginocchia con un gemito. Margaret accorse ad aiutarlo. Si rimproverò aspramente per le sue parole sprezzanti. Quell’uomo era appena scampato alla morte e lei era stata crudele. «La prego, rimanga pure quanto desidera» esclamò. «Mi perdoni, non avevo intenzione di offenderla». Egli si trascinò a fatica verso la poltrona e lei, presa dal rimorso, gli restò accanto senza sapere cosa fare. Gli versò un bicchiere d’acqua, ma egli lo rifiutò con un cenno, come se non volesse esserle debitore neanche di quello. «C’è qualcosa che posso fare per lei?» esclamò Margaret dispiaciuta. «Nulla, se non lasciarmi riposare su questa poltrona» rispose lui con affanno. «Rimanga pure quanto vuole». Egli tacque e Margaret tornò a sedersi, fingendo di leggere. Dopo un po’, Haddo riprese a parlare. La sua voce sembrava giungere da una grande distanza. «Potrà mai perdonarmi per quel che ho fatto l’altro giorno?». Lei gli rispose senza guardarlo, dandogli le spalle. «Le importa davvero il mio perdono?». «Lei non ha pietà. Le ho già espresso il mio dispiacere per un improvviso e incontrollabile dolore che mi ha spinto a fare una cosa di cui mi sono subito pentito amaramente. Non crede che sia stato difficile per me, in quelle circostanze, ammettere la mia colpa?». «Preferirei non parlarne. Non voglio ripensare a quella scena orribile». «Se lei avesse capito quanto ero solo e infelice, avrebbe avuto un po’ di compassione». La sua voce era stranamente commossa. Margaret non dubitava della sua sincerità. «Lei pensa che io sia un ciarlatano perché mi occupo di cose che non conosce. Non vuole cercare di capire. Non mi riconosce il merito di lottare con tutto me stesso per uno scopo assai nobile». Margaret non rispose e per qualche tempo scese il silenzio. La voce di Haddo si fece diversa, curiosamente seducente. «Lei mi guarda con disgusto e disprezzo. Era pronta a lasciarmi morire per la strada piuttosto che tendere una mano in mio aiuto. E se in quel momento non fosse stata caritatevole quasi controvoglia, io sarei morto». «Non credo che faccia alcuna differenza quello che io penso di lei» sussurrò Margaret. Non sapeva per quale motivo i toni profondi, carezzevoli di Haddo facessero misteriosamente vibrare le corde del suo cuore. Aveva il battito accelerato. «E invece ne fa molta, di differenza. È orribile pensare che lei mi disprezzi. Io percepisco la sua bontà e la sua purezza, ma non riesco a sopportare la mia indegnità. Lei distoglie da me i suoi occhi come se fossi infetto». Ella girò appena la sedia e lo guardò. Era stupita dal cambiamento nel suo aspetto. La sua orribile obesità non le sembrava più repellente, perché i suoi occhi avevano un’espressione nuova: erano tenerissimi, quasi umidi di lacrime. La bocca era torturata da una profonda angoscia, che Margaret non aveva mai visto sul volto di un uomo; un rimorso incontrollabile si impadronì di lei. «Non voglio essere scortese» disse. «Ora andrò via. È il modo migliore per ripagarla di quel che ha fatto per me». Le sue parole erano così amare, così piene di umiliazione, che le guance di Margaret avvamparono. «La prego, resti. Ma parliamo d’altro». Per un attimo egli rimase in silenzio. Sembrava non vedere più Margaret, e lei lo osservava pensosa. Lo sguardo di lui era posato su una riproduzione della Gioconda appesa a una parete. D’improvviso, Haddo cominciò a parlare. Declamò le parole mielate con cui Walter Pater aveva espresso la sua ammirazione per quel quadro perfetto. «“Suo è il capo su cui convergono tutte le fini del mondo, e le palpebre ne sono come appesantite. È una bellezza che dall’interno raggiunge la carne; il sedimento, cellula su cellula, di singolari pensieri, sogni fantastici e squisite passioni. Accostatela per un attimo a una di quelle marmoree dee greche o alle donne più belle dell’antichità: quanto la loro bellezza sarebbe offuscata da questo distillato dell’anima e dei suoi malanni! Tutto ciò che al mondo è stato pensato e vissuto ha agito su di essa, incidendo, plasmando, affinandone la forma esteriore, fino a dar corpo alla carnalità della Grecia, alla lascivia di Roma, al misticismo del Medioevo col suo anelito spirituale e i suoi immaginosi amori, al ritorno del mondo pagano, ai peccati dei Borgia”». La sua voce, intensa e musicale, si mescolava con la musica soave delle sue parole; a Margaret pareva di non averne mai compreso prima il divino significato. Era inebriata dalla loro bellezza. Desiderava che egli continuasse, ma non aveva la forza di chiederglielo. Quasi intuendo il suo pensiero, Haddo riprese a parlare e ora la sua voce aveva la ricchezza di un organo udito di lontano. Era come una fragranza penetrante e Margaret quasi non riusciva a sopportarla. «“È più antica delle rocce tra le quali siede; come il vampiro, è morta molte volte e ha appreso i segreti del sepolcro; si è immersa in mari profondi e si ammanta dei loro crepuscoli; ha trafficato in arcane dissolutezze con mercanti orientali; come Leda, è stata madre di Elena di Troia e, come sant’Anna, madre di Maria; e tutto questo per lei è stato null’altro che suono di lire e flauti, vivo solo nella delicatezza che plasma i suoi tratti mutevoli e sfuma di colore le palpebre e le mani”». Oliver Haddo cominciò quindi a parlare di Leonardo da Vinci, mescolando le sue personali fantasie alle parole perfette del saggio di Pater che, con memoria prodigiosa, sembrava conoscere a mente. Scoprì esotiche fantasie nella somiglianza tra san Giovanni Battista, con le sue carni morbide e i capelli ondulati, e Bacco dall’ambiguo sorriso. Vista attraverso i suoi occhi, la marina alle spalle di sant’Anna acquistò la soffocante immobilità di una cappella drappeggiata di damaschi in un monastero spagnolo, mentre sopra i paesaggi si librava un inquietante e vago spirito del male. Egli amava quei quadri misteriosi in cui l’artista, al di là dei limiti della pittura, aveva cercato di esprimere qualcosa, un desiderio inappagato, un anelito a passioni non umane. Oliver Haddo riscontrava questa qualità in particolari impensati e le sue parole conferivano un nuovo significato a quadri che Margaret aveva sfiorato con sguardo inconsapevole. Nella Grande Galerie del Louvre c’era il ritratto di uno scultore, opera del Bronzino. I lineamenti erano piuttosto netti, il viso largo; l’espressione era ombrosa, quasi cupa, nell’immobilità della tela dipinta, e gli occhi erano scuri, allungati, come quelli di un orientale. Le labbra rosse erano modellate con un tratto squisito e una sensualità elusiva e conturbante; i capelli scuri, dal taglio corto, si arricciavano sulla testa con grazia infinita. La pelle era come avorio ammorbidito da un delicato tocco di carminio. C’era, in quel volto, più che la bellezza: ciò che maggiormente affascinava l’osservatore era una suprema e sprezzante indifferenza per le passioni altrui. Era un volto corrotto, se mai la bellezza può essere corrotta; un volto crudele, se mai l’indolenza può essere crudele. Era un volto che ossessionava, destando un’ammirazione pervasa da un irragionevole terrore. Le mani, dalle lunghe dita affusolate, erano agili e nervose; si avvertiva che, al loro tocco, l’argilla quasi si plasmava da sola in forme armoniose. Grazie alle acute parole di Haddo il carattere di quell’uomo si palesò dinanzi a Margaret, crudele ma indifferente, indolente e appassionato, freddo ma sensuale. Segreti non umani dimoravano nella sua mente, misteriosi crimini e un’arcana bramosia di conoscenza. Oliver Haddo era attratto da tutto ciò che era insolito, deforme, mostruoso, da quadri che rappresentavano la spregevolezza dell’uomo o rammentavano la sua mortalità. Egli rievocò per Margaret la schiera di mostruosi nani dello Spagnoletto, con il loro sorriso astuto, la malizia, la luce folle negli occhi: si soffermò con orrida fascinazione sulle loro malformazioni, sulle gobbe, sui piedi equini, sugli idrocefali. Descrisse il quadro di Valdés Leal, conservato da qualche parte a Siviglia, che rappresenta un prete davanti a un altare dorato sontuosamente scolpito. Il prete indossa una splendida cappa e una cotta di pizzo sopraffino, ma si ha l’impressione che non ne sopporti il peso; dalle sue mani scarne e tremanti, dal volto bianco, cereo, dalla scura cavità degli occhi traspare la terrificante corruzione del corpo. Tiene insieme a fatica i vincoli della carne, ma non per via dell’irrefrenabile aspirazione dell’anima ad abbattere la sua prigione, bensì grazie alla sola forza della disperazione; è come se Dio onnipotente lo avesse abbandonato e il cielo fosse incapace di dare consolazione. Tutta la bellezza della vita sembra dimenticata, e al mondo nulla resta se non decadenza. Un’agghiacciante putrefazione ha attaccato l’uomo ancora vivo; i vermi della tomba, l’orrore pietoso della mortalità e le tenebre dinanzi a lui non offrono altro che paura. Oltre la sua figura si vedono una notte buia e un mare turbolento, l’oscura notte dell’anima descritta dai mistici e il mare tempestoso della vita, che non dà scampo ai cuori stanchi e sofferenti. Poi, come seguendo un piano preciso, Haddo analizzò con intensità inquisitoria, veemente, l’originale talento di un francese moderno, Gustave Moreau. Poco tempo prima Margaret aveva visitato il Luxembourg e in lei era ancora vivo il ricordo dei suoi quadri. Vi aveva trovato poco più che un gusto decorativo rovinato da un’imperfetta abilità nel disegno. Ma Oliver Haddo riuscì con un solo tocco a conferire ai dipinti un nuovo, esoterico significato. Gli effetti tipici di un gioiello fiorentino, grappoli di colore, smeraldo e rubino, l’azzurro profondo dello zaffiro, l’atmosfera di stanze profumate, i mistici sempre impegnati in riti religiosi segreti: tutto ciò si fondeva nelle sue abili frasi per creare nell’anima di lei una sorta di disegno di morbosa e sfuggente intricatezza. Quei quadri erano ricolmi di uno strano senso del peccato, e la mente che li contemplava era gravata dalla decadenza di Roma e dal vizio sfrenato del Rinascimento, e torturata dall’introspezione dei tempi moderni. Margaret ascoltava, trattenendo il fiato, con l’eccitazione di un esploratore che veda aprirsi dinanzi ai suoi occhi la distesa di un continente ancora vergine. I pittori che conosceva parlavano della loro arte da un punto di vista tecnico e questo approccio basato sull’immaginazione le era del tutto nuovo. Subiva il macabro fascino della personalità che ispirava quelle frasi elaborate. Gli occhi di Haddo erano fissi nei suoi ed ella rispondeva alle sue parole come un sensibile strumento deputato a registrare i battiti del cuore. Sentiva un languore insostenibile. Egli, infine, tacque. Margaret non si mosse, né parlò. Era come sotto un incantesimo. Le sembrava di non avere forza nelle membra. «Desidero fare qualcosa per lei, in cambio di quel che lei ha fatto per me» disse Haddo. Si alzò e andò al pianoforte. «Sieda in questa poltrona» disse. Neanche per un attimo Margaret pensò di disobbedire. Egli cominciò a suonare e Margaret quasi non fu sorpresa che suonasse in modo meraviglioso; eppure sembrava incredibile che quelle mani grandi e grosse potessero avere un tocco così delicato. Le sue dita carezzavano le note con infinita soavità ed egli traeva dal pianoforte effetti che Margaret avrebbe ritenuto impossibili. Sembrava infondere nelle note una passione ambigua, conturbante, e lo strumento aveva la tremula emozione di un essere umano. Era strano e terrificante. Le pareva di conoscere la musica che stava ascoltando e che, sotto le dita di lui, assumeva accenti esotici, in sintonia con tutto ciò che egli aveva detto quel pomeriggio. La memoria di Haddo era stupefacente. Doveva avere una sensibilità infinita per conoscere le sensazioni che albergavano nel cuore di Margaret e scegliere proprio ciò di cui, in quel momento, ella aveva un bisogno assoluto. Poi cominciò a suonare dei brani che lei non conosceva. Mai Margaret aveva udito una musica simile, barbarica, fatta di gemiti singolari che evocavano nella sua fantasia le notti di luna nei deserti, con le palme mute nell’aria immobile, e bruni paesaggi persi in lontananza. Pareva scoprire strade strette e tortuose, silenziose case bianche con strane ombre proiettate dalla luna, e all’interno un riverbero di luce gialla, il tintinnio di strumenti primitivi e l’acre odore di essenze orientali. Era come se nella sua mente sfilasse una processione di esseri non umani eppure misteriosamente vivi, con un’esistenza di vampiri. Monna Lisa e san Giovanni Battista, Bacco e la madre di Maria le scorrevano davanti con misteriosi movimenti. Ma la figlia di Erodiade, prigioniera di un eterno rito mistico, levò le mani come a invocare divinità straniere. Il suo volto era pallidissimo, insonni gli occhi bruni; i gioielli della cintura risplendevano di cupi bagliori e il suo abito era di colori da lungo tempo perduti. Il sorriso, che racchiudeva tutto il dolore e tutta la malvagità del mondo, era fisso sulla smunta testa del santo, e con voce fredda di un gelo di morte ella mormorò le parole del poeta: «“Io sono presa d’amore per il tuo corpo, Iokanaan! Il tuo corpo è bianco come i gigli d’un campo mai arato. Il tuo corpo è bianco come le nevi che ammantano le montagne di Giudea e scendono fin nelle valli. Le rose nel giardino della regina d’Arabia non hanno il candore del tuo corpo. Né le rose nel giardino della regina d’Arabia, il giardino delle spezie della regina d’Arabia, né i piedi dell’alba quando sfiorano le foglie, né il seno della luna quando giace nel grembo del mare... nulla al mondo è bianco come il tuo corpo. Consentimi di toccare il tuo corpo”». Oliver Haddo smise di suonare. Nessuno dei due si mosse. Alla fine Margaret, con uno sforzo, cercò di riconquistare il controllo. «Comincio davvero a credere che lei sia un mago» disse con disinvoltura. «Potrei mostrarle strane cose, se solo volesse vederle» rispose lui sollevando di nuovo lo sguardo. «Dubito che potrà mai spingermi a credere nella filosofia occulta» rise Margaret. «Eppure, essa dominò in Persia con i magi, e donò all’India meravigliose tradizioni; civilizzò la Grecia al suono della lira di Orfeo». Egli rimase in piedi dinanzi a Margaret, torreggiando su di lei con la sua stazza possente, e c’era nel suo sguardo un fascino singolare. Sembrava parlare con l’unico scopo di nasconderle che in quel momento stava sfruttando tutto il suo potere. «Questa filosofia celò i primi princìpi della scienza nei calcoli di Pitagora. Creò imperi con i suoi oracoli e alla sua voce i tiranni sbiancavano sui loro troni. Alcune menti le governò facendo leva sulla curiosità, altre le governò con la paura». La voce di Haddo si fece bassissima, ed era così suadente che la mente di Margaret vacillò. Il suo suono prevaleva su tutto, come una fragranza troppo dolce. «Io le dico che nulla è impossibile per quest’arte. Essa comanda gli elementi, conosce il linguaggio delle stelle e guida il corso dei pianeti. La luna, al suo ordine, scende dal cielo rossa come sangue. I morti risorgono e dalle loro parole spaventevoli scaturisce il vento della notte che gemendo traversa i loro teschi. Il cielo e l’inferno sono sotto il suo dominio, e così tutte le forme, belle o orrende; così l’amore e l’odio. Con la bacchetta di Circe essa può mutare gli uomini in bestie, e alle bestie può conferire una mostruosa umanità. Vita e morte sono nella mano destra e nella sinistra di colui che ne conosce i segreti. Essa dona ricchezze con la trasmutazione dei metalli e immortalità con la sua quintessenza». Margaret non riusciva a udire quel che egli diceva. Sotto il suo sguardo dardeggiante, una sonnolenza si impadronì lentamente di lei e non trovò la forza né il desiderio di liberarsene. Sembrava già avvinta a Haddo da misteriose catene. «Se lei ha dei poteri, li mostri» sussurrò, quasi senza rendersi conto di parlare. Improvvisamente egli spezzò l’enorme tensione con cui la assoggettava. Come chi abbia esercitato tutta la sua forza per raggiungere uno scopo, una volta conquistata la vittoria rilassò i muscoli, con un lieve sospiro esausto. Margaret taceva, ma sapeva che stava per accadere qualcosa di orribile. Il suo cuore batteva come un uccello prigioniero, svolazzando impotente, ma ormai le sembrava troppo tardi per tirarsi indietro. Le sue parole, con un’influenza mistica, avevano provocato qualcosa che era impossibile fermare. Sulla stufa c’era una piccola ciotola di ottone lucido, nella quale tenevano dell’acqua per umidificare l’aria. Oliver Haddo si mise la mano in tasca e ne trasse una scatoletta d’argento. Sorridendo vi batté sopra come fosse una tabacchiera, ed essa si aprì. Prese una quantità infinitesimale della polvere azzurra che vi era contenuta e la gettò sull’acqua della ciotola. Se ne sprigionò una viva lingua di fuoco e Margaret proruppe in un grido spaventato. Lanciandole uno sguardo, Oliver le fece segno di non muoversi. L’acqua era in fiamme. Bruciava emanando luce e calore, come fosse gas. Bruciava con lo stesso ruggito roco e asciutto. Poi d’un tratto si spense. Margaret si protese e vide che la coppa era vuota. L’acqua si era consumata come paglia, non ne restava una goccia. Con aria smarrita si passò la mano sulla fronte. «Ma l’acqua non può bruciare» sussurrò tra sé. Quasi intuisse i suoi pensieri, Haddo sorrise in modo strano. «Forse lei non sa che non è possibile inventare nulla di più distruttivo di questa polvere azzurra, e io ne possiedo a sufficienza per bruciare tutta l’acqua di Parigi. L’avrebbe mai detto che l’acqua potesse bruciare come un mucchio di stoppie?». Si arrestò, quasi dimentico della presenza di Margaret. Osservava pensoso la scatoletta d’argento. «Si può fabbricare solo in minime quantità, con ingente spesa e incredibile fatica. Ed è così volatile che non si può conservarla per più di tre giorni. Talvolta ho pensato che, con un po’ di ingegno, sarei forse riuscito a stabilizzarla e a far sì che non perdesse la sua forza mentre bruciava, come il radio; e allora avrei posseduto il più grande segreto che mai mente d’uomo abbia partorito. Perché sarebbe impossibile fermarla. Continuerebbe a bruciare finché ci fosse una sola goccia d’acqua sulla terra, e tutto il mondo sarebbe consumato. Ma sarebbe spaventoso possederla, poiché, una volta gettata nell’acqua, il fato di tutto quel che esiste sarebbe segnato senza appello». Emise un respiro profondo, con gli occhi che scintillavano di un ardore diabolico. La sua voce era roca per l’emozione che lo sopraffaceva. «A volte sono ossessionato dal folle desiderio di assistere alla grande scena finale: fiamme che si riversano inarrestabili lungo il fiume, precipitano per i rivoli, cercano ogni goccia d’acqua, strappandola persino alle rocce eterne; fiamme che si riversano con il furore del vento spazzando via tutto quel che vive, finché giungono al mare, e il mare stesso si consuma nella furia del fuoco». Margaret tremò, ma non pensava che Haddo fosse pazzo. Aveva smesso di giudicarlo. Egli prese un altro pizzico di quella polvere esiziale e lo mise nella ciotola. Ancora una volta infilò la mano in tasca, traendone una manciata di qualcosa, forse foglie secche sminuzzate, foglie di tipi diversi ridotte in polvere. Contenevano ancora una traccia di umidità, perché una fiammella si levò immediatamente sul fondo della ciotola e un vapore denso invase la stanza. Aveva un odore pungente, particolare, che Margaret non conosceva. Faticava a respirare, tossiva. Avrebbe voluto pregare Oliver di fermarsi, ma non ci riusciva. Egli prese la ciotola tra le mani e la portò verso di lei. «Guardi» le ordinò. Ella si chinò e sul fondo vide una fiammella azzurra, stranamente solida, quasi fosse metallo fuso. Non era immobile, ma si agitava in modo insolito, come fosse fatta di serpenti di fuoco torturati dal loro stesso ardore, che nulla aveva di terreno. «Respiri molto profondamente». Ella obbedì. Fu presa da un tremito improvviso e il buio calò sui suoi occhi. Cercò di gridare, ma non riusciva a emettere suono. La sua mente vacillava. Le pareva che Haddo le ordinasse di coprirsi il volto. Cercò affannosamente di respirare; era come se la terra le girasse sotto i piedi facendola viaggiare a velocità incredibile. Accennò un movimento e Haddo le ordinò di non guardarsi attorno. Un terrore immenso la pervase. Non sapeva dove fossero diretti, eppure andavano così veloci che persino un uragano sarebbe rimasto indietro. Alla fine il moto cessò; Oliver la teneva per un braccio. «Non abbia paura» disse. «Apra gli occhi e si alzi in piedi». Era scesa la notte, ma non la dolce notte che allevia gli affanni delle menti mortali; era una notte che agitava misteriosamente l’anima, tanto che ogni nervo del suo corpo vibrava. Una cinerea oscurità rivelava e a un tempo distorceva gli oggetti attorno a loro. Nel cielo non splendeva la luna, ma piccole stelle parevano danzare sull’erica e fuochi notturni vagavano come spiriti di dannati. Margaret e Haddo si ritrovarono in un’immensa e desolata distesa, punteggiata di enormi massi e di alberi spogli, raggrinziti e contorti come anime torturate e afflitte. Sembrava ci fosse stata una bufera devastante e la campagna riposasse dopo la pioggia torrenziale, il vento impetuoso, i fulmini. Tutto attorno a loro sembrava soffrire in silenzio, come un uomo che, dilaniato dal tormento, non abbia neppure la forza di rendersi conto che la sua agonia è terminata. Margaret udì il volo di uccelli mostruosi, che parevano sussurrarle strane cose al loro passaggio. Oliver le prese la mano. La condusse sicuro verso l’incrocio di due strade, e lei non sapeva se camminavano tra rocce o tombe. Udì il suono di una tromba e da ogni parte, comparendo misteriosamente laddove prima non c’era nulla, si levò attorno a lei una turbolenta assemblea. Quel luogo vasto e spoglio si popolò all’improvviso di ombre, che sfilavano accalcandosi l’una sull’altra come onde del mare. Pareva che tutti gli spiriti dei potenti sorgessero dinanzi a lei, e Margaret vide feroci tiranni, cortigiani imbellettati, imperatori romani nelle loro toghe listate di porpora, sultani orientali. Dinanzi a lei passarono tutte le fiere e perfide donne dell’antichità, Monna Lisa e l’astuta figlia di Erodiade. Jezabel la fissò da sotto le sopracciglia dipinte, Cleopatra distolse il volto pallido e lascivo; Margaret vide la bocca insaziabile e gli occhi bramosi di Messalina, e Faustina, segnata dal fuoco eterno della lussuria. Vide cardinali in vesti scarlatte e guerrieri ricoperti d’acciaio, cicisbei imparruccati e dame incipriate con nei posticci. D’improvviso, come foglie catturate dal vento, tutti furono trascinati dinanzi alle folle silenziose degli oppressi: infiniti, come la sabbia del mare. La miseria trapelava dai volti smunti, scavati dalla malattia, e gli occhi erano ottenebrati dalla disperazione. Passavano nei loro stracci variegati, alcuni nei fantasiosi cenci dei mendicanti di Albrecht Dürer, altri nei logori abiti grigi dei contadini di Le Nain; molti indossavano le bluse e le cuffie del popolino di Francia, molti altri le gramaglie dei pezzenti d’Inghilterra, sudice di nerofumo. E si levavano come una folla riottosa, fuggendo terrorizzati per i vicoli dinanzi alle truppe a cavallo. Pareva che tutto il mondo si fosse raccolto lì, in una confusa baraonda. Poi d’improvviso fu il vuoto; lo sguardo di Margaret si concentrò sullo scheletro di un grande albero che si ergeva, solitario, in quella distesa, in quella spettrale desolazione; benché fosse una cosa morta, pareva soffrire un dolore sovrumano. Il fulmine lo aveva spezzato in due, ma inutilmente il vento dei secoli aveva cercato di estirpare le sue radici. I rami tormentati, spogli di ogni getto, erano come braccia titaniche, contratte convulsamente in un’insostenibile angoscia. In un attimo Margaret venne meno per la paura, perché l’albero ebbe un mutamento e fu pervaso dal tremulo vibrare della vita. La corteccia disseccata si trasformò in carne animale, i rami contorti in braccia umane. Divenne una cosa mostruosa, con zampe di capra, più grande di una creatura da incubo. Margaret vide le corna e la lunga barba, le zampe pelose e gli zoccoli, le mani rapaci da uomo. Il volto era orrendo nella sua lussuria e crudeltà, eppure era il volto di un dio. Era Pan, che suonava il flauto, e i suoi occhi bramosi la carezzavano con ripugnante tenerezza. Sotto lo sguardo di Margaret, mentre la bruma dell’alba, dissipandosi, svelava un’amena campagna, quella creatura rivoltante sembrò spogliarsi della sua parte animale, ed ella vide un giovane, titanico ma splendido, poggiato contro una roccia possente. Era più bello dell’Adamo di Michelangelo, svegliato alla vita dalla voce dell’Onnipotente; e come lui, appena creato, aveva l’incantevole languore di chi senta ancora, nelle membra, la pioggia lieve sulla soffice terra bruna. Giaceva nudo e maestoso, figlio reietto del mattino, ed ella non osava fissare il suo volto, poiché sapeva che era impossibile sopportare il dolore incessante che lo oscurava con le sue ombre impietose. Spinta da una forte curiosità, cercò di avvicinarsi, ma quella figura enorme sembrò stranamente dissolversi in una nube, e subito ella si sentì circondata da una folla che le si accalcava attorno. Poi giunsero tutti i mostri leggendari e le orride bestie della fantasia di un folle; nell’oscurità scorse rospi enormi con le zampe costrette lungo i fianchi e scarabei giganteschi dall’andatura incerta; creature con il guscio, mai viste, e rumorosi animali coperti di scaglie cornee con tondi occhi di granchio; goffi esseri primordiali, serpenti alati e bestie striscianti nate dal fango. Udì grida acute e scoppi di risa, e il rantolo terrificante di uomini in agonia. Donne macilente, scarmigliate e lascive trasportavano vino che, cadendo a terra, formava macchie simili a sangue. Margaret aveva l’impressione che un fuoco le ardesse nelle vene e l’anima le volasse via dal corpo, lasciando il posto a un’anima nuova; improvvisamente ella comprese tutto ciò che era turpe. Stava prendendo parte a un festino di immonda lussuria e la malvagità del mondo appariva chiara ai suoi occhi. Vide cose talmente abiette da urlare per il terrore e udì la risata di scherno di Oliver al suo fianco. Era una scena di orrore indescrivibile, e Margaret si coprì gli occhi per non vedere. Sentì Oliver Haddo che le prendeva le mani. Non voleva che la costringesse a guardare. Poi lo sentì parlare. «Non c’è da aver paura». La sua voce era tornata naturale ed ella comprese con un sussulto di essere di nuovo seduta nel suo appartamento. Si guardò attorno con occhi impauriti. Ogni cosa era esattamente al suo posto. La precoce notte autunnale era ormai calata, e l’unica luce giungeva dal fuoco nel camino. C’era ancora quel vago, acre sentore della sostanza che Haddo aveva bruciato. «Vuole che accenda le candele?» domandò lui. Sfregò un fiammifero e accese quelle sul pianoforte, che mandarono una luce strana. Poi Margaret, d’improvviso, ricordò tutto quello che aveva visto, e ricordò che Haddo le era stato accanto. Fu presa dalla vergogna, una vergogna intollerabile, tanto che il rossore le salì alle guance facendole avvampare. Nascose il volto tra le mani e scoppiò in lacrime. «Se ne vada» disse. «Per l’amor di Dio, se ne vada». Egli la guardò per un attimo, e sulle sue labbra aleggiò quel sorriso che Susie aveva visto dopo lo scontro con Arthur, la prima volta che era stato nell’appartamento. «Se ha bisogno di me, può trovarmi al 209 di rue de Vaugirard» disse. «Seconda porta a sinistra, terzo piano». Ella non rispose. Riusciva a pensare solo alla sua spaventosa vergogna. «Glielo scrivo, nel caso lo dimentichi». Scribacchiò l’indirizzo su un foglio di carta trovato sul tavolo. Margaret non gli prestava attenzione, e singhiozzava come se le si fosse spezzato il cuore. D’improvviso, alzando gli occhi in un sussulto, vide che se ne era andato. Non lo aveva sentito aprire né chiudere la porta. Cadde in ginocchio e pregò disperatamente, come se un terribile pericolo la minacciasse. Quando sentì Susie girare la chiave nella porta, balzò in piedi. Si mise con le spalle al camino, le mani dietro la schiena, nell’atteggiamento di un prigioniero che protesti la propria innocenza. Susie era troppo seccata per notare la sua agitazione. «Perché diavolo non sei venuta per il tè?» le domandò. «Non avevo idea di cosa ti fosse successo». «Avevo una tremenda emicrania» rispose Margaret cercando di controllarsi. Susie sprofondò con aria stanca in una poltrona. Margaret si sforzò di parlare. «Che cosa aveva da dirti Nancy?» domandò. «Non è mai arrivata» rispose Susie indispettita. «Non capisco. Ho aspettato il treno, ma di lei non c’era traccia. Allora ho pensato che avesse indicato un orario approssimativo e che non venisse dall’Inghilterra, così ho passeggiato avanti e indietro nella stazione per mezz’ora». Andò verso il caminetto sul quale era rimasto il telegramma, quindi lanciò un gridolino di sorpresa. «Che stupida! Non avevo notato il timbro postale. È stato spedito da rue Littré». La via era a meno di dieci minuti a piedi dall’appartamento. Susie osservò il messaggio con aria perplessa. «Ho l’impressione che qualcuno mi abbia fatto uno stupido scherzo». Alzò le spalle. «Ma sarebbe troppo sciocco. Se fossi sospettosa,» sorrise «penserei che me lo hai mandato tu stessa per togliermi dai piedi». Margaret fu colpita d’un tratto dall’idea che il responsabile fosse Oliver Haddo. Poteva aver visto il nome di Nancy sulla foto, durante la sua visita all’appartamento. Ma rispose quasi distrattamente, senza avere il tempo di riflettere. «Se volessi liberarmi di te, non esiterei a dirtelo». «Immagino che tu non abbia ricevuto visite» disse Susie. «Nessuna visita». La bugia scivolò dalle labbra di Margaret ancor prima che avesse deciso di dirla. Con il cuore che le sobbalzava in petto, si sentì avvampare. Susie si alzò per accendersi una sigaretta. Voleva calmare i nervi. Il pacchetto era sul tavolo e lo sguardo le cadde inconsapevolmente sull’indirizzo lasciato da Haddo. Lo prese e lo lesse ad alta voce. «Chi diavolo vive qui?» domandò. «Non ne ho la minima idea» rispose Margaret. Si preparò ad affrontare altre domande, ma Susie, senza interesse, posò il foglio e accese un fiammifero. Margaret provava vergogna. Aveva un’indole incredibilmente sincera e la turbava moltissimo il pensiero di aver mentito alla sua migliore amica. Qualcosa più forte di lei sembrava averla costretta. Avrebbe dato molto per confessare le sue bugie, ma non ne aveva il coraggio. Non riusciva a sopportare che l’implicita fiducia di Susie nella sua dirittura morale potesse essere distrutta. E riconoscere che Oliver Haddo era stato lì avrebbe comportato un’ulteriore ammissione degli orrori indicibili di cui era stata testimone. Susie avrebbe pensato che era pazza. Qualcuno bussò alla porta e Margaret, con i nervi scossi da tutto quel che aveva vissuto, si lasciò sfuggire un grido di terrore. Temeva che Haddo fosse tornato. Ma era Arthur Burdon. Ella lo salutò con un caldo sollievo, insolito per lei, che di natura era una donna molto controllata. Si sentiva debolissima, fisicamente provata, come se avesse affrontato un lungo viaggio, e la sua mente era sconvolta. Ricordò che in quella stessa condizione si era trovata al suo arrivo a Parigi, quando, tutta presa dal desiderio di dare una prima occhiata alle meraviglie della città, non aveva fatto che correre da un monumento all’altro fino a farsi dolere le ossa. Cominciarono a parlare del più e del meno. Margaret cercò di stare calma e di unirsi alla conversazione, ma la sua voce suonava innaturale ed ebbe l’impressione che più di una volta Arthur le lanciasse uno sguardo strano. Alla fine non riuscì più a controllarsi e scoppiò a piangere. In un attimo, senza capire ma pieno d’affetto, egli la prese tra le braccia. Dolcemente le chiese cosa succedeva, cercò di confortarla. Margaret piangeva senza ritegno, aggrappandosi a lui in cerca di protezione. «Oh, non è nulla» disse affannosamente. «Non so che mi prende. Sono solo nervosa e spaventata». Arthur era convinto che le donne fossero spesso afflitte da qualcosa cui ben si attagliava l’antiquato termine di «vapori» e non era disposto a dare troppo peso a quel dolore violento. La calmò come avrebbe fatto con un bambino. «Oh, abbi cura di me, Arthur. Ho tanta paura che mi accada qualcosa di terribile. Ho bisogno di tutta la tua forza. Promettimi che non mi abbandonerai mai». Arthur rise asciugandole le lacrime con un bacio ed ella cercò di sorridere. «Perché non possiamo sposarci subito?» domandò. «Non voglio più aspettare. Non mi sentirò al sicuro finché non sarò a tutti gli effetti tua moglie». Egli ragionò tranquillamente con lei. Dopotutto, dovevano sposarsi di lì a poche settimane. Non sarebbe stato facile affrettare il matrimonio, la casa non era ancora pronta e Margaret aveva bisogno di tempo per il guardaroba. Era stata proprio lei a fissare la data. Ella ascoltò con aria attonita le sue parole. Erano di una saggezza fin troppo evidente e non riuscì a trovare il modo di insistere. Anche se gli avesse raccontato tutto quel che era accaduto, Arthur non le avrebbe creduto e avrebbe pensato che fosse la sua fantasia malata a giocarle qualche strano tiro. «Se mi succede qualcosa,» rispose lei con gli occhi angosciati, ombrosi, da bestia braccata «sarà colpa tua». «Ti prometto che non succederà nulla». 9 Margaret trascorse una notte inquieta, e il giorno successivo non fu in grado di dedicarsi alle proprie occupazioni con la solita tranquillità. Cercò di darsi da sola una spiegazione logica dell’accaduto. Il telegramma che Susie aveva ricevuto rivelava un piano preciso da parte di Haddo e faceva pensare che il suo improvviso malore non fosse che un trucco per insinuarsi in casa loro. Una volta lì, aveva sfruttato l’istintiva umanità di Margaret come un mezzo per esercitare il suo potere ipnotico e tutto ciò che ella aveva visto era semplicemente il frutto della fantasia libidinosa dell’uomo. Ma benché si sforzasse di convincersi che, con un tiro meschino, egli aveva vergognosamente approfittato della sua compassione, Margaret non riusciva a provare rabbia. Il suo disprezzo per Haddo, il suo profondo disgusto erano congiunti a un sentimento che le suscitava orrore e sgomento. Non riusciva a togliersi quell’uomo dalla testa. Tutto quel che egli aveva detto, tutto quel che lei aveva visto, sembrava inspiegabilmente conquistarla, quasi avesse il potere di crescere dentro di lei. Era come se nel suo cuore fosse stata seminata una pianta infestante, che insinuava i lunghi tentacoli velenosi in ogni arteria, fino ad avviluppare tutto il suo corpo. Gli impegni accademici non riuscivano a distrarla, la conversazione, l’esercizio, l’arte la rendevano inquieta; tra lei e le normali azioni della vita si ergeva la stazza possente e florida di Oliver Haddo. Ora come non mai ne era atterrita, ma stranamente non provava più quella repulsione fisica che fino a quel momento aveva dominato tutti gli altri sentimenti. Per quanto ripetesse a se stessa di non volerlo mai più rivedere, non resisteva al desiderio violento di andare da lui. Era stata privata della sua volontà: era un automa. Lottava come un uccello che batta inutilmente le ali nella rete di un bracconiere; ma nel profondo del cuore aveva la vaga consapevolezza di non voler resistere. Se Haddo le aveva dato quell’indirizzo, era perché sapeva che lo avrebbe usato. Perché mai voleva andare da lui? Non aveva nulla da dirgli; sapeva soltanto che doveva andare. Pochi giorni prima aveva visto la Phèdre di Racine e d’un tratto provava gli stessi tormenti che dilaniavano il cuore di quell’infelice regina; anche lei lottava inutilmente per sfuggire al veleno che gli dèi immortali le avevano instillato nelle vene. In preda a un’angoscia febbrile si chiedeva se fosse vittima di un incantesimo, perché ormai era incline a credere che il potere di Haddo fosse assoluto. Margaret sapeva che, se avesse ceduto a quell’orribile tentazione, nulla avrebbe potuto salvarla dalla perdizione. Avrebbe voluto chiedere aiuto ad Arthur o a Susie, ma qualcosa che non riusciva a identificare glielo impediva. Alla fine, quasi sull’orlo della follia, pensò che il dottor Porhoët avrebbe potuto aiutarla. Almeno lui avrebbe compreso la sua infelicità. Le parve che non ci fosse un momento da perdere e corse verso casa sua. Le dissero che era fuori. Margaret si sentì venir meno, anche l’ultima speranza le sembrava svanita. Come chi stia per annegare e si aggrappi a una roccia, avvertiva le onde schiantarsi contro di lei e sferzare le sue mani sanguinanti con una malvagità fin troppo umana, quasi a volerle strappare alla loro ultima salvezza. Invece di andare alla lezione di disegno, in programma per le sei del pomeriggio, Margaret si precipitò all’indirizzo datole da Oliver Haddo. Traversò le strade affollate con il cuore in subbuglio e con passo furtivo, quasi temesse di essere vista. Desiderava con tutta se stessa non andare e cercò di impedirselo a forza, ma, nonostante tutto, andò. Corse su per le scale e bussò alla porta. Ricordava chiaramente le indicazioni. Un attimo dopo, Oliver Haddo era davanti a lei. Non sembrava stupito di vederla. Là, sulla soglia, a Margaret venne in mente di non avere alcun motivo che giustificasse la visita, ma le parole di lui la salvarono dalla necessità di una spiegazione. «L’aspettavo» disse. Haddo la condusse in salotto. Aveva un appartamento in una maison meublée; i pesanti tendaggi e i mobili robusti che in genere arredano quel tipo di casa parigina non erano in sintonia con il personaggio. Ogni cosa era talmente normale da mettere in risalto la sua originalità. Si notava soprattutto una mancanza di comodità, che pareva suggerire quanto egli fosse indifferente alle cose materiali. La stanza era ampia, ma talmente affollata di oggetti da dare un senso di costrizione. Haddo viveva in quel luogo come se fosse un estraneo a casa propria. Si muoveva con circospezione tra i mobili massicci, che esaltavano la sua obesità. Si percepiva il profumo acre che Margaret ricordava di aver sentito qualche giorno prima durante la sua visione della città orientale. Invitandola ad accomodarsi, egli cominciò a parlare come fossero vecchi amici tra i quali non sia accaduto nulla di speciale. Alla fine ella prese il coraggio a due mani. «Perché mi ha costretta a venire qui?» gli chiese d’improvviso. «Lei mi fa troppo onore, attribuendomi poteri stupefacenti» sorrise lui. «Sapeva che sarei venuta». «Lo sapevo». «Cosa le ho fatto? Perché deve rendermi così infelice? Voglio che mi lasci in pace». «Non le impedirò di andarsene se decide di farlo. Non le è successo nulla di male. La porta è aperta». Il cuore di Margaret batteva forte, fin quasi a farle male. Ella rimase in silenzio; sapeva di non voler andare via. Qualcosa di strano la attirava verso Haddo e la sua resistenza cominciava a venire meno. Un sentimento singolare si impadroniva di lei, si insinuava furtivo nelle sue membra. Ne era atterrita, ma inspiegabilmente esaltata. Egli cominciò a parlare con quella sua voce bassa, la cui arcana magia la faceva vibrare. Questa volta non le parlò di quadri, né di libri, ma della vita. Le raccontò di misteriosi luoghi d’Oriente, dove nessun infedele è mai stato, e la fantasia sensibile di lei fu infiammata dal mielato fervore di quelle frasi. Parlò dell’alba su città sonnolente e desolate, delle notti di luna piena nel deserto, dei tramonti con il loro splendore e delle strade affollate a mezzogiorno. Le si parò dinanzi la bellezza dell’Oriente. Haddo le raccontò di filati variopinti e tappeti di seta, dell’acciaio scintillante delle armature damascene e di gemme barbariche d’incommensurabile valore. La magnificenza levantina le accecava gli occhi. Egli le parlò dell’incenso e della mirra, dell’aloe, dei densi profumi dei mercanti di essenze e degli odori inebrianti dei giardini siriani. La fragranza dell’Oriente le riempiva le narici. E tutte queste cose venivano trasformate dal potere delle parole di Haddo; le pareva che le venisse offerta la vita stessa, una vita infinitamente viva, una vita di libertà, di conoscenza soprannaturale. Le pareva di essere spinta a un confronto tra l’ambiente ristretto che la attendeva come moglie di Arthur e quell’esistenza piena, splendida. Tremò al pensiero della noiosa casa di Harley Street e della pochezza delle sue attività quotidiane. Lei ora sapeva godere della meraviglia del mondo. La sua anima si struggeva per una bellezza sconosciuta ai comuni mortali. E quale demone suggerì, fra l’ordito e la trama delle parole di Oliver, che la sua squisita avvenenza le dava il diritto di dedicarsi alla grande arte della vita? Provò un desiderio repentino di avventure pericolose e, come se il fuoco l’avesse attraversata, balzò in piedi e rimase così, col petto ansante e gli occhi lampeggianti, resi luminosi dalle immagini variegate che la magia di lui le aveva presentato. Anche Oliver Haddo era in piedi, di fronte a lei. Poi, d’un tratto, ella comprese qual era la passione che la consumava. Con moto improvviso, e con gli occhi che la fissavano in modo quanto mai strano, egli la prese tra le braccia e la baciò sulle labbra. Margaret gli si abbandonò, con voluttà. Tutto il suo corpo bruciava nell’estasi dell’abbraccio. «Credo di amarti» disse, con voce roca. Lo guardò. Non provava vergogna. «Ora devi andare» disse lui. Aprì la porta e, senza aggiungere una parola, ella uscì. Camminò per le strade come se nulla fosse accaduto. Non provava rimorso né disgusto. Nei giorni successivi Margaret cominciò a sentire il desiderio irrefrenabile di tornare da lui e, per quanto cercasse di non cedere, sapeva che quello sforzo era solo una finzione: non voleva che nulla glielo impedisse. Ogni volta che qualcosa la tratteneva, riusciva a stento a controllare l’irritazione. La fame violenta dell’anima che l’attirava a lui era sempre presente e le uniche ore felici erano quelle trascorse in sua compagnia. Giorno dopo giorno provava quell’estasi assoluta quando egli la cingeva con le sue braccia enormi e la baciava con le labbra pesanti, sensuali. Ma l’estasi era portentosamente mescolata al disgusto, e l’attrazione fisica si fondeva intimamente con la repulsione. Eppure, quando egli la fissava con quei suoi occhi celesti e conferiva alla sua voce quegli accenti conturbanti, Margaret dimenticava tutto. Haddo parlava di cose empie. Talvolta pareva sollevare un angolo del velo e mostrarle un barlume di terribili segreti. Margaret comprese come mai gli uomini avessero barattato le loro anime con la conoscenza infinita. Le pareva di essere sul pinnacolo del tempio e i regni spirituali delle tenebre, i principati dell’ignoto si stendevano dinanzi ai suoi occhi per attirarla verso la distruzione. Ma di Haddo non apprese nulla. Non sapeva se egli l’amasse. Non sapeva se avesse mai amato. Sembrava diverso dal resto del genere umano. Margaret scoprì casualmente che sua madre era ancora in vita, ma egli si rifiutò di parlarne. «Un giorno o l’altro la vedrai» disse. «Quando?». «Molto presto». Nel frattempo, la vita di Margaret proseguiva con una regolarità tutta esteriore. Scoprì che era facile ingannare i suoi amici, perché a nessuno dei due veniva in mente che le sue frequenti assenze non fossero dovute alle ragioni plausibili che adduceva. Le bugie, se in un primo tempo le erano sembrate intollerabili, ora le uscivano facilmente dalle labbra. Ma sebbene fossero così naturali, spesso era presa dal panico che qualcuno potesse scoprirle e talvolta la notte, dilaniata dai rimorsi, non riusciva a prendere sonno e pensava con profonda vergogna a come stava trattando Arthur. Ma le cose ormai erano andate troppo oltre, doveva lasciare che seguissero il loro corso. Non sapeva perché i suoi sentimenti verso di lui fossero mutati a tal punto. Senza quasi nominarlo, Oliver Haddo le aveva avvelenato la mente. Il confronto tra i due era tutto a svantaggio di Arthur. Ora lo considerava un po’ scialbo e il suo atteggiamento banale verso la vita contrastava con l’affascinante arditezza di Haddo. Nel profondo del suo cuore gli rimproverava di non aver mai capito cosa si nascondesse in lei. L’aveva limitata nelle sue vedute. E pian piano cominciò a odiarlo perché le aveva imposto un debito di gratitudine così grande. Le sembrava scorretto che avesse voluto fare tanto per lei. La costringeva a sposarlo proprio per ripagarlo della sua generosità. Nonostante ciò, continuava a progettare con lui l’arredamento della loro casa di Harley Street. Margaret desiderava un salotto in stile Luigi XV e insieme erano andati alla ricerca di sedie e di antiche pezze di seta con cui rivestirle. Tutto doveva essere perfetto. La data del matrimonio era fissata, i dettagli definiti. Arthur era felice in modo quasi ridicolo. Margaret non lasciava trapelare nulla. Non pensava al futuro e ne parlava solo per allontanare i sospetti. Dentro di sé era ormai convinta che quel matrimonio non ci sarebbe mai stato, ma non sapeva che cosa l’avrebbe impedito. Studiava Susie e Arthur con astuzia. Ma, benché li osservasse per nascondere il proprio segreto, fu il segreto di qualcun altro che finì per scoprire. Margaret si rese conto che Susie era profondamente innamorata di Arthur Burdon. La scoperta fu talmente stupefacente che in un primo momento le sembrò assurda. «Non hai mai fatto quella caricatura di Arthur che mi avevi promesso» disse un giorno all’improvviso. «Ci ho provato, ma non è il soggetto giusto» rise Susie. «Con quel naso lungo e quella figura dinoccolata, mi aspettavo che ne tirassi fuori qualcosa di esilarante». «Parli di lui in modo molto strano! Non so perché, ma io vedo solo i suoi occhi belli e gentili, e la sua bocca dolce. Non mi riuscirebbe di farne una caricatura, proprio come non potrei parodiare una poesia che amo». Margaret prese la cartella nella quale Susie conservava i suoi schizzi. Colse l’espressione allarmata sul volto dell’amica, ma Susie non osò impedirle di guardare. Margaret scorse distratta i disegni e d’improvviso arrivò a un foglio su cui erano abbozzate, in uno stato variamente compiuto, cinque o sei teste di Arthur. Fingendo di non notarle, continuò fino all’ultimo foglio. Quando richiuse la cartella, Susie tirò un sospiro di sollievo. «Potresti impegnarti di più» disse Margaret riponendo i disegni. «Mi stupisco che tu non faccia un ritratto di Arthur, visto che non sai farne la caricatura». «Mia cara, non tutti provano per quel giovanotto il tuo stesso irresistibile interesse». La risposta confermò i sospetti di Margaret. Si disse con amarezza che Susie era una bugiarda, più o meno come lei. Il giorno dopo, mentre l’amica era fuori, tornò a guardare nella cartella, ma i disegni di Arthur erano scomparsi. Fu presa da un’ira improvvisa, perché Susie osava amare l’uomo innamorato di lei. La rete nella quale Oliver Haddo l’aveva catturata era stata tessuta con estrema abilità. Egli aveva preso ogni singolo aspetto del suo carattere e rafforzato con arte consumata la propria influenza su di lei. C’era qualcosa di satanico nella sua determinazione, eppure era quasi incredibile che, in così poco tempo, potesse aver mutato il ribrezzo che ella provava per lui in una feroce passione; Margaret non riusciva a concepire la sua vita lontano da lui. Alla fine egli ritenne che fosse tempo di fare l’ultimo passo. «Forse ti interessa sapere che giovedì me ne andrò da Parigi» disse con aria indifferente un pomeriggio. Ella balzò in piedi, fissandolo con occhi sgomenti. «Che ne sarà di me?». «Sposerai l’esimio dottor Burdon». «Sai bene che non posso vivere senza di te. Perché sei così crudele?». «Allora l’unica alternativa è che tu venga con me». Il sangue le si gelò nelle vene, e sentì il cuore stretto in una morsa d’acciaio. «Cosa intendi dire?». «Non c’è bisogno di agitarsi. Ti sto facendo una proposta di matrimonio estremamente allettante». Ella sprofondò nella poltrona, inerme. Avendo evitato di pensare al futuro, non le era mai passato per la mente che a un certo punto avrebbe dovuto lasciare Haddo o unire definitivamente il proprio destino al suo. I suoi sentimenti mutarono d’improvviso. Margaret comprese che, per quanto un’odiosa attrazione la legasse a quell’uomo, lo disprezzava e lo temeva. D’un tratto le parve di vedere chiaro. Ricordò il grande amore di Arthur e tutto quello che egli aveva fatto per lei. Si odiava. Come un uccello che, sul punto di esalare l’ultimo respiro, si scagli freneticamente contro le sbarre della gabbia, Margaret fece uno sforzo disperato per riconquistare la libertà. Balzò in piedi. «Voglio andarmene di qui. Vorrei non averti mai visto. Non so cosa mi hai fatto». «Puoi andartene come e quando vuoi» rispose lui. Aprì la porta, perché lei si rendesse conto che non la costringeva in alcun modo, e rimase sulla soglia, indolente, con un odioso sorriso stampato sul volto. C’era qualcosa di terribile in quella sua mole immensa. Sotto il mento, il collo era nascosto da rotoli di grasso. Le guance erano enormi e l’assenza della barba rendeva ancor più mostruoso il volto glabro. Margaret si fermò mentre gli passava accanto, provando un’orrenda sensazione di ripugnanza e attrazione a un tempo. Desiderava immensamente che egli la stringesse ancora tra le braccia, e premesse contro le sue le labbra rosse e voluttuose. Era come se i demoni dell’inferno si stessero vendicando della sua bellezza, ispirandole una passione per questa terrificante creatura. L’intensità del desiderio la faceva tremare. Gli occhi di lui erano duri e crudeli. «Vattene» disse. Lei chinò la testa e fuggì via. Per rientrare a casa attraversò i giardini del Luxembourg, ma le cedevano le gambe e si lasciò cadere, esausta, su una panchina. La giornata era di un caldo opprimente. Margaret cercò di ricomporsi. Conosceva bene quel parco, perché nei giorni di entusiasmo, che ora le sembravano così lontani, era solita recarsi lì per osservare l’albero che stava guardando in quel momento. Aveva tutta l’esile delicatezza di una stampa giapponese; le foglie erano sottili, fragili, dorate dall’autunno ma in parte ancora verdi, di un verde talmente tenue che i rami scuri creavano un motivo di delicata bellezza sullo sfondo del cielo. La mano di un disegnatore non avrebbe potuto tratteggiarlo con maggior perizia. Ma Margaret non provava più alcun piacere alla vista di tanta grazia. Una fitta le lacerava il cuore al pensiero che da quel momento in poi le espressioni più perfette dell’arte non avrebbero avuto alcun significato per lei. Aveva visto Arthur la sera prima e, in un penoso accesso di vergogna, rammentò le bugie alle quali si era costretta per spiegargli che l’indomani avrebbero potuto vedersi soltanto sul tardi. Egli le aveva proposto di andare a Versailles e fu molto amareggiato nel sentire che non avrebbero trascorso tutta la domenica insieme, come erano soliti fare. Accettò la scusa che doveva far visita a un’amica malata. Non sarebbe stato così intollerabile se egli avesse sospettato che lo ingannava e i suoi rimproveri le avessero indurito il cuore. Era la sua fiducia assoluta a essere tanto difficile da sopportare. «Oh, se solo potessi liberarmi la coscienza!» esclamò. Le campane di Saint-Sulpice suonavano il vespro. Margaret s’incamminò lentamente verso la chiesa e sedette su una delle panche riservate ai poveri, nel transetto. Sperava che la musica le placasse l’anima; forse così sarebbe riuscita a pregare. Negli ultimi tempi non ne aveva avuto il coraggio. C’era una gradevole oscurità; quel luogo così semplice e spazioso la confortava. Nel suo sfinimento, Margaret osservava la gente entrare e uscire senza sosta. Dietro di lei c’era un prete nel confessionale. Una ragazzetta di campagna, con una coiffe bretone, forse una serva giunta da poco nella grande capitale dal paese natio, le passò davanti e si inginocchiò. Margaret sentiva il suo bisbiglio e, di tanto in tanto, la voce profonda del prete. Dopo qualche minuto la fanciulla se ne andò, tranquilla. Appariva così fresca nel suo semplice abito nero, così sana e innocente, che Margaret non riuscì a soffocare un singhiozzo di invidia. La ragazza aveva così poco da confessare, piccoli, sciocchi peccati che dovevano aver suscitato un sorriso sulle labbra del garbato prete, e il suo spirito era candido come la neve. Margaret avrebbe dato tutto quel che aveva pur di potersi inginocchiare e sussurrare a quegli orecchi impassibili ciò che aveva patito, ma la fede del prete non era la sua. Parlavano una lingua diversa – non la lingua delle labbra, ma quella dell’anima – ed egli non avrebbe certo ascoltato le parole di un’eretica. Una lunga processione di seminaristi giunse dall’istituto all’ombra della grande chiesa, a due a due, con le tonache nere e le corte cotte bianche. Molti avevano già la tonsura. Alcuni erano molto giovani. Margaret fissò i loro volti, chiedendosi se fossero tormentati da un’angoscia simile alla sua. Ma in loro c’era una fede viva che li sosteneva. E se alcuni, come appariva chiaro, erano limitati e ottusi, quanto meno avevano una regola precisa che impediva loro di deviare su sentieri ingannevoli. Uno o due avevano un aspetto ascetico, etereo, simile a quello dei santi che sperimentano il terrore della vita solo in fantasie claustrali. Dietro i seminaristi venivano i canonici della chiesa, con i loro abiti dai colori sfarzosi. Infine giunse il clero officiante. La musica era bella. Aveva una sua quieta, triste dignità; a Margaret sembrò la musica giusta per adorare Dio. Ma non ne fu commossa. Non riusciva a capire le parole cantate dai preti; i loro gesti, i loro movimenti le erano estranei. Per lei quella sontuosa funzione era priva di significato. Il suo cuore gridava che Dio l’aveva abbandonata. Era sola, in terra straniera. Il male era ovunque attorno a lei, e in quelle cerimonie non trovava alcun conforto. Cosa poteva aspettarsi, quando il Dio dei suoi padri l’aveva abbandonata al suo destino? Per non piangere davanti a tutta quella gente, Margaret, sguardo a terra, si diresse verso la porta. Si sentiva completamente perduta. Mentre percorreva la strada interminabile che la portava a casa, era scossa dai singhiozzi. «Dio mi ha abbandonato» ripeteva. «Dio mi ha abbandonato». Il giorno dopo, con gli occhi rossi per il pianto, si trascinò alla porta di Haddo. Quando egli aprì, entrò senza dire una parola. Sedette, ed egli la osservò in silenzio. «Sono decisa a sposarti, quando vorrai» disse infine. «È tutto pronto». «Mi hai parlato di tua madre. Per favore, accompagnami subito da lei». L’ombra di un sorriso sfiorò le labbra dell’uomo. «Se lo desideri». Haddo le disse che potevano sposarsi davanti al console il giovedì mattina, sul presto, in tempo per prendere il treno per l’Inghilterra. Ella rimise a lui ogni decisione. «Sono disperatamente infelice» disse piano. Oliver le posò le mani sulle spalle e la fissò negli occhi. «Va’ a casa e dimenticherai le tue lacrime. Ti ordino di essere felice». Allora l’aspra lotta tra il bene e il male parve placarsi dentro di lei; aveva vinto il male. Di colpo, Margaret si sentì stranamente euforica. Non le importava più di ingannare i suoi fedeli amici. Rise amaramente, mentre pensava a quanto fosse facile prendersi gioco di loro. Il mercoledì era il compleanno di Arthur ed egli la invitò a cena, loro due soli. «Ci tratteremo in modo splendido, senza badare a spese». Avevano deciso di cenare in un ristorante alla moda, sull’altra riva del fiume. Poco dopo le sette egli passò a prenderla. Margaret si era vestita con incredibile cura. Era al centro della stanza, in piedi, in attesa dell’arrivo di Arthur, e si guardava allo specchio. Susie pensò che non era mai stata tanto bella. «Credo proprio che tu sia diventata ancora più incantevole» disse. «Non so cosa ti è successo ultimamente, ma nei tuoi occhi c’è una profondità del tutto nuova, che ti dà una strana aria di mistero, molto attraente». Conoscendo l’amore di Susie per Arthur, ella si chiese se la sua amica non si sentisse spezzare il cuore confrontando il proprio aspetto scialbo con la radiosa bellezza che le stava davanti. All’arrivo di Arthur, Margaret non si mosse ed egli si fermò sulla soglia a guardarla. I loro occhi si incontrarono. Con il cuore che batteva forte, egli fu preso da una sorta di soggezione. Si sentiva troppo fortunato al pensiero che quell’incommensurabile tesoro gli appartenesse. Si sarebbe inginocchiato per adorarla come una dea dell’antica Grecia. Anche lui si era accorto che gli occhi di Margaret erano cambiati. Avevano acquistato una passione bruciante che lo sconvolgeva e lo incantava a un tempo. Sembrava che quell’adorabile fanciulla si fosse già trasformata in una splendida donna. Un sorriso enigmatico le affiorò sulle labbra. «Sei soddisfatto?» gli domandò. Arthur si fece avanti e Margaret gli posò le mani sulle spalle. «Ti sei messa del profumo» disse lui. Ne fu sorpreso, perché non lo aveva mai usato prima. Era un profumo lieve, quasi acre, che lui non conosceva. Gli rammentava vagamente gli aromi della sua infanzia in Oriente. Era remoto, strano. Conferiva a Margaret un fascino nuovo, che lo turbava. C’era sempre stato qualcosa di freddo nella sua bellezza statuaria, ma quel tocco enfatizzava curiosamente la sua femminilità. Le labbra di Arthur si contrassero e il viso scarno si fece pallido per la passione. La sua emozione era talmente forte da diventare quasi dolorosa. Era perplesso, perché gli occhi di Margaret esprimevano cose che mai vi aveva scorto prima. «Perché non mi baci?» disse lei. Non vedeva Susie, ma sapeva che una fugace ombra d’angoscia le aveva attraversato il volto. Margaret attirò Arthur a sé. Le mani di lui cominciarono a tremare. Non aveva mai osato lasciar affiorare la passione che lo consumava e quando la baciava lo faceva con un dominio quasi fraterno. Poi le loro labbra si incontrarono. Dimenticando che c’era qualcun altro nella stanza, Arthur strinse Margaret tra le braccia. Non lo aveva mai baciato così, e l’estasi fu intollerabile. Le labbra di lei erano fuoco ardente. Egli non riusciva a staccare le sue. Dimenticò tutto. Tutta la sua forza, tutto il suo autocontrollo lo abbandonarono. Pensò che in quel momento avrebbe anche potuto morire. Il piacere era talmente grande che Arthur soffocò a fatica un grido di angoscia. Dopo un po’ la voce di Susie lo riportò al mondo. «Fareste molto meglio ad andare a cena, invece di comportarvi come due perfetti idioti». Susie si sforzò di assumere un tono divertito quanto le sue parole, ma la sua voce era rotta da una fitta di sofferenza. Con una risatina, Margaret si sciolse dall’abbraccio di Arthur e guardò raggiante la sua amica. Il sorriso coraggioso di Susie svanì, perché nello sguardo di Margaret c’era un odio perfido che la scosse. Era talmente inaspettato che ne fu terrorizzata. Cosa aveva fatto? Aveva paura, una paura terribile, che Margaret avesse intuito il suo segreto. Arthur era rimasto come privo di sensi, ancora tremante di passione. «Susie dice che dobbiamo andare» sorrise Margaret. Egli non riusciva a parlare. Non riuscì neanche a riprendere i modi convenzionali della buona società. Pallidissimo, come chi si risvegli all’improvviso da un sonno profondo, uscì al fianco di Margaret. Si incamminarono e, sebbene la porta fosse chiusa e loro fossero troppo lontani, Margaret ebbe l’impressione di cogliere i singhiozzi penosi di Susie. E questo le procurò un orrendo piacere. Il ristorante era su boulevard des Italiens e in quel periodo era il più frequentato di Parigi. Era gremito, ma Arthur aveva riservato un tavolo al centro della sala. La bellezza radiosa di Margaret spingeva la gente a guardarla mentre passava e la consapevolezza di suscitare ammirazione la rendeva ancora più splendente. Era soddisfatta che in quella folla di donne tra le più eleganti al mondo non avesse motivo di invidiarne nessuna. Si respirava un’allegria irresistibile. Luci soffuse conferivano un’opulenta intimità all’ambiente e c’erano fiori ovunque. Innumerevoli specchi riflettevano donne di mondo splendidamente abbigliate, note attrici, celebri cortigiane. Il rumore era molto forte. Un’orchestra ungherese suonava in un angolo lontano, ma la musica era sommersa dal vocio sostenuto di uomini eccitati e dalla risata fragorosa delle donne. Era chiaro che erano lì per spendere generosamente. La folla vivace si abbandonava al piacere dell’attimo fuggente. Ciascuno aveva messo da parte i pensieri più cupi e i dispiaceri. Margaret non era mai stata di umore migliore. Lo champagne le dette subito alla testa, rendendola deliziosamente ciarliera. Arthur era incantato. Era molto orgoglioso, molto compiaciuto, molto felice. Parlarono di tutte le cose che avrebbero fatto dopo il matrimonio, dei luoghi in cui sarebbero andati, della loro casa, di tutti gli splendidi oggetti di cui l’avrebbero riempita. Margaret era straordinariamente animata e Arthur era divertito dalla gioia che le davano l’eleganza del locale, il buon cibo, il vino. La sua risata era come un ruscello argentino. Tutto contribuiva a strappare Arthur al suo solito riserbo. In quel momento la vita era assai piacevole ed egli si sentiva pervaso da una gioia speciale. «Brindiamo alla nostra felicità» disse. Alzarono i bicchieri. Non riusciva a distogliere lo sguardo da lei. «Stasera sei semplicemente meravigliosa» disse. «Ho quasi paura della mia buona sorte». «Perché mai dovresti avere paura?» esclamò lei. «Forse dovrei perdere qualcosa a cui tengo molto, così da propiziarmi la fortuna. Ora sono troppo felice. Mi va tutto troppo bene». Margaret fece una risata vellutata, bassa, e gli tese la mano attraverso il tavolo. Nessuno scultore avrebbe potuto modellarla con tanta squisita delicatezza. Portava soltanto un anello, un grande smeraldo, che Arthur le aveva regalato per il fidanzamento. Egli non riuscì a resistere. Le prese la mano. «Ti piacerebbe andare da un’altra parte?» le chiese mentre, terminata la cena, bevevano il caffè. «No, restiamo qui. Devo andare a letto presto, domani mi aspetta una giornata faticosa». «Cosa devi fare?» le domandò. «Nulla di importante» rise lei. Nel frattempo, i clienti cominciavano ad andarsene a piccoli gruppi e Margaret suggerì di fare due passi verso La Madeleine. La notte era bella, ma piuttosto fredda. L’ampio viale era affollato. Margaret osservava le persone. Era divertente come una commedia. Dopo un po’, presero una vettura e percorsero le strade, ormai silenziose, che portavano a Montparnasse. Nessuno dei due parlava e Margaret si strinse ad Arthur. Egli le cinse la vita con un braccio. Al chiuso della vettura, quel lieve profumo orientale gli penetrò ancora una volta nelle narici, facendogli girare la testa come prima di cena. «Sono così felice, Margaret» sussurrò lui. «Sento che, per quanto a lungo io possa vivere, non vedrò mai un giorno più felice di questo». «Mi ami tanto?» domandò lei con allegria. Per tutta risposta, egli le prese il viso tra le mani, baciandolo con passione. Quando arrivarono a casa di Margaret, lei si diresse al portone e gli tese la mano sorridendo. «Buonanotte». «È terribile pensare che dovrò stare mezza giornata senza vederti. Quando posso venire?». «Non al mattino, avrò troppo da fare. Vieni a mezzogiorno». Ricordava che il treno partiva esattamente a quell’ora. La porta si aprì e lei sparì agitando lieve la mano. 10 Susie guardò senza capire il biglietto che annunciava il matrimonio di Margaret. Era un petit bleu spedito con la posta pneumatica dalla Gare du Nord e diceva: «Quando leggerai sarò in viaggio per Londra. Stamane ho sposato Oliver Haddo. Lo amo come non ho mai amato Arthur. Ho agito così perché penso di essere andata troppo in là con Arthur: qualsiasi spiegazione sarebbe stata impossibile. Ti prego, diglielo tu, Margaret». Susie era sgomenta. Non sapeva cosa fare, cosa pensare. Sentì bussare alla porta; doveva essere Arthur, atteso per mezzogiorno. Decise rapidamente che era impossibile dargli quella notizia su due piedi. Bisognava prima scoprire che cosa fosse successo; era tutto incredibile. Ormai decisa, aprì la porta. «Oh, mi dispiace, Margaret non c’è. Una sua amica è malata e l’ha mandata a chiamare all’improvviso». «Che seccatura!» rispose Arthur. «Sempre Mrs Bloomfield, immagino». «Oh, Mrs Bloomfield è malata?». «Margaret passa tutti i pomeriggi con lei, da qualche giorno a questa parte». Susie non rispose. Era la prima volta che sentiva parlare della malattia di Mrs Bloomfield, ed era una novità che Margaret avesse l’abitudine di farle visita. Ma in quel momento l’obiettivo principale era liberarsi di Arthur. «Perché non torna alle cinque?» disse. «E perché invece non pranziamo insieme, lei e io?». «Oh, mi dispiace, aspetto visite». «Capisco. Allora tornerò alle cinque». Fece un cenno del capo e uscì. Susie lesse ancora una volta il breve biglietto e si chiese se fosse vero. Era di un’insensibilità sconcertante. Andò nella stanza di Margaret e vide che tutto era al suo posto. Non sembrava proprio che l’occupante fosse partita per un viaggio. Si accorse però che alcune lettere erano state distrutte. Susie aprì un cassetto e scoprì che i gioielli di Margaret erano scomparsi. Un pensiero le attraversò la mente. Negli ultimi tempi Margaret aveva acquistato degli abiti e insistito per mandarli dal sarto, dicendo che era inutile ingombrare il piccolo appartamento. Potevano restare dal sarto finché, di lì a poche settimane, lei non fosse tornata in Inghilterra per il matrimonio; e sarebbe stato più semplice spedirli tutti insieme da un unico posto. Susie uscì. Sul portone le venne in mente di chiedere alla concierge se sapeva dove fosse andata Margaret quella mattina. «Parfaitement, Mademoiselle» rispose la vecchia. «Ho sentito che diceva al cocchiere di portarla al consolato britannico». Non c’erano quasi più dubbi. Susie andò dal sarto e scoprì che, per ordine di Margaret, le scatole contenenti i suoi abiti erano state spedite il giorno precedente all’ufficio bagagli della Gare du Nord. «Spero che non li abbiate mandati prima che il conto fosse saldato» disse Susie allegra, come per scherzo. Il sarto rise. «Mademoiselle ha pagato tutto due o tre giorni fa». Piena di indignazione, Susie comprese che Margaret non solo aveva portato con sé tutto il corredo acquistato per il matrimonio con Arthur ma, essendo priva di mezzi, lo aveva pagato con il denaro che egli generosamente le aveva donato. Susie si recò quindi da Mrs Bloomfield, che subito la rimproverò perché non era andata a trovarla. «Spiacente, ma ho avuto molto da fare, e sapevo che c’era Margaret a prendersi cura di lei». «Non vedo Margaret da tre settimane» disse l’inferma. «Davvero? Pensavo che venisse spesso a trovarla». Susie finse di non dare troppo peso alla cosa. Si chiedeva dove Margaret avesse trascorso quei pomeriggi. Con un grande sforzo si costrinse a parlare del più e del meno con quell’anziana loquace, abbastanza a lungo perché la sua visita sembrasse spontanea. Dopo averla salutata, andò al consolato e lì il suo ultimo dubbio fu dissipato. Ormai non restava che tornare a casa e attendere Arthur. Il suo primo impulso era stato di cercare il dottor Porhoët e chiedergli consiglio, ma, se anche egli si fosse offerto di accompagnarla, la sua presenza sarebbe stata inutile. Doveva vedere Arthur da sola. Le si spezzava il cuore pensando all’angoscia di quell’uomo una volta scoperta la verità. Ormai da tempo aveva ammesso dentro di sé di amarlo appassionatamente e le sembrava intollerabile che proprio lei, tra tanti, dovesse infliggergli quel colpo. Seduta nell’appartamento, contava i minuti e pensava con un sorriso amaro che Arthur, impaziente di vedere Margaret, sarebbe arrivato puntuale. Susie non mangiava nulla dal petit déjeuner e si sentiva debole per la fame, ma non ebbe cuore di prepararsi il tè. Finalmente, Arthur arrivò. Entrò, tutto allegro, e si guardò attorno. «Margaret non è ancora rincasata?» domandò sorpreso. «Perché non si siede?». Egli non notò che Susie aveva una voce strana e distoglieva lo sguardo. «Lei è proprio pigra» esclamò. «Non ha preparato il tè». «Dottor Burdon, devo dirle una cosa. Le procurerà un dolore enorme». Arthur notò in quel momento la sua voce roca. Balzò in piedi e mille pensieri gli si affollarono nella mente. Qualcosa di orribile era accaduto a Margaret. Era malata. Era talmente terrorizzato che non riusciva a parlare. Protese le mani come un cieco. Susie dovette fare uno sforzo per continuare, ma non ci riuscì. Con voce strozzata cominciò a piangere. Arthur tremava, come in preda alle convulsioni. Lei gli consegnò il biglietto. «Che significa?». La fissava con uno sguardo vacuo. Susie gli raccontò dov’era stata, cosa aveva fatto. «Lei pensava che Margaret passasse i pomeriggi con Mrs Bloomfield, invece era con quell’uomo. Aveva preparato ogni cosa con la massima cura. Era tutto premeditato». Seduto con la fronte appoggiata sulla mano, Arthur le dava le spalle perché lei non potesse vederlo in faccia. Rimasero in perfetto silenzio, ed era così tremendo che Susie cominciò a piangere, piano. L’uomo che amava soffriva un tormento più grande dell’agonia della morte e lei non poteva aiutarlo. La rabbia le divampò nel cuore, insieme all’odio per Margaret. «Oh, è ignobile!» esclamò all’improvviso. «Le ha mentito, l’ha ingannata in modo odioso. È una donna vile, senza cuore. Deve essere marcia fin nel profondo dell’anima». Egli si voltò di scatto; la sua voce era dura. «Le proibisco di dire anche una sola parola contro di lei». Susie soffocò un singulto; Arthur non le aveva mai parlato con quel tono adirato. Avvampò, piena d’amarezza. «Riesce dunque ad amarla ancora, quando si è dimostrata capace di un tradimento così meschino? Per quasi un mese quell’uomo deve averla corteggiata e Margaret ha ascoltato tutto ciò che abbiamo detto di lui. Ha finto di detestarne anche la sola presenza e l’ho vista evitarlo per la strada. Ha portato avanti i preparativi del matrimonio. Ha vissuto in un mondo di menzogna e lei non ha sospettato nulla, perché aveva una fiducia incrollabile nel suo amore e nella sua sincerità. Quella donna le deve tutto. Per quattro anni è vissuta della sua carità. Ha avuto la possibilità di venire qui solo perché lei le ha dato il denaro per realizzare il suo sciocco capriccio, e persino gli abiti che portava erano pagati da lei». «Se non mi avesse amato, me ne sarei accorto» esclamò lui, disperato. «Lei sa bene quanto me che fingeva di amarla. Si è comportata in modo vergognoso e non ha scusanti». L’uomo guardò Susie con occhi infelici, stravolti. «Come può essere tanto crudele? Per l’amor di Dio, non mi renda tutto più difficile». Nella sua voce c’era un’angoscia indescrivibile e Arthur crollò, come se quelle parole accorate avessero abbattuto l’ultimo baluardo di autocontrollo. Nascose il volto tra le mani e scoppiò in singhiozzi. Susie era afflitta dai rimorsi. «Oh, mi dispiace tanto» disse. «Non avevo intenzione di dirle queste cose odiose. Non volevo essere brusca. Avrei dovuto ricordare con quanta passione lei ami Margaret». Era penoso vedere gli sforzi di Arthur per ritrovare l’autocontrollo. Susie ne soffriva quanto lui. Sentiva l’impulso di gettarsi ai suoi piedi, baciargli le mani e confortarlo; ma sapeva che Arthur provava interesse per lei solo perché era l’amica di Margaret. Alla fine egli si alzò e prese la pipa dalla tasca, riempiendola in silenzio. Susie era terrorizzata dalla sua espressione. La prima volta che l’aveva incontrato, si era chiesta quanta sofferenza fosse capace di infliggersi, ma mai avrebbe immaginato che quel viso aspramente scolpito potesse esprimere una sofferenza così indicibile. I suoi tratti stravolti erano uno spettacolo orribile. «Non posso credere che sia vero,» sussurrò lui «non posso crederci». Si sentì bussare alla porta e Arthur proruppe in un grido di sorpresa. «Forse è tornata». Aprì svelto la porta, il volto acceso di speranza. Ma era il dottor Porhoët. «Salve» disse il francese. «Che succede?». Si guardò attorno e colse lo sgomento sul volto di Arthur e di Susie. «Dov’è Miss Margaret? Pensavo ci fosse una festa». Qualcosa nei suoi modi spinse Susie a chiedergli lumi. «Questa mattina ho ricevuto un telegramma da Mr Haddo». Lo tirò fuori dalla tasca e lo porse a Susie. Lei lo lesse e lo passò ad Arthur. Diceva: «Venga all’appartamento alle cinque. Gran baldoria. Oliver Haddo». «Margaret e Mr Haddo si sono sposati stamattina» disse Arthur con compostezza. «Mi si dice che sono partiti per l’Inghilterra». Susie raccontò succintamente al dottore il poco che sapevano. Egli ne fu sorpreso e scosso quanto loro. «Ma come si spiega tutto questo?» domandò. Arthur si strinse nelle spalle con aria stanca. «Evidentemente teneva a Haddo più di quanto tenesse a me. È naturale che se ne sia andata così, senza dare spiegazioni. Suppongo che volesse risparmiarsi una scena penosa». «Quando l’hai vista per l’ultima volta?». «Ieri, abbiamo passato la serata insieme». «E non ha lasciato in alcun modo trapelare che stava meditando un passo simile?». Arthur fece un cenno di diniego. «Avete litigato?». «Noi non abbiamo mai litigato. Era di ottimo umore. Non l’avevo mai vista così allegra. Ha parlato per tutto il tempo della nostra casa a Londra e dei luoghi che avremmo visitato una volta sposati». Un’altra smorfia di dolore gli attraversò il volto, mentre ricordava che era stata più affettuosa del solito. Il fuoco dei suoi baci ancora gli bruciava sulle labbra. Aveva trascorso una notte – pressoché insonne – d’estasi, perché per la prima volta aveva avuto la certezza che la passione che lo consumava bruciava anche nel cuore di lei. Le parole gli uscirono contro la sua volontà. «Oh, sono certo che mi amava». Nel frattempo gli occhi di Susie erano fissi sul crudele telegramma di Haddo. Le sembrava di sentire la sua risata di scherno. «Margaret disprezzava Oliver Haddo, nutriva per lui un odio quasi innaturale. Era una repulsione fisica, come quella che talvolta la gente prova per certi animali. Cosa può essere accaduto per mutare la repulsione in un amore così grande da ispirarle azioni tanto inqualificabili?». «Cerchiamo di essere giusti» disse Arthur. «Quell’uomo ci ha fatto infuriare e probabilmente siamo stati troppo severi nel giudicarlo. Un tempo si è reso capace di cose notevoli, non è uno sciocco. È possibile che altri non diano peso a quelle eccentricità che ci irritavano. Sicuramente è di ottima famiglia, ed è ricco. Per molti versi è un eccellente partito per Margaret». Stava cercando con tutte le sue forze di trovarle delle giustificazioni. Il tradimento non sarebbe stato tanto intollerabile se fosse riuscito a convincersi che l’infatuazione era dovuta alle qualità di Haddo. Ma mentre il nemico gli si parava dinanzi nella fantasia, mostruosamente obeso, volgare, eccessivo, un brivido lo percorse. Il pensiero di Margaret fra le braccia di quell’uomo lo tormentava, si sentiva strappare la carne con uncini di ferro. «Forse non è vero, forse tornerà» esclamò. «La riprenderebbe se tornasse?» domandò Susie. «Crede forse che Margaret possa fare qualcosa che mi spinga ad amarla di meno? Delle ragioni a noi sconosciute devono averla costretta ad agire così. Direi anzi che è stato inevitabile, fin dal primo momento». Il dottor Porhoët si alzò e traversò la stanza. «Se una donna mi avesse offeso al punto di farmi desiderare un’orribile vendetta, non avrei potuto immaginare nulla di più sottilmente crudele che lasciarle sposare Oliver Haddo». «Ah, povera ragazza!» disse Arthur. «Se solo riuscissi a credere che sarà felice! Il futuro mi atterrisce». «Chissà se Margaret sapeva che Haddo aveva spedito quel telegramma» disse Susie. «Che importanza può avere?». Ella si voltò verso Arthur con aria seria. «Ricorda quel giorno, qui, quando Haddo dette un calcio al cane di Margaret e lei, Arthur, lo colpì? Ebbene, poco dopo, quando pensava di non essere visto, colsi per caso l’espressione del suo viso. In vita mia non ho mai visto un odio così violento. Era il volto di un perfido demonio. E quando egli tentò di scusarsi, c’era nei suoi occhi un lampo di crudeltà che mi terrorizzò. La avvertii; le dissi che avrebbe voluto vendicarsi. Ma lei rise di me. E poi mi sembrò che Haddo fosse uscito dalla sua vita e non ci pensai più. Mi domando per quale motivo abbia mandato qui il dottor Porhoët, oggi. Era certo che il dottore avrebbe saputo della sua umiliazione e desiderava che fosse presente al suo trionfo. Credo che in quel preciso momento Haddo abbia deciso di vendicarsi di lei e abbia architettato questo piano ignobile». «Ma come poteva sapere che sarebbe riuscito a portare a compimento una cosa tanto orribile?» disse Arthur. «Chissà che Miss Boyd non abbia ragione» mormorò il dottore. «Del resto, a pensarci bene, doveva sapere che niente avrebbe potuto ferirti di più. È un disegno diabolico. Ti ha strappato la felicità. Sapeva senz’altro che la cosa che più desideravi al mondo era sposare Margaret, e non solo l’ha impedito, ma l’ha sposata lui stesso. Può averlo fatto soltanto avvelenandole la mente, modificandole il carattere. Deve averle insozzato l’anima, e mutato totalmente la personalità». «Ah, ne sono certo!» esclamò Arthur. «Se Margaret ha infranto la promessa fatta a me e se è andata con lui con tanta indifferenza, è perché non è la Margaret che conosco io. Un demonio deve essersi impadronito del suo corpo». «La sua è una metafora, ma io mi chiedo se possa essere successo davvero». Arthur e il dottor Porhoët fissarono Susie con stupore. «Non riesco a credere che Margaret possa aver fatto una cosa simile» continuò lei. «Più ci penso, più mi sembra incredibile. Conosco Margaret da anni. Non sa cosa sia l’inganno. Era una fanciulla gentile, onesta e sincera. In un primo momento, inorridita, ho provato solo indignazione, ma non voglio pensare troppo male di lei. C’è solo un modo per giustificarla, ed è supporre che abbia agito sotto la spinta di qualche misteriosa costrizione». Arthur si tormentava le mani. «Forse sarebbe ancora peggio. Se l’ha sposata solo per ferirmi e non perché tiene a lei, quale vita l’aspetta con quell’uomo? Sappiamo quanto può essere spietato, vendicativo, orrendamente crudele». «Il dottor Porhoët conosce queste cose molto meglio di noi» disse Susie. «È possibile che Haddo le abbia fatto una sorta di incantesimo, rendendola incapace di resistere alla sua volontà? È possibile che sia riuscito a esercitare una tale influenza su di lei da mutarne completamente il carattere?». «Come posso saperlo?» esclamò il dottore, impotente. «Ho sentito dire che cose simili possono accadere. Ho letto qualcosa in proposito, ma non ho prove. In questo campo tutto è mistero. Gli adepti delle arti magiche rivendicano strani poteri. Arthur è un uomo di scienza, e lui sa quali sono i limiti dell’ipnotismo». «Sappiamo che Haddo ha poteri che gli altri uomini non hanno» rispose Susie. «Forse c’è un fondo di verità nelle sue balzane vanterie e sul serio è in grado di fare cose che riusciamo a stento a immaginare». Arthur, sfinito, si passò una mano sul volto. «Sono affranto, confuso, al punto che non riesco a pensare in modo coerente. In questo momento tutto mi sembra possibile. La mia fede nelle verità che mi hanno sostenuto finora comincia a vacillare». Per un po’ rimasero in silenzio. Gli occhi di Arthur si posarono sulla poltrona in cui Margaret era solita sedere. Sul cavalletto c’era una tela incompiuta. Fu il dottor Porhoët a parlare, alla fine. «Anche se ci fosse un fondo di verità nelle congetture di Miss Boyd, non vedo come questo potrebbe aiutarti. Non puoi far nulla. Non c’è rimedio, né legale, né d’altra natura. Margaret, apparentemente, è nel pieno possesso delle sue facoltà, e l’ha sposato. Molti penseranno che ha fatto molto meglio a sposare un gentiluomo di campagna piuttosto che un giovane chirurgo. La sua lettera è perfettamente lucida. Non c’è traccia di costrizione. Con ogni evidenza, lo ha sposato di sua volontà e nulla dimostra che desideri essere allontanata da lui o dalla passione che supponiamo la renda schiava». Quel che diceva era vero e inconfutabile. «L’unica cosa è fare buon viso a cattivo gioco» disse Arthur alzandosi. «Dove va?» disse Susie. «Credo proprio che me ne andrò da Parigi. Tutto, qui, mi ricorda quel che ho perduto. Devo tornare al lavoro». Aveva ripreso il controllo su se stesso e, tranne per quella irrimediabile infelicità sul suo volto, che gli era impossibile non far trapelare, era calmo come al solito. Tese la mano a Susie. «Posso soltanto augurarle di dimenticare» disse lei. «Non desidero dimenticare» rispose lui scuotendo la testa. «È possibile che lei abbia notizie di Margaret. Avrà bisogno delle cose che ha lasciato qui, e probabilmente le scriverà. Vorrei che le dicesse che non le serbo rancore e che mai avrò l’ardire di biasimarla. Non so se potrò fare qualcosa per lei, ma deve sapere che sempre, in ogni caso, farò tutto quel che desidera». «Se mi scriverà, sarà mia cura dirglielo» rispose Susie in tono grave. «Bene, dunque, arrivederci». «Non potrà partire per Londra fino a domani. La vedrò, domattina?». «Se non le dispiace preferirei non tornare qui. La vista di questo luogo mi turba». Ancora una volta una smorfia di dolore gli balenò negli occhi e Susie capì che stava facendo uno sforzo sovrumano per mantenere un’apparente compostezza. Esitò per un attimo. «Non ci vedremo mai più?» disse. «Mi dispiacerebbe perderla completamente di vista». «Anche a me dispiacerebbe» rispose lui. «Ho imparato ad apprezzare la sua bontà e la sua gentilezza, e non dimenticherò mai che lei è un’amica di Margaret. Quando verrà a Londra, spero che si farà sentire». Uscì. Il dottor Porhoët, con le mani dietro la schiena, cominciò a camminare su e giù per la stanza. Alla fine si rivolse a Susie. «C’è una cosa che mi sconcerta» disse. «Perché l’ha sposata?». «Ha sentito quel che ha detto Arthur» rispose Susie, amaramente. «Qualunque cosa sia accaduta, sarebbe pronto a riprenderla con sé. Haddo sapeva che l’unico modo certo per legarla a sé era il rito del matrimonio». Il dottor Porhoët si strinse nelle spalle e poco dopo la salutò. Quando fu sola, Susie cominciò a piangere a calde lacrime, non per se stessa, ma perché Arthur era afflitto da un tormento quasi insopportabile. 11 Arthur ripartì per Londra il giorno successivo. Susie comprese che le era impossibile restare in quell’appartamento deserto e accettò l’invito di un’amica a trascorrere l’inverno in Italia. Il buon dottor Porhoët rimase a Parigi con i suoi libri e i suoi studi di occultismo. Susie viaggiava senza fretta per la Toscana e l’Umbria. Margaret non le aveva scritto e lei, lasciando Parigi, aveva spedito gli effetti dell’amica a un certo indirizzo da cui sapeva che prima o poi le sarebbero stati inoltrati. Non si decideva a scriverle. In risposta a un suo biglietto che gli annunciava il cambiamento di programma, Arthur le aveva scritto brevemente che aveva molto da fare e che era impegnato in una nuova serie di conferenze al St. Luke; di recente aveva iniziato a collaborare con un altro ospedale e anche la sua attività privata stava aumentando. Non faceva nemmeno un accenno a Margaret. La sua lettera era essenziale, formale, quasi di dovere, e molto riservata. Susie, leggendola per la decima volta, non ne dedusse molto. Si capiva che scriveva per educazione, senza provare alcun interesse, e non c’era nulla che rivelasse il suo stato d’animo. Susie e l’amica avevano deciso di trascorrere alcune settimane a Roma; e qui, con suo stupore, Susie ebbe notizie di Haddo e di sua moglie. A quanto pareva, vi avevano trascorso un periodo, e la ristretta cerchia degli inglesi ancora parlava delle loro eccentricità. Viaggiavano con una certa pompa, con una guida al seguito e uno stuolo di domestici; avevano affittato una vettura e ogni pomeriggio si recavano al Pincio. Haddo aveva destato curiosità per il suo abbigliamento stravagante e Margaret per la sua bellezza; la si vedeva ogni sera nel suo palco all’Opera e i suoi diamanti suscitavano l’invidia di tutti. Benché la gente ridesse della pretenziosità di Haddo e fosse esasperata dalla sua arroganza, restava impressionata dalla sua evidente ricchezza. Ma, all’improvviso, la coppia era scomparsa senza dire una parola a nessuno. Parecchie fatture erano rimaste insolute, ma Susie seppe che erano state saldate in seguito. Si diceva che in quel momento fossero a Montecarlo. «Ti sono sembrati felici?» chiese Susie all’amica un po’ pettegola che le aveva dato queste scarne informazioni. «Direi di sì. In fin dei conti, Mrs Haddo ha praticamente tutto quel che una donna può desiderare, ricchezza, bellezza, splendidi abiti, gioielli. Sarebbe irragionevole da parte sua non essere felice». Susie aveva intenzione di trascorrere l’ultimo periodo di primavera sulla Riviera, ma esitò quando seppe che gli Haddo erano là. Non voleva rischiare di incontrarli, eppure provava un acuto desiderio di scoprire come stavano veramente le cose. Curiosità e disgusto lottarono nella sua mente, ma la curiosità ebbe la meglio, ed ella convinse la sua amica ad andare a Montecarlo invece che a Beaulieu. Susie non incontrò subito gli Haddo; essi però avevano già suscitato parecchi pettegolezzi, ed ella non dovette far altro che tenere le orecchie aperte. In quel luogo bizzarro, dove si raccoglie tutto ciò che è stravagante e maligno, morboso, folle e fuori del comune, gli Haddo erano in buona compagnia. Erano famosi per la loro assiduità ai tavoli da gioco e per la loro fortuna, per i pranzi e le cene che offrivano in luoghi frequentati da gente molto ricca, e per il loro aspetto eccentrico. Era un quadro complesso quello che Susie mise insieme con le informazioni frammentarie che riuscì a raccogliere. Dopo un paio di giorni li vide ai tavoli da gioco, ma erano talmente assorti che si sentì quasi sicura di non essere stata scoperta. Margaret giocava, ma Haddo le stava alle spalle e guidava i suoi movimenti. Entrambi erano incredibilmente concentrati. Susie fissò la sua attenzione su Margaret poiché, in quel che aveva sentito dire su di lei, le era impossibile riconoscere la fanciulla che le era stata amica. Ciò che più la colpì in quel momento fu il fatto che l’espressione di Margaret rivelasse una curiosa somiglianza con quella di Haddo. Nonostante la sua squisita bellezza, c’era in lei una strana aria crudele, quasi vedesse il mondo, letteralmente, con gli occhi di Oliver. Quella sera stavano vincendo forti somme ed erano in molti a osservarli. A quanto pareva, giocavano sempre in quel modo, Margaret puntava e Haddo le diceva cosa fare e quando fermarsi. Susie udì due francesi che parlavano di loro e drizzò le orecchie. Arrossì sentendo uno dei due fare un’osservazione a dir poco volgare su Margaret. L’altro rise. «Non ci credo» disse. «Ti assicuro che è vero. Sono sposati da sei mesi e lei è sua moglie solo di nome. Da sempre i superstiziosi credono nel potere della verginità, e la Chiesa ha sfruttato l’idea per i suoi fini. Quell’uomo la usa semplicemente come portafortuna». Gli uomini risero, e la loro conversazione continuò su un tono talmente osceno che le guance di Susie avvamparono. Ma quanto aveva sentito la spinse a osservare Margaret ancora più attentamente. Era radiosa. Susie non poteva negare che le era accaduto qualcosa che conferiva alla sua bellezza un tocco nuovo, enigmatico. Era abbigliata con una ricercatezza che il gusto piuttosto discreto di Susie trovava difficile accettare; i suoi diamanti, di per sé splendidi, erano eccessivi per l’occasione. Alla fine, raccogliendo il denaro, Haddo le sfiorò la spalla, e lei si alzò. Alle sue spalle c’era una donna truccata pesantemente, di fama notoriamente poco rispettabile. Susie si stupì vedendo Margaret sorriderle e farle un cenno mentre le passava accanto. Susie venne a sapere che gli Haddo avevano una suite in uno degli alberghi più costosi. Vivevano in un turbine di spensieratezza. Conoscevano pochi inglesi, se si escludono quelli di pessima reputazione, ma sembravano preferire la compagnia degli stranieri che per ricchezza ed eccentricità erano le attrazioni di quel piccolo mondo. In seguito li vide spesso insieme a granduchi russi e alle loro amanti, a donne sudamericane dai gioielli favolosi, a nobili giocatori e dame di dubbia fama, a strani uomini vistosamente abbigliati e troppo profumati. I pettegolezzi su di loro andavano aumentando. Margaret si muoveva fra quella gente equivoca con aria scostante e misteriosa, suscitando la curiosità dei perditempo. L’allusione che Susie aveva sentito per caso veniva ripetuta in modo più circostanziato. Ma a essa si aggiungeva il resoconto di orge nel salone dell’albergo, opportunamente oscurato, sotto gli occhi di tutti i nobili e i viziosi di Montecarlo. L’eccentrica immaginazione di Oliver inventava festini fantasiosi. Aveva una passione per i travestimenti e aveva dato una festa in maschera della quale si raccontavano meraviglie. Cercava di far rivivere i riti mistici di antiche religioni e correva voce che nel giardino di una villa, durante le notti di plenilunio, fossero state compiute terrificanti cerimonie a imitazione di quelle che Haddo aveva visto in Oriente. Si diceva che egli avesse poteri magici portentosi, e la stanca immaginazione di quella gente affamata di nuovi piaceri veniva sollecitata dal racconto delle sue pratiche di magia nera. Alcuni si spingevano fino ad asserire che blasfeme messe nere erano state celebrate in casa di un principe polacco. Parlavano di satanismo e di negromanzia. Pensavano che Haddo fosse dedito agli studi di occultismo per compiere un esperimento di magia, e alcuni sostenevano che si dedicasse al magnum opus, l’esperimento alchemico più importante e fantastico. Queste storie pian piano si ridussero a un’unica mostruosa affermazione: Haddo stava cercando di creare degli esseri viventi. Egli aveva diffusamente spiegato a qualcuno che esistevano delle formule magiche per dare vita agli homunculi. Haddo era in genere conosciuto con il nome che si era attribuito, Fratello dell’Ombra; ma la maggior parte delle persone usava questo appellativo con tono di derisione, trovandolo assurdamente in contrasto con la sua mole sbalorditiva. La gente era irritata dalla sua vanità, ma non poteva fare a meno di parlare di lui e, come Susie ben sapeva, non c’era nulla che facesse più piacere a quell’uomo. Le sue gesta come cacciatore di leoni erano famose, e si raccontava che si fosse macchiato le mani di sangue umano. Non si tardò a scoprire che aveva un misterioso potere sugli animali, al punto che la sua presenza destava in loro un indicibile terrore. Era circondato da un’aura di leggenda e nulla di quanto si diceva di lui era così stravagante da non risultare credibile. Ma circolavano anche aneddoti spiacevoli, e c’era chi diceva che fosse stato cacciato da un club di Vienna per aver barato alle carte. Conosceva molti giochi ma, come un tempo a Oxford, non si tardò a scoprire che era un avversario senza scrupoli. Si trascinava dietro vecchie storie su strane droghe di cui avrebbe fatto uso. Si supponeva che avesse vizi terribili e giravano, ma solo sussurrate, voci di scandali soffocati a fatica. Nessuno capiva bene quali fossero i suoi rapporti con la moglie, ci si limitava a dire che a volte era brutale e crudele con lei. A Susie si spezzava il cuore quando sentiva queste cose, ma, nelle poche occasioni in cui la vide, Margaret le sembrò sempre di ottimo umore. Un episodio, tuttavia, la turbò oltremodo. Dopo aver pranzato in un ristorante, Haddo pagò il conto con una moneta falsa, e ne scaturì un alterco assai sgradevole con il cameriere. Egli rifiutò di cambiare la moneta, finché arrivò un poliziotto. I suoi ospiti erano furiosi, e molti alla prima opportunità preferirono rompere con lui. Uno dei presenti raccontò la scena a Susie, aggiungendo che, per tutto il tempo di quella squallida discussione, Margaret non fece che ridere con il suo vicino, niente affatto preoccupata. Haddo era di buona famiglia e aveva un notevole patrimonio, eppure sembrava che si divertisse a comportarsi come un avventuriero. L’episodio fu ben presto sulla bocca di tutti e a poco a poco gli Haddo si trovarono isolati. Le persone che frequentavano più spesso avevano una reputazione già fragile e non potevano permettersi di stare costantemente al centro dell’attenzione, come capitava a chiunque fosse in rapporti con loro; il semplice accenno alla polizia aveva fatto correre un brivido lungo più di una schiena. Quel che era accaduto a Roma accadde anche a Montecarlo: gli Haddo sparirono all’improvviso. Susie mancava da Londra già da tempo, e man mano che la primavera avanzava pensò che i suoi amici avrebbero avuto piacere di vederla. Sarebbe stato bello trascorrere là alcune settimane con una rendita adeguata, perché i piaceri londinesi le erano stati fino ad allora preclusi ed ella aspettava quel viaggio come se dovesse partire per una città straniera. Benché non lo confessasse neppure a se stessa, il desiderio di vedere Arthur era più forte di ogni altra ragione. Il tempo e la lontananza avevano un po’ attenuato l’intensità dei suoi sentimenti e poteva finalmente ammettere di pensare a lui con profondo affetto. Sapeva che non gli sarebbe mai importato nulla di lei, ma si accontentava di essergli amica. Riusciva a pensare a lui senza soffrire. Susie rimase tre settimane a Parigi per acquistare degli abiti – a sentir lei, erano ormai l’unico piacere che aveva nella vita –, poi partì per Londra. Scrisse ad Arthur, ed egli la invitò subito a pranzo in un ristorante. Ne fu irritata, perché a casa sua avrebbero potuto parlare più liberamente; ma, appena lo vide, comprese che aveva scelto quel luogo di proposito. La folla intorno a loro, l’allegria, l’orchestra che suonava impedivano qualunque conversazione troppo intima. Furono costretti a parlare del più e del meno. Susie fu del tutto sgomenta vedendo quale cambiamento si era verificato in lui. Dimostrava dieci anni di più; era dimagrito e i capelli erano spruzzati di bianco. Il volto era incredibilmente tirato, gli occhi arrossati per la mancanza di sonno. Ma fu colpita soprattutto dal cambiamento della sua espressione. L’aria sofferta che gli aveva visto sul viso l’ultima sera nell’appartamento ora vi si era fissata definitivamente, al punto da alterargli i tratti. A guardarlo le si stringeva il cuore. Era quanto mai silenzioso e, quando parlava, lo faceva con un’insolita voce bassa che sembrava venire da molto lontano. Stare con lui la fece sentire stranamente a disagio, perché percepiva un’inquietudine che toglieva ogni pacatezza ai suoi modi. Una delle cose che più aveva apprezzato di Arthur era la sua tranquillità: dava l’impressione di essere uno su cui si poteva fare affidamento in caso di bisogno. Dapprima Susie non si rese ben conto di cosa gli fosse accaduto, ma non ci mise molto a capire che faceva uno sforzo continuo per controllarsi. La sofferenza non lo abbandonava mai, ed era sempre in guardia per impedire che qualcuno se ne accorgesse. Era quello sforzo a renderlo così irrequieto. Ma era più gentile di un tempo. Sembrò sinceramente felice di vederla, e le chiese con interesse dei suoi viaggi. Susie lo spinse a parlare di sé ed egli le raccontò volentieri la sua routine quotidiana. Guadagnava bene e la sua fama professionale era in continua crescita. Lavorava sodo. Oltre agli incarichi nei due ospedali con i quali collaborava, l’insegnamento e l’attività privata, ultimamente aveva presentato un paio di relazioni dinanzi alle autorità scientifiche, e stava curando un importante trattato di chirurgia. «Ma come fa a trovare il tempo per tutto?» gli domandò Susie. «Ormai sono abituato a dormire molto meno» rispose lui «e questo mi consente di raddoppiare le mie ore lavorative». Si interruppe bruscamente e abbassò gli occhi. Quell’osservazione aveva lasciato casualmente trapelare un accenno alla sua vita interiore, che egli cercava invece di nascondere. Susie capì che i suoi sospetti erano fondati. Pensò alle lunghe ore di veglia in cui Arthur cercava invano di allontanare dalla mente quella tormentosa agonia, e ai brevi intervalli di sonno turbato. Era certa che rimandasse il più possibile il momento fatale in cui doveva andare a letto, e che ringraziasse le prime luci dell’alba di offrirgli una scusa per alzarsi. Egli sapeva di aver rivelato la verità e ne fu imbarazzato. Sedevano in silenzio, guardinghi. Susie fu profondamente colpita dal contrasto fra la figura tragica che aveva davanti e la folla festante tutt’intorno: gente felice che si godeva i bei momenti della vita, chiacchierava, rideva, stava in allegria. Si domandò quale raffinato gusto per la tortura lo avesse spinto a scegliere quel luogo per il loro incontro. Di certo doveva odiarlo. Alla fine del pranzo, Susie prese il coraggio a due mani. «Le farebbe piacere venire da me per una mezz’ora? Qui non si riesce a parlare». Egli ebbe un istintivo moto di rifiuto, come se cercasse di fuggire. Non rispose immediatamente, e lei insistette. «I suoi impegni le lasceranno un’ora di libertà, e ci sono molte cose di cui vorrei parlarle». «L’unico modo per esser forti è non arrendersi mai alla propria debolezza» disse lui, quasi sussurrando, come se si vergognasse di parlare di una cosa così intima. «Dunque non vuol venire?». «No». Non era necessario specificare di cosa avesse intenzione di discutere. Arthur sapeva perfettamente che Susie desiderava parlare di Margaret, e lei era troppo sincera per fingere. Susie rimase per un momento in silenzio. «Non ho mai avuto modo di dare a Margaret il suo messaggio. Non mi ha scritto». Arthur aveva uno sguardo spiritato, come se tutto questo fosse troppo per lui. «L’ho vista a Montecarlo» disse Susie. «Pensavo che le avrebbe fatto piacere avere sue notizie». «Non vedo a cosa serva» rispose. Susie fece un gesto di disperazione. Era sconfitta. «Vogliamo andare?» disse. «Non è irritata con me?» domandò Arthur. «So che lei vuole solo essere gentile. Le sono molto grato». «Non potrei mai essere irritata con lei» replicò Susie con un sorriso. Arthur pagò il conto e si fecero strada fra i tavoli. Sulla porta Susie gli tese la mano. «Credo che lei faccia male a chiudersi in se stesso, isolandosi da qualsiasi contatto umano» disse con il suo sorriso bonario. «Così rischia di diventare morboso». «Esco molto» rispose lui con tono paziente, come se stesse parlando a un bambino. «Mi impongo delle distrazioni dal lavoro. Vado all’Opera due o tre volte alla settimana». «Credevo che non le interessasse la musica». «Infatti non mi è mai interessata» rispose lui. «Ma trovo che mi rilassi». Susie era sconcertata dal suo tono spossato; non aveva mai visto con tanta chiarezza il tormento di un’anima che soffre. «Perché non mi porta all’Opera, una sera?» gli domandò. «O forse l’annoia vedermi?». «Mi piacerebbe moltissimo». Arthur sorrise quasi con allegria. «Lei è un tonico meraviglioso. Giovedì daranno il Tristano. Vogliamo andarci insieme?». «Ne sarei felicissima». Gli strinse la mano e saltò dentro una vettura. «Poveretto!» mormorò. «Cosa posso fare per lui?». Si tormentava le mani pensando a Margaret. Era mostruoso che avesse provocato un tale disastro in quell’uomo così buono e forte. «Oh, spero che anche lei ne soffra» sussurrò con tono vendicativo. «Spero che soffra tutti i tormenti che ha sofferto lui». Per andare al Covent Garden Susie si vestì come solo lei sapeva fare. Il suo abito le piaceva tantissimo, non solo perché aveva un taglio perfetto, ma perché le era costato molto più di quanto si sarebbe potuta permettere. Vestire bene era l’unico lusso che si concedeva. Era un abito in taffettà, di quel verde raffinato che gli esperti di moda chiamano eau de Nil, abbellito da un pizzo antico che era una parte preziosa della sua eredità. Tra i capelli Susie portava un fermaglio spagnolo di squisita fattura, tempestato di pietre artificiali, e al collo una catena che una volta aveva adornato la Madonna di una chiesa andalusa. Tanta originalità rendeva attraente anche il suo aspetto piuttosto scialbo. Allo specchio, sorrise a se stessa con una punta di malinconia, perché Arthur non avrebbe neppure notato che era vestita in modo perfetto. Quando scese le scale e traversò il marciapiede diretta alla vettura con cui Arthur era venuto a prenderla, tenne sollevata la gonna con una grazia – così le piaceva pensare – tutta parigina. Lungo il tragitto, mentre giocherellava con il ventaglio spagnolo, lanciò un’occhiata furtiva nello specchietto. I suoi guanti erano così lunghi, nuovi e costosi, che la mancanza di attenzione di Arthur le era del tutto indifferente. Il suo temperamento gioioso sbocciò come un fiore primaverile quando giunsero all’Opera. Con il binocolo osservò le donne che prendevano posto nei palchi della galleria. Arthur le indicò un certo numero di persone dai nomi familiari, ma era chiaro che si sforzava di essere cordiale. Quella folla spensierata rendeva ancor più evidente la piega stanca della sua bocca. Ma quando attaccò la musica, egli parve dimenticare che qualcuno lo stava osservando e allentò la tensione costante alla quale si costringeva. Susie, guardandolo di nascosto, vide le emozioni passare veloci sul suo volto, adesso assai mutevole. I suoni appassionati gli divoravano l’anima, mescolandosi al suo amore e al suo dolore, fino a strapparlo a se stesso; a tratti aveva un respiro strano, affannoso. Durante l’intervallo rimase immerso nella sua emozione. Sedeva tranquillo come prima, senza dire una parola. Susie comprese per quale motivo Arthur, nonostante l’indifferenza di un tempo, ora apprezzasse tanto la musica: essa alleviava il suo dolore, trasportandolo in un mondo ideale. E la sua pena atroce rendeva la musica talmente reale che egli poteva goderne con straordinaria intensità. Quando tutto fu finito, e Isotta ebbe esalato il suo ultimo gemito di dolore, Arthur era talmente esausto che quasi non riusciva a muoversi. Uscirono tra la folla e nell’atrio, mentre attendevano di poter procedere, furono raggiunti da un amico comune. Era Arbuthnot, un oculista che Susie aveva incontrato sulla Riviera e che, come scoprì in quel momento, era collega di Arthur al St. Luke. Era un ricco scapolo, con i capelli brizzolati e il volto rubizzo, soddisfatto; la sua attività rendeva bene ed egli spendeva volentieri il suo denaro. Aveva portato Susie a cena fuori un paio di volte, a Montecarlo. Amava le donne, graziose o scialbe che fossero, e il buonumore di lei lo attraeva. Li raggiunse a passo svelto e strinse loro le mani. Parlava con voce gioviale. «Proprio voi volevo incontrare! Perché non è venuta a trovarmi, cattivella? Sono certo che i suoi occhi sono in condizioni deplorevoli». «Crede forse che permetterei a un uomo intraprendente e perfido come lei di scrutarmi attraverso un oftalmoscopio?» rise Susie. «Statemi bene a sentire, devo chiedervi un grosso favore. Offro una cena al Savoy e due miei commensali hanno improvvisamente disdetto l’invito. Il tavolo è già prenotato per otto, dovete assolutamente venire al posto loro». «Spiacente, ma devo tornare a casa» disse Arthur. «Ho un sacco di lavoro da sbrigare». «Sciocchezze» rispose Arbuthnot. «Lavori troppo, e un po’ di svago ti farà bene». Si voltò verso Susie: «So che a lei interessano le bizzarrie della natura umana: a cena con noi ci saranno un uomo e sua moglie, sono certo che la entusiasmeranno, tanto sono originali; ci saranno anche un’attrice incantevole e una ragazza americana simpaticissima». «Mi piacerebbe molto venire» disse Susie, lanciando uno sguardo supplichevole ad Arthur. «Se non altro per dimostrarle che sono molto più divertente delle attrici incantevoli». Arthur, sforzandosi di sorridere, accettò l’invito. Il collega gli dette un’allegra pacca sulle spalle e si accordarono per vedersi al Savoy. «È stato davvero gentile ad accettare» disse Susie, mentre si dirigevano al ristorante. «Sa, non ci sono mai stata in vita mia, e non mi par vero». «Che egoista sono stato a rifiutare!» rispose lui. Quando Susie, di ottimo umore, uscì dal guardaroba del Savoy, trovò Arthur ad aspettarla. «Ora la prego di dire che le piace il mio abito. Sei donne sono diventate verdi d’invidia quando l’hanno visto. Penseranno che io sia francese e che non sia una ragazza perbene». «È proprio un bel complimento» sorrise lui. In quel momento Arbuthnot li raggiunse, e con fare espansivo li prese sottobraccio. «Venite, vi stanno aspettando. Vi presento a tutti e poi andiamo a cena». Scesero i gradini che portavano nell’atrio, ed egli li guidò verso un gruppo di persone. Si ritrovarono faccia a faccia con Oliver Haddo e Margaret. «Il dottor Arthur Burdon, Mrs Haddo. Il dottor Burdon è un mio collega al St. Luke. Le toglierà l’appendice in un baleno, nessuno è più veloce di lui». Arbuthnot continuava a blaterare e non si accorse che Arthur era diventato bianco come un lenzuolo e Margaret era costernata. Haddo, il volto pesante tutto sorrisi, fece un passo avanti con aria cordiale. Sembrava divertirsi moltissimo. «Il dottor Burdon è un nostro vecchio amico» disse. «Anzi, è stato proprio lui a farmi conoscere mia moglie. E Miss Boyd e io abbiamo discusso di arte e dell’immortalità dell’anima con la serietà dovuta a tali argomenti». Tese la mano e Susie gliela strinse. Le scenate le facevano orrore e, per quanto inatteso e sgradevole fosse quell’incontro, sentiva che era necessario comportarsi con naturalezza. Poi strinse la mano a Margaret. «Che disdetta!» esclamò il loro ospite. «Speravo di far scoprire a Miss Boyd qualcosa di nuovo sui maghi e invece, guardi un po’, sa già tutto di lei!». «Se davvero sapesse tutto, sono certo che non mi rivolgerebbe la parola» disse Oliver con un sorriso beffardo. Entrarono nella sala da pranzo. «Dunque, come vogliamo disporci?» disse Arbuthnot dando un’occhiata alle sedie attorno al tavolo. Oliver guardò Arthur con gli occhi che brillavano. «Senza dubbio mia moglie deve sedere accanto al dottor Burdon. Non si vedono da molto tempo e sono certo che avranno tantissime cose di cui parlare». Sogghignò tra sé. «E vi prego, lasciatemi a Miss Boyd, così potrà punzecchiarmi quanto vuole». La disposizione incontrò la piena approvazione dell’allegro oculista, che così avrebbe potuto sedere tra la bella attrice e l’affascinante americana. Si fregò le mani. «Sento che sarà una cena indimenticabile». Oliver rise fragorosamente. Come d’abitudine monopolizzò la conversazione, e Susie dovette ammettere che era al suo meglio. Il suo umorismo grottesco era molto divertente, ed era quasi impossibile resistergli. Mangiò e bevve con incredibile appetito. Susie ringraziò la sua buona stella di essere una donna che, per lunga pratica, sapeva come nascondere i suoi sentimenti; Arthur, al contrario, annichilito dallo sgomento, sedeva in un silenzio di tomba. Susie chiacchierava allegramente. Si prendeva gioco di Oliver come se fosse un vecchio amico, e rideva con vivacità. Notò che Haddo, vestito in modo più stravagante del solito, era riuscito a dare un tocco di estrosità al suo abito da sera. Portava pantaloni alla zuava, di per sé sufficienti a destare l’attenzione, ma la camicia con jabot, il colletto di velluto e il panciotto in raso dalla foggia inconsueta gli conferivano l’aria di un francese un po’ ridicolo. Guardandolo più da vicino, Susie notò che negli ultimi sei mesi si era fatto più calvo, e il lucido pallore della testa nuda contrastava in modo bizzarro con il rossore del volto. Era anche più massiccio, e il grasso gli ricadeva in pieghe pesanti sotto il mento. Il ventre era prominente. La vivacità con cui si muoveva rendeva vagamente allarmante la sua straordinaria corpulenza. Il suo aspetto stava diventando terribile. Gli occhi avevano ancora quello sguardo fisso, parallelo, ma ora vi si coglieva, talvolta, un lampo di ferocia; Margaret era bella come sempre, ma Susie notò che l’influenza del marito si notava soprattutto nel modo di vestire; il suo abbigliamento aveva ormai varcato i limiti del gusto personale, degenerando nell’eccentricità. La gonna era decisamente troppo vistosa, e inadatta alla sua bellezza classica. Susie rabbrividì, poiché le rammentava l’abito di una cortigiana. Margaret parlava e rideva come il marito, ma Susie non capiva se tanta animazione fosse affettata o se dipendesse da un’assoluta insensibilità. La sua voce sembrava abbastanza naturale, eppure era inconcepibile che riuscisse a comportarsi con tanta leggerezza. Forse cercava di dare a vedere che era felice. La cena procedeva, e le luci, l’atmosfera gaia, lo champagne resero tutti più vivaci. Arbuthnot era spassosissimo. Raccontò un paio di storielle che fecero ridere tutti. Oliver Haddo sfoderò un aneddoto divertente. Era un po’ spinto, ma lo raccontò talmente bene che tutti risero di cuore, tranne Arthur, che rimase in silenzio assoluto. Margaret aveva bevuto un bicchiere di vino dopo l’altro e, appena suo marito ebbe finito, colmò la misura raccontando a sua volta una storiella. Ma mentre quella di lui era spiritosa e immorale, la sua era semplicemente volgare. In un primo momento le altre donne non riuscirono a capire dove volesse andare a parare, ma quando se ne resero conto abbassarono gli occhi sul piatto, imbarazzate. Gli uomini risero di cuore, tranne Arthur, che arrossì fino alla radice dei capelli. Si sentiva terribilmente a disagio. Si vergognava. Non osava guardare Margaret. Era inconcepibile che dalla sua bocca squisita potessero uscire tante indecenze. Margaret, che pareva non rendersi conto dell’effetto che aveva prodotto, continuò a parlare e a ridere. Dopo un po’ si abbassarono le luci e l’agonia di Arthur ebbe fine. Voleva fuggire, nascondere il volto, dimenticare la vista di quella donna e la sua allegria. Soprattutto dimenticare quella storiella. Era stato orribile, orribile. Lei gli strinse la mano con disinvoltura. «Vieni a trovarci, uno di questi giorni. Alloggiamo al Carlton». Egli fece un inchino, senza rispondere. Susie si era diretta al guardaroba per riprendere il mantello. Era sulla porta quando Margaret uscì dalla sala. «Possiamo accompagnarti da qualche parte?» disse Margaret. «Devi venire a trovarci quando non hai niente di meglio da fare». Susie accennò con la testa ad Arthur, lì davanti a loro con lo guardo basso, completamente assente. «Lo vedi?» disse a voce bassa, tremando per l’indignazione. «Ecco come lo hai ridotto». In quel momento egli alzò lo sguardo e rivolse loro i suoi occhi infossati, tormentati. Esse videro il volto emaciato, pallido, con quell’espressione disperata di dolore. «Lo sai che si sta uccidendo per colpa tua? Non dorme la notte. Ha sofferto le pene dell’inferno. Oh, spero che tu possa soffrire quanto ha sofferto lui». «Mi stupisce che tu mi rimproveri» disse Margaret. «Dovresti essermi grata». «Perché?». «Non vorrai negare che lo ami appassionatamente dal primo giorno in cui l’hai visto? Credi forse che a Parigi non mi sia accorta di quel che provavi per lui? E anche adesso, lo ami più che mai». Susie sentì un’improvvisa stretta al cuore. Non immaginava che il suo segreto fosse stato scoperto. Margaret scoppiò in una risata amara e se ne andò. 12 Arthur Burdon trascorse due o tre giorni in uno stato di estrema incertezza, ma alla fine l’idea che aveva in mente si fece così pressante da mettere a tacere tutte le sue obiezioni. Andò al Carlton e chiese di Margaret. Aveva saputo dal portiere che Haddo era uscito, e contava quindi di trovarla da sola. Con un semplice artificio evitò di farsi annunciare. Quando venne introdotto nella sua stanza, trovò Margaret seduta con le mani in mano. «Mi avevi detto che potevo venire a trovarti» disse Arthur. Lei si alzò senza rispondere e si fece mortalmente pallida. «Posso sedermi?» domandò lui. Gli fece cenno di sì con la testa. Per un attimo si guardarono in silenzio. Arthur d’improvviso dimenticò tutto il discorso che si era preparato. Quell’intrusione gli appariva intollerabile. «Perché sei venuto?» disse lei, quasi aggressiva. Entrambi capivano che era inutile sforzarsi di seguire le convenzioni sociali. Era impossibile scambiare i garbati complimenti che aiutano in una situazione delicata. «Pensavo che forse avrei potuto fare qualcosa per te» rispose lui con tono grave. «Non ho bisogno di nulla. Sono perfettamente felice. Non ho nulla da dirti». Parlava in modo affrettato, con un certo nervosismo, e i suoi occhi fissavano ansiosi la porta, quasi temesse che entrasse qualcuno. «Credo che abbiamo molto da dirci» insistette lui. «Se non è il caso di parlare qui, perché non vieni a trovarmi?». «Lo scoprirebbe» esclamò lei all’improvviso, come se le parole le fossero strappate di bocca. «Credi che sia possibile nascondergli qualcosa?». Arthur la guardò. Il terrore negli occhi di lei lo fece inorridire. Alla piena luce del giorno era chiaro quanto fosse cambiata la sua espressione. Il volto era tirato, contratto; Margaret aveva l’aria tipica di chi è ridotto in soggezione. Arthur distolse lo sguardo. «Voglio che tu sappia che non ti serbo alcun rancore. Nulla di quel che farai potrà mai diminuire l’affetto che provo per te». «Oh, perché sei venuto qui? Perché mi torturi dicendo queste cose?». Scoppiò in un pianto dirotto e prese a camminare nervosamente per la stanza. «Oh, se volevi punirmi per il dolore che ti ho provocato, questo è il momento del tuo trionfo. Susie spera che anch’io soffra le tue stesse pene. Se solo sapesse!». Margaret proruppe in una risata isterica. Cadde in ginocchio davanti ad Arthur e gli prese le mani. «Credeva forse che non me ne fossi accorta? Il mio cuore sanguinava alla vista del tuo povero volto scarno, dei tuoi occhi tormentati. Oh, quanto sei cambiato! Non avrei mai creduto che un uomo potesse mutare a tal punto in pochi mesi, e sono io la causa di tutto. Oh, Arthur, Arthur, devi perdonarmi, devi avere pietà di me!». «Ma non c’è nulla da perdonare, mia cara» esclamò lui. Lei lo guardò con coraggio. Gli occhi le risplendevano di una luce dura. «Tu lo dici, ma non lo pensi davvero. Se sapessi cosa ho sopportato per colpa tua!». Si sforzava di mantenere la calma. «Che vuoi dire?» domandò Arthur. «Lui non mi ha mai amata. Non avrebbe mai pensato a me se non avesse voluto colpirti in ciò che ti era più caro. Ti odiava, e ha fatto di me quel che sono solo per far soffrire te. Non sono stata io ad agire così, ma un demonio dentro di me; non sono stata io a mentirti, a lasciarti, a causare questa immensa infelicità». Si alzò in piedi con un profondo sospiro. «Una volta ho creduto che stesse per morire e l’ho aiutato. L’ho portato nel mio appartamento e gli ho offerto dell’acqua. Con un potere oscuro è riuscito a imporsi su di me, ero come cera nelle sue mani. Mi ha privato della volontà e ora sono costretta a fare tutto ciò che mi ordina. E se cerco di resistere...». Aveva il volto distorto dal dolore e dalla paura. «Dopo ho capito tutto. Ora so che quel giorno, quando sembrava in punto di morte, si stava solo prendendo gioco di me. Si era liberato di Susie con un telegramma, firmato con il nome di una ragazza che aveva visto in fotografia. L’ho sentito ridere senza ritegno per la sua astuzia». D’un tratto Margaret si interruppe e un’espressione di angoscia e di terrore le attraversò il viso. «Per quanto ne so, può anche darsi che io stia dicendo queste cose sotto la sua influenza: potrebbe causarti una sofferenza ancora maggiore facendomi ammettere che non ha mai provato nulla per me. Ora che sai che la mia vita è un inferno, la sua vendetta è completa». «Vendetta per cosa?». «Non ricordi che una volta lo hai colpito, lo hai preso a calci senza pietà? Io lo conosco bene, ormai. Avrebbe potuto ucciderti, ma ti odiava troppo. Per lui è stato un piacere mille volte più grande progettare questa tortura, per te e per me». L’agitazione di Margaret era uno spettacolo penoso. Non aveva mai rivelato quelle cose ad anima viva, e tutto ciò che era stato tanto a lungo trattenuto dilagò, come dilagano le acque da una diga. Arthur cercò di calmarla. «Sei malata, sovraffaticata. Devi cercare di riprenderti. In fondo Haddo è un essere umano, come tutti noi». «Certo, tu hai sempre riso delle sue vanterie. Non volevi ascoltare quello che diceva. Ma io so, anche se non riesco a spiegarlo. Contro ogni buonsenso e ogni probabilità ho visto, con questi occhi, cose che vanno al di là dell’umana comprensione. Ti assicuro, i suoi poteri sono terrificanti. Quel primo giorno, quando sono rimasta sola con lui, mi ha portata a una specie di sabba. Non so di cosa si trattasse, ma ho visto orrori, abietti orrori, che da allora tormentano senza tregua la mia mente, come un veleno; e quando siamo stati a casa sua, nello Staffordshire, ho riconosciuto la scena, ho riconosciuto quelle rocce aride, gli alberi e le grandi distese di terra. Ho compreso di essere già stata lì, in quel pomeriggio fatale. Oh, devi credermi! A volte sono così atterrita che mi sembra di impazzire». Arthur taceva. Quelle parole gli fecero balenare nella mente un tremendo sospetto, e riusciva a stento a controllarsi. Pensò che uno shock doveva averle sconvolto la mente. Margaret nascose il viso tra le mani. «Ascoltami» disse lui. «Devi venire via subito. Non puoi continuare a vivere con lui. Non devi tornare mai più a Skene». «Non posso lasciarlo. Siamo legati, indissolubilmente». «Ma è mostruoso. Nulla può tenerti legata a lui. Torna da Susie. Lei sarà gentile con te. Ti aiuterà a dimenticare tutto quel che hai patito». «Non serve a nulla. Non puoi far niente per me». «Perché no?». «Perché, nonostante tutto, io lo amo con tutta l’anima». «Margaret!». «Lo odio. Mi fa ribrezzo. Eppure qualcosa, nel mio sangue, mi attira verso di lui, contro la mia volontà. E la mia carne lo chiama a gran voce». Arthur distolse lo sguardo, imbarazzato. Non riuscì a frenare un lieve, istintivo moto di repulsione. «Ti disgusto?» domandò lei. Egli arrossì appena, ma non sapeva cosa rispondere. Fece un gesto vago di diniego. «Se solo tu sapessi» disse Margaret. C’era qualcosa di talmente insolito nel suo tono che egli le lanciò uno sguardo sorpreso. Vide che aveva le guance in fiamme, e ansimava quasi stesse per dar sfogo a un fiume di lacrime. «Per l’amor di Dio, non guardarmi!» gridò lei. Si voltò e nascose il viso. Aveva parlato con voce innaturale, piena di vergogna. «Se tu fossi stato a Montecarlo, avresti sentito la gente dire, e Dio solo sa come lo abbia saputo, che era per mio tramite esclusivo che aveva fortuna al tavolo da gioco. Gode nel conquistare al vizio la mia anima. Non c’è purezza in me. Sono immonda nel profondo. Ha fatto di me un pozzo di iniquità e ho schifo di me stessa. Non posso guardarmi senza un brivido di disgusto». Arthur sudava freddo e si fece ancora più pallido. Comprendeva di essere in presenza di un mistero che non poteva risolvere. Margaret continuò, febbrilmente. «L’altra sera, a cena, ho raccontato una storiella e ho visto sul tuo viso una smorfia di vergogna. Non ero io a raccontarla. L’impulso era venuto da lui. Io sapevo che era oscena, eppure l’ho raccontata con gusto. Mi è piaciuto; godevo del dolore che ti davo e dello sgomento di quelle donne. È come se in me ci fossero due persone; il mio vero essere, quello di un tempo, che tu conoscevi e amavi, si va facendo di giorno in giorno più debole e ben presto sarà morto, completamente. Resterà soltanto un’anima lussuriosa in un corpo vergine». Arthur si sforzò di mantenersi lucido. In quella situazione era essenziale conservare una normale visione delle cose. «Ma per l’amor di Dio, lascialo! Quel che mi hai raccontato ti offre ogni appiglio per il divorzio. È aberrante. Quell’uomo deve essere matto, da ricovero». «Tu non puoi fare nulla per me» disse lei. «Ma se non ti ama, perché ti vuole?». «Non lo so, ma comincio a sospettarlo». Margaret fissò Arthur negli occhi. Adesso era perfettamente calma. «Credo che voglia usarmi per una pratica magica. Non so se sia pazzo, ma credo abbia intenzione di fare qualche esperimento orribile e ha bisogno di me. E questa è la mia salvezza». «La tua salvezza?». «Non mi uccide perché gli servo per quell’esperimento. Forse, col tempo, riconquisterò la mia libertà». Arthur era sconvolto dall’indifferenza con cui lei parlava. Le si avvicinò e le mise le mani sulle spalle. «Ascoltami, Margaret, devi tornare in te. Questa è follia. Se non stai attenta, la tua mente cederà. Devi venire via con me, adesso. Quando non sarai più in mano sua, ritroverai la serenità. Non devi più vederlo. Se hai paura, potrai restare nascosta; penseranno gli avvocati a regolare ogni cosa tra voi». «Non ne ho il coraggio». «Ma io ti prometto che non te ne verrà alcun male. Sii ragionevole. Siamo a Londra, c’è gente ovunque intorno a noi. Come puoi pensare che possa farti qualcosa mentre attraversiamo in vettura delle strade affollate? Ti porterò direttamente da Susie. Tra una settimana riderai di queste tue inutili paure». «E chi ti dice che non sia in questa stanza, proprio adesso, e che non stia ascoltando tutto quello che dici?». La domanda fu così improvvisa, così inaspettata, che Arthur trasalì. Si guardò rapidamente attorno. «Devi essere pazza. Lo vedi anche tu che questa stanza è vuota». «Ma se ti dico che non conosci tutti i suoi poteri! Hai mai sentito quelle antiche leggende che le balie usavano per spaventare i bambini, di uomini che si trasformano in lupi e scorrazzano per la campagna di notte?». Lo guardò con gli occhi sbarrati. «A volte, quando al mattino rientrava a Skene con gli occhi iniettati di sangue, esausto per la fatica e con gli abiti in disordine, ho immaginato che anche lui...». Si interruppe e rovesciò la testa all’indietro. «Hai ragione, Arthur. Credo che impazzirò». Egli la guardò, impotente. Non sapeva cosa fare. Margaret continuò, con la voce che tremava per l’angoscia. «Quando ci siamo sposati, gli ho ricordato che aveva promesso di portarmi da sua madre. Non ne parlava mai, ma sentivo che dovevo conoscerla. Un giorno, senza preavviso, mi disse di prepararmi per un viaggio. Fu un viaggio lungo, verso un luogo che non conoscevo. Traversammo la campagna. Mi sembrò di procedere per chilometri e chilometri, finché arrivammo a una grande casa con le sbarre alle finestre, circondata da un alto muro. Fummo introdotti in uno stanzone disadorno. Era squallido e freddo come la sala d’attesa di una stazione. Ci venne incontro un uomo alto, con una redingote e gli occhiali cerchiati d’oro. Mi fu presentato come il dottor Taylor. Allora, d’un tratto, capii». Margaret parlava ansimando, con gli occhi sbarrati, come se rivedesse quella scena che all’epoca le era sembrata il culmine di tutti gli orrori vissuti. «Capii che era un manicomio; Oliver non mi aveva mai detto una sola parola. Il dottore ci guidò per un ampio scalone, lungo un grande dormitorio – oh, se solo sapessi cosa ho visto lì! Ero terrorizzata, non ero mai stata in un luogo simile –, fino a una cella con le pareti e il pavimento imbottiti». Margaret si passò la mano sulla fronte, come a scacciare il ricordo di quella visione orrenda. «Oh, ancora la vedo. Non riesco a togliermela dalla mente». Ricordava con vivezza morbosa la strana massa informe in un angolo della cella. Quando entrarono si mosse appena e Margaret capì che si trattava di un essere umano. Era una donna vestita di tela di sacco, alta e di una corpulenza eccessiva, rivoltante. Volse verso di loro un viso enorme, impassibile; era liscio, privo di rughe, con un’aria di fanciullezza atrofizzata. I capelli erano scarmigliati, grigi, radi. Ma quel che più terrorizzò Margaret fu la spaventosa somiglianza con Oliver. «Mi disse che era sua madre, e che era lì da venticinque anni». Arthur trovava quasi insopportabile il terrore che scorgeva negli occhi di Margaret. Non sapeva cosa dirle. Dopo un po’, lei riprese a parlare a bassa voce, rapidamente, come a se stessa, torcendosi le mani. «Oh, tu non sai cosa ho patito! Passava lunghi periodi lontano da me e io restavo sola a Skene, sola, dal mattino alla sera, con la mia miserevole paura. Talvolta sembrava prenderlo un irrefrenabile gusto per i bassifondi e se ne andava a Liverpool o a Manchester per confondersi con gente della peggior risma. Passava giornate intere a bere in luride bettole. In quei momenti niente era troppo abietto per lui. Amava la compagnia dei criminali di bassa lega, fumava oppio in fetide tane! Oh, non hai idea di quanto ami la depravazione! Alla fine tornava, sporco, con gli abiti a brandelli, insozzato, intriso delle prolungate gozzoviglie; e la sua bocca era ancora calda dei baci delle donnacce del porto. Oh, è così crudele quando è vittima di questi attacchi! Credo che provi un piacere demoniaco nel vedere gli altri soffrire». Era più di quanto Arthur potesse sopportare. La sua mente si decise a un passo ardito. Vide sul tavolo una bottiglia di whisky e dei bicchieri. Versò un po’ di liquore in un bicchiere e lo porse a Margaret. «Bevi» disse. «Che cos’è?». «Non ti preoccupare! Bevi subito». Obbediente, lei lo portò alle labbra. Arthur le rimase vicino mentre vuotava il bicchiere. Un calore improvviso la pervase. «Ora vieni con me». La prese per un braccio e la guidò giù per le scale. Attraversarono a passo svelto l’atrio. Una vettura si era appena fermata davanti alla porta ed egli le ordinò di salire. Un paio di persone trasecolarono nel vedere una donna uscire dall’albergo con un ampio abito da pomeriggio e senza cappello. Arthur dette al conducente l’indirizzo di casa di Susie e si voltò verso Margaret. Era svenuta appena entrata nella vettura. Quando arrivarono, la prese in braccio per portarla di sopra e la adagiò su un divano. Raccontò a Susie cosa era successo e cosa voleva da lei. Quella cara donna dimenticò ogni cosa, tranne che Margaret era molto malata, e gli assicurò che avrebbe fatto tutto ciò che egli desiderava. Per una settimana Margaret non fu in grado di viaggiare. Arthur affittò un piccolo cottage nell’Hampshire, davanti all’isola di Wight, sperando che in quello scenario, tra i più ameni e incantevoli d’Inghilterra, ella avrebbe presto recuperato le forze. E, non appena fu possibile, Susie l’accompagnò. Ma era molto mutata. La sua gaiezza era scomparsa, e con essa la determinazione. Benché la sua malattia non fosse stata né lunga né grave, Margaret sembrava esaurita, fisicamente e mentalmente, come se per mesi fosse stata in punto di morte. Non provava alcun interesse per ciò che la circondava, ed era indifferente ai vialetti ombrosi, agli alberi così leggiadri, ai prati. La sua antica passione per la bellezza era scomparsa, e non si curava né dei fiori che crescevano nel loro piccolo giardino, né degli uccelli che cantavano senza posa. A un certo punto sembrò giunto il momento di parlare del futuro. Margaret accettava tutto quel che le veniva suggerito e fu d’accordo sui passi da intraprendere per liberarsi da Oliver Haddo. Apparentemente egli non fece alcun tentativo di rintracciarla. Non avevano sue notizie. Non sapeva dove fosse Margaret, ma doveva aver intuito che il responsabile della sua fuga era Arthur. E Arthur era facile da scovare. Susie trovava vagamente inquietante che Haddo non desse segni di vita. Avrebbe voluto che Arthur non fosse trattenuto a Londra dal suo lavoro. Alla fine, la causa di divorzio fu istruita. Due giorni dopo, mentre era in ambulatorio, Arthur si vide consegnare il biglietto da visita di Haddo. La sua mascella si indurì. «Lo faccia entrare» ordinò. Quando Haddo fece il suo ingresso, Arthur, con le spalle al camino, gli fece cenno di sedersi. «Cosa posso fare per lei?» gli chiese freddamente. «Mio caro Burdon, non sono venuto per avvalermi delle sue doti di chirurgo» sorrise Haddo, lasciandosi cadere pesantemente su una poltrona. «Lo immaginavo». «La sua perspicacia mi stupisce. Suppongo di dovere a lei questa divertente convocazione che mi è stata consegnata ieri». «L’ho fatta entrare solo per dirle che non parlerò con lei se non per tramite dei miei avvocati». «Mio caro amico, perché mi tratta con tanta scortesia? È vero che lei mi ha privato della mia sposa adorata, ma quanto meno potrebbe rispettare i miei diritti di marito e trattarmi con civiltà». «La mia pazienza non è più quella di un tempo» rispose Arthur. «Mi permetto di rammentarle che soltanto una volta ho perso il controllo con lei, e non credo ne abbia gradito le conseguenze». «Suvvia, Burdon, pensavo che ormai fosse pentito di quell’episodio» rispose Haddo, per nulla imbarazzato. «Ho poco tempo a disposizione» disse Arthur. «Allora vengo al punto, senza indugio. Le interesserà sapere che intendo presentare un ricorso contro mia moglie e citarla come corresponsabile». «Infame mascalzone!» gridò Arthur, furioso. «Lei sa bene quanto me che sua moglie è al di sopra di ogni sospetto!». «Io so che ha lasciato il mio albergo in sua compagnia, e che da quel momento vive sotto la sua protezione». Arthur si fece livido per la rabbia; si tratteneva a stento dal colpirlo. Scoppiò in una risatina. «Può fare quel che vuole. Non mi spaventa». «Gli innocenti sono sempre così incauti. Le assicuro che inventerò una storia che le rovinerà la carriera e la costringerà a rinunciare agli incarichi nei vari ospedali che onora della sua collaborazione». «Lei dimentica che il caso non viene giudicato pubblicamente» disse Arthur. Haddo lo guardò fisso negli occhi. Per un momento non rispose. «Ha ragione» disse infine con un sorrisetto. «L’avevo dimenticato». «Quindi, non credo di doverla trattenere oltre». Oliver Haddo si alzò e, con fare pensoso, si passò la mano sul volto enorme. Arthur lo osservò con occhi sprezzanti. Sfiorò un campanello, e apparve immediatamente una domestica. «Accompagni fuori il signore». Per nulla sconcertato, Haddo si diresse tranquillamente verso la porta. Arthur tirò un sospiro di sollievo; era giunto alla conclusione che Haddo non avrebbe dato battaglia. Secondo il suo avvocato Oliver non avrebbe nemmeno provato a difendersi. Margaret sembrava lentamente interessarsi sempre più alla causa e non vedeva l’ora di tornare libera. Non indietreggiava dinanzi alla spiacevole prova di un processo. Ora parlava di Haddo con compostezza. I suoi amici si convinsero che di lì a breve sarebbe tornata quella di un tempo, perché andava facendosi più forte, più allegra. La sua risata incantevole echeggiava per la casetta, proprio come nell’appartamento di Parigi. L’udienza era fissata per la fine di luglio, prima delle vacanze, e Susie aveva accettato di portare Margaret all’estero, alla fine di tutto. Ma, improvvisamente, vi fu in Margaret un cambiamento. Con l’avvicinarsi del processo, si faceva più emotiva, turbata; la sua gaiezza l’aveva abbandonata. Cadeva in lunghi, umorali silenzi. Tutto ciò era in parte comprensibile, giacché avrebbe dovuto rivelare a degli estranei i dettagli più intimi della sua vita coniugale, ma alla fine il suo nervosismo divenne talmente evidente che Susie non poté più attribuirlo a cause naturali. Ritenne necessario scrivere ad Arthur per informarlo. «Mio caro Arthur, «non so proprio come comportarmi con Margaret. Vorrei che venisse a trovarla. Il buonumore che ultimamente avevo notato in lei ha lasciato il posto a una strana irritabilità. È talmente inquieta che non riesce a star ferma un attimo. Anche quando è seduta, il suo corpo si muove in modo quasi convulso. Comincio a pensare che la tensione le abbia procurato qualche disturbo nervoso e sono davvero allarmata. Vaga per la casa senza uno scopo, sale e scende le scale, va e viene dal giardino. Si è fatta improvvisamente più silenziosa e le è tornata negli occhi quell’espressione che aveva quando l’abbiamo portata qui. Se la prego di dirmi cosa la turba, risponde: “Ho paura che stia per accadere qualcosa”, ma non vuole, o non sa, spiegare cosa intende dire. Le ultime settimane mi hanno logorato i nervi e ora non capisco quanto quel che noto sia reale, e quanto frutto della mia fantasia. Ma vorrei che lei venisse a infondermi un po’ di coraggio. La stranezza di questa situazione mi mette a disagio e sono presa da timori incontrollabili. Deve esserci qualcosa in Haddo che mi ispira questa indicibile paura. È sempre presente nei miei pensieri. Mi pare di vedere i suoi occhi spaventosi e quel suo sorriso freddo, sensuale. Mi sveglio di notte con il cuore che batte come impazzito e la consapevolezza che sia accaduto qualcosa di terribile. «Oh, vorrei tanto che il processo fosse terminato e che io e Margaret fossimo già, felici, in Germania. Con affetto, Susan Boyd». Susie andava orgogliosa del suo buonsenso e la umiliava scoprirsi con i nervi a pezzi. Era preoccupata e infelice. Non era stato facile riammettere Margaret nel suo cuore, come se nulla fosse accaduto. Susie era un essere umano e, sebbene facesse molto più di quel che era logico aspettarsi da lei, provava una punta di irritazione per il fatto che Arthur la sacrificasse con tanta disinvoltura. In lui non c’era spazio per altri pensieri e gli pareva del tutto naturale che Susie dovesse dedicarsi totalmente al benessere di Margaret. Susie fece un po’ di strada per imbucare la lettera, poi rientrò nella sua stanza. Era una serata meravigliosa, stellata e tranquilla, e il silenzio era un balsamo per le sue afflizioni. Rimase a lungo seduta alla finestra e infine, rasserenata, andò a letto. Dormì più profondamente di quanto non le accadeva da giorni. Quando si risvegliò, il sole inondava la stanza e lei tirò un profondo sospiro di piacere. Dal letto vedeva gli alberi e il cielo azzurro. Sembrava più facile sopportare le preoccupazioni, quando il mondo era così bello, ed era pronta a ridere dei timori che tanto l’avevano turbata. Si alzò, indossò una vestaglia e andò nella stanza di Margaret. Era vuota. Nel letto non aveva dormito nessuno, e sul cuscino c’era un biglietto. «Basta. Non ce la faccio. Sono tornata da lui. Non preoccupatevi più di me. È tutto inutile. La situazione è senza speranza. M». Susie rimase senza fiato. Il suo primo pensiero andò ad Arthur; emise un gemito di dolore perché sarebbe di nuovo precipitato nell’angoscia e nella desolazione. Ancora una volta toccava a lei dargli quella terribile notizia. Si vestì in fretta e fece una rapida colazione. Non c’erano treni fin quasi alle undici e doveva frenare la sua impazienza come meglio poteva. Alla fine, giunta l’ora della partenza, infilò i guanti. In quel momento la porta si aprì ed entrò Arthur. Susie lanciò un grido di terrore e impallidì. «Stavo giusto per venire a Londra da lei» disse con voce spezzata. «Come l’ha scoperto?». «Stamattina presto Haddo mi ha mandato una scatola di cioccolatini con un biglietto: “Credo proprio che lo scherzetto sia opera mia”». Il gusto crudele per la vendetta, unito alla passione infantile di prendersi gioco del nemico sconfitto, era una sua caratteristica. Susie consegnò ad Arthur il biglietto trovato nella stanza di Margaret. Egli lo lesse, e rimase a lungo pensoso. «Temo che Margaret abbia ragione» disse alla fine. «È una situazione senza speranza. Quell’uomo ha su di lei un potere misterioso che noi non possiamo contrastare». Susie si domandò se Arthur non stesse perdendo il suo radicato scetticismo. La sensazione che il controllo di Oliver su Margaret avesse qualcosa di soprannaturale le era insopportabile. Non c’era ombra di dubbio che egli potesse influenzare la moglie anche da lontano e ormai Susie era convinta che l’inquietudine degli ultimi giorni dipendesse da questo misterioso potere. In qualche strano modo, egli aveva agito e Margaret se ne era resa conto. Alla fine non aveva potuto resistere e d’istinto era andata da lui: la sua volontà non c’entrava nulla, come quando un frammento di ferro viene attirato da una calamita. «Non trovo nel mio cuore nessuna ragione per incolparla di ciò che ha fatto» disse Susie. «Credo sia vittima di un destino infausto. Non posso fare a meno di credere che egli le abbia fatto un incantesimo e che tutto quel che è accaduto dipenda da questo. Provo solo pietà per la sua grande sventura». «Ma ha pensato a quel che accadrà quando sarà nelle mani di Haddo?» esclamò Arthur. «Lei sa quanto me come possa essere vendicativo e crudele. Mi sanguina il cuore quando penso alle torture, vere torture fisiche, che potrà patire». Andava avanti e indietro, in preda alla disperazione. «Eppure non c’è nulla da fare, non si può andare alla polizia e raccontare che un uomo ha fatto un incantesimo a sua moglie». «Allora ci crede anche lei?» disse Susie. «Ormai non so più a cosa credere» esclamò lui. «Dopotutto, siamo impotenti se lei decide di tornare da suo marito. Almeno in apparenza è padrona di se stessa». Si torceva le mani. «E io sono bloccato a Londra, non posso assentarmi neanche per un giorno. Non dovrei essere qui, in questo momento, e tra un paio d’ore dovrò ripartire. Non posso far nulla, anche se ho la certezza che Margaret stia correndo un tremendo pericolo». Susie rimase in silenzio per un paio di minuti. Si chiedeva come avrebbe preso l’idea che le era venuta in mente. «Sa, credo che i metodi ordinari siano inutili. L’unica speranza è lottare contro di lui con le sue stesse armi. Le dispiacerebbe se andassi a Parigi per consultare il dottor Porhoët? Lei sa che è esperto di scienze occulte, e forse potrebbe aiutarci». Ma Arthur si ricompose. «È assurdo. Non dobbiamo lasciar spazio alla superstizione. Haddo è semplicemente un mascalzone e un ciarlatano. Ci ha logorato i nervi, come ha logorato quelli della povera Margaret. È illogico supporre che abbia poteri superiori a quelli della gente comune». «Nonostante tutto ciò che ha visto con i suoi occhi?». «Se i miei occhi mi mostrano cose che la mia esperienza ritiene impossibili, posso soltanto dedurne che i miei occhi mi stanno ingannando». «Bene, io vado a Parigi». 13 Alcune settimane dopo il dottor Porhoët era seduto tra i suoi libri, nella tranquilla stanza dal soffitto basso che dava sulla Senna. Si era abbandonato a una piacevole malinconia. Il caldo opprimeva le strade rumorose di Parigi, e il frastuono della metropoli penetrava persino nella sua fortezza sull’Île SaintLouis. Ripensava al cielo plumbeo della sua terra natia, e al vento di sud-ovest che soffiava fresco e salmastro. Le lunghe strade di Brest, sempre stillanti di pioggia nella sua fantasia, con le luci dei caffè che si riflettevano sui marciapiedi bagnati, avevano un fascino familiare. Persino con il brutto tempo si provava un curioso senso di consolazione vedendo i marinai camminare stancamente. C’era un gusto speciale nell’odore del mare, nella libertà dell’immenso Atlantico. E poi egli pensò ai sentieri erbosi, ai campi di erica profumata, alle belle strade ampie che collegavano le dolci cittadine, ai pardons con le loro folle garbate, tristi. Il dottor Porhoët sospirò. «È bello essere nati in Bretagna» sorrise. La sua bonne fece entrare Susie ed egli si alzò, andandole incontro con un sorriso. Susie era a Parigi da qualche tempo e si vedevano spesso. Il dottore si crogiolava nell’amabile simpatia con cui ella si interessava a tutte quelle materie astruse e bizzarre alle quali egli dedicava il suo tempo; e, intuendo l’amore di lei per Arthur, ammirava il coraggio con cui annullava se stessa. Avevano preso l’abitudine di mangiare insieme in un posticino tranquillo di fronte all’Hôtel de Cluny, La Reine Blanche. Lì avevano parlato di così tante cose che la loro conoscenza si era trasformata in una piacevole amicizia. «Mi vergogno un po’ di venire qui tanto spesso» disse Susie entrando. «Matilde comincia a guardarmi con sospetto». «Lei è molto buona a far compagnia a un vecchio noioso» sorrise lui, tendendole la mano. «Sarei stato contrariato se avesse dimenticato la promessa di venire questo pomeriggio, perché ho molte cose da dirle». «Me le dica subito» disse lei, sedendosi. «Stamattina, alla biblioteca dell’Arsenal, ho scoperto un manoscritto di cui nessuno sapeva nulla». Pronunciò queste parole con aria trionfante, come se l’impresa fosse d’importanza nazionale; Susie provava tenerezza per questa sua innocente mania e, pur sapendo che l’opera in questione era occulta e incomprensibile, si congratulò di cuore con lui. «È la copia originale di un’opera di Paracelso; non l’ho ancora letta, perché la scrittura è molto difficile da decifrare, ma un punto ha catturato la mia attenzione mentre la sfogliavo: il particolare raccapricciante che Paracelso nutrisse gli homunculi da lui creati con sangue umano. Chissà come se lo procurava». Il dottor Porhoët notò che Susie trasaliva. «Che le succede?». «Nulla» si affrettò a rispondere lei. Egli la guardò per un attimo, poi riprese quel discorso che esercitava su di lui un fascino oscuro. «Un giorno deve venire con me alla biblioteca dell’Arsenal. Non esiste al mondo collezione più ricca di libri sulle scienze occulte. E, naturalmente, lei saprà che all’Arsenal si riuniva il tribunale, dal suggestivo nome di Chambre ardente, che trattava i casi di stregoneria e magia». «Lo ignoravo» sorrise Susie. «Ho sempre pensato che questi manoscritti e questi strani libri antichi, orgoglio della nostra biblioteca, siano serviti all’epoca in più di un processo. Ci sono volumi dall’aspetto innocente che hanno fatto impiccare uomini sventurati, e altri ne hanno mandati al rogo. Non crederebbe mai quante persone facoltose, di rango e intelligenza, durante il grande regno di Luigi XIV, si dedicarono a questi esperimenti diabolici». Susie non rispose. Ormai le era impossibile affrontare con indifferenza quegli argomenti. Tutto poteva avere una qualche attinenza con le circostanze di cui aveva discusso innumerevoli volte con il dottor Porhoët. Non era mai riuscita a inchiodarlo a una dichiarazione di fede. Erano manifestamente accadute alcune cose strane, ma egli si limitava a spiegarle con queste parole: chi può dirlo? Le offriva paragoni tratti dalla sua ricca memoria. Le dava libri da leggere, finché fu satura di scienze occulte. In certi momenti era quasi pronta a buttarli via tutti, spazientita; in altri, era disposta a credere che fosse tutto possibile. Il dottor Porhoët si alzò in piedi e sollevò un dito, con aria meditabonda. Parlava con quel piacevole tono accademico che nei primi tempi della loro conoscenza l’aveva affascinata, perché contrastava assurdamente con le sue fantasiose affermazioni. «Era uno strano sogno quello inseguito da questi maghi. Volevano farsi amare da chi amavano e vendicarsi di chi odiavano; ma, soprattutto, cercavano di diventare più grandi degli uomini comuni e di esercitare il potere degli dèi. Non esitavano davanti a nulla pur di raggiungere il loro scopo, ma la natura difficilmente consente che le siano strappati i suoi segreti. Invano essi accendevano le loro fornaci, e invano studiavano i loro astrusi libri, richiamavano i morti ed evocavano gli spiriti. Altra ricompensa non avevano se non disappunto e sventura, povertà, spregio da parte degli uomini, tortura, prigionia e una morte ignominiosa. Eppure, in fondo, potrebbe esserci qualche frammento di verità celato nel buio». «Lei non va mai oltre quel che la cautela consente» disse Susie. «Non esprime mai un’opinione precisa». «In simili questioni è sempre meglio non avere un’opinione definita» sorrise lui stringendosi nelle spalle. «Se un saggio studia le scienze occulte, è suo dovere non ridere di nulla, ma cercare con pazienza, senza fretta, con perseveranza, la verità che può nascondersi nella tenebra di queste illusioni». Aveva appena pronunciato queste parole che Matilde, la vecchia bonne, aprì la porta per far entrare un visitatore. Era Arthur Burdon. Susie emise un’esclamazione di sorpresa, perché un paio di giorni prima aveva ricevuto da lui un breve biglietto in cui non faceva parola dell’intenzione di attraversare la Manica. «Sono contento di trovarvi qui tutti e due» disse Arthur, mentre stringeva loro la mano. «È successo qualcosa?» esclamò Susie. I suoi modi erano insolitamente inquietanti, e i suoi movimenti rivelavano un nervosismo inatteso in una persona tanto controllata. «Ho rivisto Margaret» disse. «Ebbene?». Sembrava incapace di proseguire, eppure entrambi sapevano che aveva qualcosa di importante da dire. Li guardò con aria assente, come se d’un tratto avesse dimenticato tutto quello che doveva dire. «Sono venuto direttamente qui» disse con tono frastornato, piatto. «Prima sono passato al suo albergo, Susie, sperando di trovarla; ma quando mi hanno detto che era uscita, ho capito che l’avrei certamente trovata qui». «Mi sembri esausto, cher ami» disse il dottor Porhoët, guardandolo. «Permetti che Matilde ti porti una tazza di caffè?». «Sì, gradirei qualcosa» rispose lui con un’espressione di profondo sfinimento. «Accomodati e riposa per qualche minuto, poi ci dirai quel che vuoi». Il dottor Porhoët non vedeva Arthur dall’anno precedente, da quel pomeriggio in cui, a seguito del telegramma di Haddo, si era recato nell’appartamento di rue Campagne-Première. Lo scrutò, ansioso, mentre beveva il caffè. Il cambiamento avvenuto in lui era straordinario; c’era sul suo volto una prostrazione mortale, gli occhi erano infossati nelle orbite. Ma quel che più allarmò il buon dottore fu il fatto che la personalità di Arthur sembrava completamente alterata. Le sofferenze patite in quei nove mesi gli avevano strappato ogni determinazione, e anche la pragmatica sicurezza che lo aveva sempre contraddistinto. Ormai era completamente privo di equilibrio, nevrotico. Arthur non parlava. Con gli occhi cupi, fissi a terra, si chiedeva quanto sarebbe riuscito a raccontare. Era sconvolto all’idea di svelare i suoi pensieri più intimi, eppure era ormai allo stremo e aveva bisogno dei consigli del dottor Porhoët. Doveva affrontare situazioni che potevano esistere solo in un mondo d’incubo e si vedeva costretto a ricorrere alla particolare scienza del suo amico. Rientrato a Londra dopo la fuga di Margaret, Arthur Burdon si era di nuovo gettato nel lavoro, che tanto a lungo era stata la sua unica consolazione. Aveva perso ogni interesse per la sua attività, ma nonostante tutto sgobbava senza posa, come un automa, nel tentativo di soffocare l’angoscia. Col passare del tempo, però, fu preso da un misterioso senso di premonizione, al quale non riusciva in alcun modo a resistere; si faceva sempre più forte, finché raggiunse la potenza di un’ossessione e Arthur non fu più in grado di liberarsene con il semplice ragionamento. Era sicuro che un grande pericolo minacciasse Margaret. Non sapeva di cosa si trattasse, né perché il timore fosse così persistente, ma quell’idea era sempre lì, notte e giorno; lo accompagnava ovunque, come un’ombra, e lo perseguitava come il rimorso. La sua ansia non faceva che crescere e l’indeterminatezza del suo terrore la rendeva ancora più tormentosa. Era pressoché certo che Margaret corresse un pericolo immediato, ma non sapeva come aiutarla. Supponeva che Haddo l’avesse ricondotta a Skene ma, anche se ci fosse andato, non avrebbe avuto nessuna possibilità di vederla. L’assenza del suo superiore al St. Luke rendeva tutto ancora più difficile ed egli era costretto a restare a Londra nel caso lo chiamassero d’urgenza per qualche intervento. Ma non riusciva a pensare ad altro. Sentiva il bisogno impellente di vedere Margaret. Notte dopo notte sognava che era in punto di morte e lui non poteva neanche tendere una mano per aiutarla, perché pesanti catene glielo impedivano. Alla fine non resistette più. Disse a un collega che questioni private lo costringevano a lasciare Londra e affidò a lui il suo lavoro. Senza nessun piano, ma spinto semplicemente da un impulso oscuro, partì per il villaggio di Venning, che si trovava a circa cinque chilometri da Skene. Era un paesino minuscolo, con un unico locale pubblico che fungeva anche da albergo per i rari viaggiatori che dovevano fermarsi lì, e Arthur sentì che era necessario giustificare in qualche modo la sua presenza. Poiché alla stazione aveva notato l’annuncio di una fattoria da affittare, soddisfece la curiosità della locandiera spiegando che era venuto a vederla. Era arrivato a notte fonda, e non potendo far nulla per il momento, sfruttò quel tempo cercando di scoprire qualcosa sugli Haddo. Oliver era il signorotto locale, e la sua ricchezza sarebbe bastata a farne ovvio argomento di conversazione indipendentemente dalla sua eccentricità. La locandiera non esitò a definirlo un pazzo e, per dare un esempio della sua stranezza, raccontò a uno sgomento Arthur che, per volontà di Haddo, la servitù non poteva dormire nella casa padronale. Dopo cena, tutti dovevano tornare nei vari cottage del parco, ed egli restava solo con sua moglie. Era terribile il pensiero che Margaret potesse essere nelle mani di un folle, senza neppure un’anima a proteggerla. Di fatto, fu l’unica informazione concreta che riuscì a scoprire, ma in compenso venne a sapere molte cose significative. Con suo stupore, in quel luogo solitario era tornato a diffondersi l’atavico timore per la magia, e la loquace donna gli parlò in tono serio del maligno influsso di Haddo sulle messi e sul bestiame dei contadini che avevano suscitato la sua ira. Aveva avuto un alterco con il suo mezzadro, e questi era morto entro l’anno. Un piccolo proprietario terriero della zona si era rifiutato di vendergli un appezzamento che avrebbe ampliato i possedimenti di Skene, e un morbo aveva contagiato tutti gli animali della sua fattoria, riducendolo in miseria. Arthur rimase colpito perché, pur raccontandole con ironico scetticismo, come fossero ciance di vecchie e di ingenui contadinotti, la donna credeva a queste storie e ne era terrorizzata. Era innegabile che Haddo avesse ottenuto le terre che voleva: quando vennero messe all’asta, non ci fu nessuna offerta ed egli se le aggiudicò per due soldi. Non appena fu possibile farlo senza destare sospetti, Arthur chiese di Margaret. La locandiera si strinse nelle spalle. Nessuno ne sapeva nulla. Non varcava mai le porte di Skene, ma a volte la si vedeva vagare tutta sola nel parco. Non incontrava nessuno. Haddo era da lungo tempo in lite con i gentiluomini dei dintorni e, sebbene l’anziana madre di un proprietario terriero locale si fosse presentata a far visita a Margaret i primi tempi dopo il suo arrivo, non era stata ammessa alla sua presenza e la cortesia non era stata mai restituita. «Non ne verrà niente di buono per lei, povera signora» disse la proprietaria della locanda. «E pensare che dicono che è bella come un quadro». Arthur si ritirò nella sua stanza. Aspettava con ansia che facesse giorno. Non c’era un modo sicuro per vedere Margaret. Era inutile presentarsi alle porte del parco, perché persino i fornitori erano costretti a lasciare la merce nella guardiola dei custodi. Ma, a quanto pareva, Margaret passeggiava da sola mattina e pomeriggio, e forse sarebbe riuscito a vederla. Arthur decise di introdursi nel parco per cercare di incontrarla in un punto da cui fosse impossibile essere scoperti. Il giorno successivo, il grande caldo dell’ultima settimana si era attenuato e il cielo malinconico era scuro e coperto di nuvole basse. Arthur si informò sulla strada e si dispose a percorrere a piedi i cinque chilometri che lo separavano da Skene. La campagna era grigia e spoglia. C’era una vasta distesa di brughiera disseminata di rocce gigantesche, come se in tempi preistorici i titani avessero combattuto in quel luogo un’immane battaglia. Qua e là c’erano degli alberi, che non sembravano in grado di sopportare i forti venti invernali; erano vecchi e piegati dalle tempeste. Uno, in particolare, attrasse l’attenzione di Arthur. Era stato colpito da un fulmine ed era spaccato in due, spoglio; ma i rami mutili erano disposti in maniera strana sul tronco, dandogli l’aspetto di un essere umano contorto nei tormenti di un’infernale agonia. Il vento soffiava in un modo inquietante. Il cuore di Arthur sprofondò mentre egli camminava. Mai aveva visto un luogo tanto desolato. Giunse infine alle porte del parco e vi si fermò davanti per un po’. In fondo al lungo viale, tra gli alberi, riusciva a scorgere una parte di una splendida casa. Camminò lungo la palizzata di legno che circondava la tenuta. D’improvviso notò un punto in cui una tavola era stata abbattuta. Guardò da una parte e dall’altra: sulla strada non c’era nessuno. Arthur si arrampicò sul basso e ripido terrapieno, divelse un altro pezzo di palizzata e scivolò dentro. Si ritrovò in una folta boscaglia. Non c’era l’ombra di un sentiero ed egli avanzò con cautela. Le felci erano talmente alte e fitte da nasconderlo alla vista. Gli antichi proprietari, ormai defunti, avevano chiaramente dedicato molte cure alla tenuta, poiché era l’unico luogo in tutto il circondario dove c’erano alberi in abbondanza; negli ultimi tempi, tuttavia, la proprietà era stata decisamente trascurata. Si era inselvatichita a tal punto che ormai non c’erano tracce della disposizione formale di un tempo, ed era talmente arduo aprirsi un varco tra la fitta vegetazione che quasi pareva di trovarsi in un residuo di foresta primordiale. Arthur giunse finalmente a un sentiero erboso e lo percorse lentamente. Sentendo un rumore si fermò di colpo, ma era solo un fagiano che volava pesante tra gli alberi bassi. Arthur si chiese cosa avrebbe fatto se si fosse trovato faccia a faccia con Oliver. La locandiera gli aveva assicurato che il padrone usciva di rado e trascorreva le sue giornate nella grande soffitta della casa. Dai comignoli usciva fumo anche nei giorni più caldi dell’estate, e si raccontavano strane storie sulle diavolerie che venivano commesse lassù. Arthur continuò, sperando di poter prima o poi scorgere Margaret, ma non vide nessuno. In quella giornata grigia e fredda i boschi, nonostante il verde, erano desolati e tristi. Un cupo mistero sembrava aleggiare su di essi. Arthur giunse infine a una panchina di pietra sotto gli alberi, dove il sentiero ne incrociava un altro, e poiché era l’unico punto di sosta che aveva visto, gli venne in mente che forse Margaret sarebbe andata a sedersi lì. Si nascose tra le felci. Aveva dimenticato l’orologio e non sapeva quanto tempo fosse passato. Gli sembrava di essere lì da ore. A un certo punto il cuore gli balzò contro le costole, perché d’improvviso, tanto silenziosamente che non l’aveva sentita avvicinarsi, gli apparve Margaret, che sedette sulla panchina di pietra. Per un attimo egli non osò muoversi, temendo che il rumore la spaventasse. Non sapeva come rivelare la sua presenza, ma era necessario far qualcosa per attirare l’attenzione di lei, e poteva soltanto sperare che non gridasse. «Margaret» la chiamò sottovoce. Ella non si mosse e lui ripeté il nome, più forte. Ma ancora nessun segno che l’avesse udito. Uscì allo scoperto e le si piantò dinanzi. «Margaret». Lei lo guardò, tranquilla. Era come se non l’avesse mai visto, eppure dal suo atteggiamento pareva che si aspettasse di vederlo lì. «Margaret, non mi riconosci?». «Cosa vuoi?» gli rispose, serena. Ne fu talmente sorpreso che rimase senza parole. Lei continuava a fissarlo. D’un tratto la sua calma svanì e Margaret balzò in piedi. «Sei davvero tu?» gridò, fuori di sé dall’agitazione. «Pensavo fosse solo un’ombra che ti somigliava». «Che vuoi dire, Margaret? Cosa ti è successo?». Lei tese una mano e lo toccò. «Sono proprio io, in carne e ossa» disse lui, sforzandosi di sorridere. Lei chiuse gli occhi per un momento, come cercando di raccogliere le forze. «Ultimamente ho avuto delle allucinazioni» sussurrò. «Pensavo di essere vittima di un qualche trucco». Si riscosse di colpo. «Ma cosa fai qui? Devi andare via. Come sei entrato? Oh, perché non mi lasci in pace?». «Avevo la tormentosa sensazione che stesse per accaderti qualcosa di orribile. Non ho potuto fare a meno di venire». «Per l’amor di Dio, va’ via! Non puoi fare nulla. Se scopre che sei stato qui...». Si interruppe, gli occhi dilatati per la paura. Arthur le prese le mani. «Non posso andare via, Margaret, non posso lasciarti così... Per l’amor di Dio, dimmi cosa succede, sono terrorizzato». Era inorridito dal mutamento avvenuto in lei negli ultimi due mesi. Il colore era scomparso dalle sue guance e il volto aveva il pallore della morte. C’erano strane rughe sulla sua fronte e gli occhi avevano uno scintillio innaturale. La giovinezza l’aveva improvvisamente abbandonata. Sembrava fosse stata colpita da una malattia fatale. «Cosa ti succede?» domandò Arthur. «Nulla». Si guardò attorno con ansia. «Oh, perché non te ne vai? Come puoi essere così crudele?». «Devo fare qualcosa per te» insistette lui. Lei scosse il capo. «È troppo tardi, nulla può aiutarmi». Si interruppe e, quando riprese a parlare, la sua voce era così spettrale che pareva uscire dalle labbra di un cadavere. «Ho finalmente scoperto cosa intende fare con me. Gli servo per il suo grande esperimento e ormai manca poco». «Cosa significa che gli servi?». «Vuole... la mia vita». Arthur lanciò un grido di sgomento, ma lei alzò una mano. «È inutile resistere. Non serve a nulla. Credo che sarò felice quando arriverà il momento. Almeno smetterò di soffrire». «Devi essere pazza». «Non lo so, ma so che lui lo è». «Ma se la tua vita è in pericolo, per l’amor di Dio, vieni via. Dopotutto sei libera, non può fermarti». «Sarei costretta a tornare da lui, come è successo l’ultima volta» rispose lei scuotendo la testa. «Allora pensavo di essere libera, ma a poco a poco ho capito che mi stava chiamando. Ho cercato di resistere, ma non ce l’ho fatta. Dovevo andare da lui, punto e basta». «È spaventoso saperti sola con un uomo che praticamente è matto da legare». «Per il momento sono salva» disse lei tranquillamente. «L’esperimento si può fare solo quando c’è molto caldo. Se non farà più un caldo intenso quest’anno, vivrò fino alla prossima estate». «Margaret, per l’amor di Dio, non parlare così. Io ti amo. Voglio averti con me per sempre. Non vuoi venir via con me, lasciare che sia io a occuparmi di te? Ti prometto che non ti accadrà nulla». «Tu non mi ami più; sei solo dispiaciuto per me». «Non è vero». «Oh, sì che è vero. L’ho capito quando eravamo in campagna. Ma non te ne faccio una colpa. Sono una donna diversa da quella che amavi. Non sono la Margaret che conoscevi». «Non potrò mai voler bene a nessuna, se non a te». Lei gli posò una mano sul braccio. «Se mai mi hai amato, ti scongiuro, va’ via. Non sai a cosa mi esponi. E quando sarò morta, dovrai sposare Susie. Lei ti ama con tutto il cuore, e merita il tuo amore». «Margaret, non andare. Vieni via con me». «E abbi cura di te. Lui non ti perdonerà mai per quel che hai fatto. Se ne avrà l’occasione, ti ucciderà». Margaret sobbalzò violentemente, come se avesse udito un rumore. Il suo viso si contorse in un’improvvisa smorfia di paura. «Per l’amor di Dio, va’ via, va’ via!». Si allontanò velocemente da lui e, prima che potesse impedirglielo, era scomparsa. Con il cuore gonfio, egli si nascose di nuovo tra le felci. Raccontato l’incontro ai suoi amici, Arthur tacque e guardò il dottor Porhoët. Questi si diresse con aria pensosa verso la libreria. «Cosa vuoi che ti dica?» chiese. «Credo che quell’uomo sia pazzo» disse Arthur. «Ho scoperto in quale manicomio è ricoverata sua madre, e con un colpo di fortuna sono riuscito a vedere il direttore, sulla strada di ritorno per Londra. Mi ha detto che ha seri dubbi sulla salute mentale di Haddo, ma al momento qualsiasi intervento è impossibile. Sono venuto direttamente qui perché volevo un suo consiglio. Nell’ipotesi che quest’uomo sia fuori di senno, esiste l’eventualità che stia facendo qualche esperimento che richieda il sacrificio di una vita umana?». «Nulla di più probabile» disse il dottor Porhoët con aria grave. Susie tremò. Rammentava le chiacchiere che le erano giunte all’orecchio a Montecarlo. «Dicevano che stava cercando di creare degli esseri viventi con una pratica magica». Lanciò un’occhiata al dottore, ma era ad Arthur che parlava. «Proprio prima che lei entrasse, il nostro amico mi raccontava di quel libro in cui Paracelso riferisce di aver nutrito con del sangue umano i mostri da lui creati». Arthur proruppe in un’esclamazione di terrore. «La cosa per me più significativa è la condizione di Margaret, di cui abbiamo assoluta certezza» disse il dottor Porhoët. «Tutte le opere che trattano di magia nera concordano sulla suprema efficacia della condizione di verginità». «Ma cosa si può fare?» domandò Arthur, in preda alla disperazione. «Non possiamo lasciarla nelle mani di un pazzo furioso». D’improvviso si fece di un pallore cadaverico. «Per quanto ne sappiamo, potrebbe essere già morta». «Avete mai sentito parlare di Gilles de Rais?» disse il dottor Porhoët, continuando le sue riflessioni. «I suoi sacrifici umani sono un caso esemplare. Conosco il paese in cui visse, e i contadini, ancora oggi, di notte non osano passare nei pressi del castello che fu la scena dei suoi mostruosi crimini». «È orribile sapere che questo tremendo pericolo aleggia su di lei, e non poter fare nulla». «Possiamo soltanto aspettare» disse il dottor Porhoët. «Ma se aspettiamo troppo, potremmo trovarci davanti a una terribile catastrofe». «Fortunatamente viviamo in un’epoca civilizzata. Haddo tiene molto al suo collo. Spero che i nostri timori siano infondati». Susie aveva l’impressione che la prima cosa da fare fosse distrarre Arthur, e passò in rassegna alcuni modi per portare la sua attenzione su altre cose. «Pensavo di andare per due giorni a Chartres con Mrs Bloomfield» disse. «Perché non viene con me? Là c’è la cattedrale più bella del mondo e sono certa che passeggiare nei dintorni le distenderà i nervi. Né qui né a Londra potrebbe rendersi utile. Forse, quando sarà più calmo, riuscirà a escogitare qualcosa». Il dottor Porhoët comprese il suo intento e insistette a sua volta affinché Arthur passasse un paio di giorni in un luogo che non suscitasse in lui alcun ricordo. Arthur era troppo esausto per discutere e acconsentì per puro sfinimento. Il giorno successivo Susie lo portò a Chartres. Mrs Bloomfield non fu di alcun disturbo e Susie lo convinse a fermarsi per una settimana in quella cittadina tranquilla. Trascorsero molte ore nella sontuosa cattedrale e vagarono per la campagna circostante. Arthur fu costretto ad ammettere che il cambiamento gli aveva giovato; una certa apatia si sostituì all’agitazione di cui aveva tanto a lungo sofferto. Susie riuscì anche a convincerlo a trascorrere tre o quattro giorni in Bretagna con il dottor Porhoët, che si proponeva di visitare i luoghi della sua infanzia. Poi tornarono a Parigi. Quando la salutò alla stazione, dandole appuntamento al ristorante di lì a un’ora per pranzare con il dottor Porhoët, la ringraziò di tutto quel che aveva fatto. «Ero in una condizione di assoluta isteria» disse, tenendole la mano tra le sue. «Lei è stata un vero angelo. Sapevo che non c’era nulla da fare, ma ero comunque tormentato dal desiderio di fare qualcosa. Ora ho ripreso il controllo. Temo che il buonsenso mi stesse abbandonando ed ero sul punto di credere in quel guazzabuglio di sciocchezze che chiamano magia. Dopotutto, è assurdo pensare che Haddo abbia intenzione di fare del male a Margaret. Appena rientrato a Londra andrò dai miei avvocati, e forse qualcosa si potrà fare. Se è davvero pazzo, lo faremo rinchiudere, e Margaret sarà libera. Non dimenticherò mai la sua gentilezza». Susie sorrise e si strinse nelle spalle. Era convinta che egli avrebbe dimenticato tutto, se Margaret fosse tornata da lui. Ma si rimproverò quel pensiero amaro. Lo amava ed era lieta di aiutarlo. Tornò in albergo, si cambiò d’abito e si diresse a piedi, lentamente, allo Chien noir. Era sempre una sensazione esaltante tornare a Parigi, e guardava con occhi felici e pieni di affetto i platani, i tram gialli che sferragliavano senza sosta e la gente che si godeva tranquillamente la vita. Quando arrivò, il dottor Porhoët l’attendeva, e il piacere che dimostrò nel vederla fu per lei un gradevole complimento. Parlarono di Arthur e si chiesero perché fosse in ritardo. Di lì a un attimo egli arrivò, e videro subito che era accaduto qualcosa di eccezionale. «Grazie a Dio vi ho trovati, finalmente!» esclamò. Il suo viso era contratto da bizzarri movimenti. Non l’avevano mai visto così sconvolto. «Sono stato al suo albergo, ma lei era appena uscita. Oh, perché avete insistito per farmi partire?». «Che è successo?» esclamò Susie. «È accaduto qualcosa di terribile a Margaret». Susie balzò in piedi con un grido di sgomento. «Come lo sa?» gli domandò affannosamente. Arthur li guardò per un attimo e arrossì. Poi fissò gli occhi nei loro, come per costringerli a credere a ciò che stava per dire. «Lo sento» rispose con voce roca. «Che significa?». «Ne ho avuto la sensazione, d’improvviso. Non so spiegare né come né perché. So solo che è accaduto qualcosa». Riprese a camminare avanti e indietro, in preda a un’agitazione spaventosa. Susie e il dottor Porhoët lo guardavano impotenti, cercando delle parole in grado di calmarlo. «Sicuramente saremmo stati informati se fosse accaduto qualcosa». Arthur si rivoltò contro Susie, con rabbia. «E come pensa che saremmo venuti a saperlo? Era inerme, prigioniera, come un topo in trappola». «Amico mio, non devi lasciarti andare in questo modo» disse il dottore. «Cosa penseresti di un paziente che si presentasse da te con una storia simile?». Arthur rispose alla domanda stringendosi nelle spalle. «Direi che è in preda a un’assurda isteria». «Ebbene?». «Non posso farci nulla. La sensazione rimane. Se anche tentaste per una notte intera, non riuscireste a liberarmene, a convincermi che non è così. Lo sento in ogni fibra del mio corpo. Non potrei esserne più certo, neanche se vedessi Margaret, morta, qui davanti a me». Susie comprese che era del tutto inutile cercare di ragionare con lui. Non restava che accettare questa sua convinzione, e farne il miglior uso possibile. «Possiamo fare qualcosa?» domandò. «Voglio che veniate tutti e due in Inghilterra con me. Subito. Se ci sbrighiamo, riusciremo a prendere il treno della sera». Susie non rispose, ma si alzò. Toccò il braccio del dottore. «La prego, venga» sussurrò. Egli annuì e si tolse il tovagliolo che aveva sistemato per proteggere il panciotto. «C’è una vettura che ci aspetta qua fuori» disse Arthur. «E gli abiti di Miss Susie?» disse il dottore. «Oh, non possiamo perdere tempo con queste cose» esclamò Arthur. «Per l’amor di Dio, fate presto». Susie sapeva che c’era tutto il tempo per prendere il necessario prima che il treno partisse, ma l’impazienza di Arthur era troppo grande per poter essere frenata. «Non ha importanza» disse. «Posso procurarmi in Inghilterra ciò di cui ho bisogno». In tutta fretta Arthur li spinse verso la porta e disse al conducente di recarsi alla stazione il più velocemente possibile. «Per l’amor di Dio, ora si calmi» disse Susie. «In questo stato non sarà d’aiuto a nessuno». «Sento che è troppo tardi». «Sciocchezze! Sono sicura che troverà Margaret sana e salva». Egli non rispose. Quando arrivarono alla stazione tirò un sospiro di sollievo. 14 Susie non avrebbe mai dimenticato l’orrore di quel viaggio verso l’Inghilterra. Arrivarono a Londra il mattino presto e andarono dritti a Euston. Per tre o quattro giorni c’era stato un caldo insolito, e persino a quell’ora le strade erano afose, non c’era un filo d’aria. Il treno diretto al Nord era così gremito che pareva di soffocare. Susie aveva mal di testa, ma era costretta a darsi un contegno allegro per cercare di alleviare l’ansia, sempre crescente, di Arthur. Il dottor Porhoët le sedeva di fronte. Dopo la notte insonne, aveva le palpebre pesanti e il volto profondamente segnato. Era esausto. Finalmente, dopo molti cambi faticosi, raggiunsero Venning. Susie si sarebbe aspettata una maggiore frescura in quel villaggio del Nord; una cappa rovente opprimeva il paese e, mentre dalla piccola stazione si dirigevano alla locanda, trascinavano a stento le gambe. Arthur aveva telegrafato da Londra che preparassero delle stanze e la locandiera li aspettava. Riconobbe Arthur. Egli non vedeva l’ora di chiederle se era accaduto qualcosa dall’ultima volta che era stato lì, ma finché poté cercò di costringersi al silenzio, poi la salutò cordialmente. «E allora, Mrs Smithers, cosa è successo da quando sono partito?» esclamò. «Be’, lei naturalmente non può saperlo...» rispose lei tutta seria. Egli cominciò a tremare, ma con sforzo quasi sovrumano controllò la voce. «Il signorotto si è impiccato?» chiese con fare disinvolto. «No, ma la povera signora è morta». Arthur non rispose. Era impietrito. Aveva gli occhi sbarrati. «Poveretta!» disse Susie, sforzandosi di parlare. «È accaduto all’improvviso?». La donna si voltò verso Susie, felice di aver qualcuno con cui commentare l’episodio. Non si accorse del supplizio di Arthur. «Sì, signora; nessuno se l’aspettava; è morta di colpo. L’hanno sepolta questa mattina». «Di cosa è morta?» domandò Susie, con gli occhi fissi su Arthur. Temeva che svenisse. Desiderava con tutta se stessa portarlo via, ma non sapeva come fare. «Pare sia stato il cuore» rispose la locandiera. «Povera donna! Ma per lei è stata una liberazione». «Ci preparerebbe del tè, Mrs Smithers? Siamo molto stanchi, e gradiremmo qualcosa subito». «Certo, signorina. Lo preparo immediatamente». La brava donna si allontanò per darsi da fare. Susie si affrettò a chiudere la porta a chiave e prese Arthur per un braccio. «Arthur, Arthur!». Si aspettava che crollasse. Rivolse uno sguardo tormentato al dottor Porhoët, che se ne stava in disparte, impotente. «Non avrebbe potuto fare nulla se fosse stato qui. Ha sentito cosa ha detto quella donna? Se Margaret è morta per un attacco di cuore, i suoi sospetti erano praticamente infondati». Egli scosse la testa, quasi con violenza. «Per l’amor di Dio, gli parli lei!» esclamò Susie. Il suo silenzio la terrorizzava più di un’esplosione di dolore. Il dottor Porhoët si avvicinò con modi gentili. «Non cercare di fare il coraggioso, amico mio. Soffrirai un po’ meno, se ti lasci andare». «Santo cielo, lasciatemi tranquillo!» disse Arthur con voce roca. Si scostarono, osservandolo in silenzio. Susie sentì la locandiera che arrivava con il tè e aprì la porta. La donna portò dentro tutto il necessario. Stava per andarsene, quando Arthur la fermò. «Come sa che Mrs Haddo è morta per un attacco di cuore?» le domandò all’improvviso. La sua voce era dura e severa. Parlava con tono brusco, insolito, tanto che la povera donna lo guardò stupita. «Me lo ha detto il dottor Richardson». «Era lui che la curava?». «Sì, signore. Mr Haddo lo ha chiamato parecchie volte perché visitasse sua moglie». «Dove abita il dottor Richardson?». «Nella casa bianca vicino alla stazione». Non riusciva a capire il motivo delle domande di Arthur. «Mr Haddo ha partecipato al funerale?». «Oh, sì, signore. Non ho mai visto un uomo tanto sconvolto». «Grazie. Può andare». Susie versò il tè e ne porse una tazza ad Arthur. Con sua sorpresa, egli bevve il tè e mangiò del pane imburrato. L’espressione tirata, la penosa inquietudine erano scomparse dal suo volto, che ora era di nuovo atteggiato a una cupa determinazione. Alla fine egli parlò. «Vado a trovare il dottore. Il cuore di Margaret era sano quanto il mio». «Cosa ha intenzione di fare?». «Fare?». Egli si voltò verso di lei con una strana violenza. «Ho intenzione di mettere un cappio al collo di quell’uomo, e se la legge non mi aiuterà, perdio, lo ucciderò con le mie mani». «Mais, mon ami, vous êtes fou!» esclamò il dottor Porhoët balzando in piedi. Arthur tese la mano con rabbia, come per fermarlo. Il suo volto si fece ancora più corrucciato. «Dovete lasciarmi in pace. Per l’amor del cielo, il tempo delle lacrime e dei lamenti è finito. Dopo tutto quello che ho passato in questi mesi, non riesco neanche a piangere la morte di Margaret. Il mio cuore si è inaridito. Ma io so che lei non è morta di morte naturale, e non avrò pace finché quell’essere sarà vivo». Protese le braccia e, con la mascella serrata, pregò perché un giorno gli fosse possibile stringere tra le mani il collo di Haddo e vedere il suo volto illividirsi e farsi violaceo mentre moriva. «Vado da quello stupido di un dottore, e poi andrò a Skene». «Ci lasci venire con lei» disse Susie. «Non abbia paura» rispose lui. «Non prenderò alcuna iniziativa, se non quando mi sarò reso conto che la legge è impotente». «Voglio venire lo stesso». «Come preferisce». Susie uscì e ordinò di preparare un carrozzino, chiedendo che venisse mandato a casa del dottore perché Arthur non voleva aspettare. Loro tre si avviarono subito, a piedi. Il dottor Richardson era un ometto di cinquantacinque anni, con una bella barba quasi bianca e occhi azzurri sporgenti. Parlava con un forte accento dello Staffordshire. Aveva l’aria un po’ dell’agricoltore, un po’ del florido commerciante, e l’intelligenza non era la prima qualità a colpire, nel suo aspetto. Arthur fu introdotto nell’ambulatorio insieme ai suoi due amici, e poco dopo entrò il dottore. Indossava pantaloni di flanella e aveva in mano una racchetta dalla foggia antiquata. «Mi spiace avervi fatto aspettare, ma mia moglie ha invitato degli amici per il tè ed ero nel bel mezzo di una partita a tennis». La sua cordialità irritò Arthur, i cui modi, per reazione, si fecero più bruschi del solito. «Abbiamo appena appreso della morte di Mrs Haddo. Io ero il suo tutore e un suo amico di vecchia data. Sono venuto da lei nella speranza di sapere qualcosa su questo decesso». Il dottor Richardson gli lanciò l’occhiata sospettosa tipica degli sciocchi. «Non capisco perché sia venuto da me anziché andare da suo marito. Egli sarà in grado di dirle tutto quel che desidera sapere». «Sono venuto da lei come collega» disse Arthur. «Lavoro al St. Luke’s Hospital». Indicò il biglietto da visita che il dottor Richardson teneva ancora in mano. «Il mio amico è il dottor Porhoët, il suo nome dovrebbe esserle familiare grazie ai suoi studi sulla febbre maltese». «Credo di aver letto un suo articolo sul “British Medical Journal”» disse il medico di campagna. I suoi modi rivelavano ora una strana ostilità. Non nutriva simpatia per gli specialisti di Londra, perché non sopportava il loro atteggiamento verso i medici generici. Amava farsi gioco della loro pretesa di sapere tutto ed era più che disposto a schierarsi contro di loro. «Cosa posso fare per lei, dottor Burdon?». «Le sarei molto grato se mi riferisse con la maggior esattezza possibile come è morta Mrs Haddo». «Era un caso molto semplice di endocardite». «Potrei sapere quanto tempo prima del decesso è stato richiesto il suo intervento?». Il dottore esitò, avvampando appena. «Non mi piacciono gli interrogatori» sbuffò, di colpo deciso a irritarsi. «Essendo lei un chirurgo direi che la sua conoscenza delle malattie cardiache non è né particolarmente vasta né approfondita. Ma questo era un caso semplicissimo ed è stato fatto tutto il possibile. Non credo ci sia nulla da aggiungere». Arthur non tenne conto di quello scoppio d’ira. «Quante volte l’ha visitata?». «Davvero, dottore, non capisco il suo atteggiamento. Non vedo quale diritto lei abbia di interrogarmi». «Ha fatto un’autopsia?». «Certo che no. In primo luogo non ce n’era bisogno, poiché la causa della morte era perfettamente chiara. In secondo luogo, lei saprà quanto me che i parenti sono sempre contrari a cose di questo genere. Voi gentiluomini di Harley Street non capite in quali condizioni si svolge l’attività privata. Noi non abbiamo il tempo di fare autopsie tanto per soddisfare un’inutile curiosità». Arthur rimase in silenzio per un attimo. Quell’uomo era chiaramente convinto che non ci fosse nulla di sospetto nella morte di Margaret, ma la sua stoltezza era pari alla sua ostinazione. Era chiaro che svariati motivi lo avrebbero indotto a ostacolare Arthur in ogni modo, soprattutto per il danno che gliene sarebbe venuto se si fosse scoperto che aveva stilato un certificato di morte con superficialità. Naturalmente avrebbe fatto tutto il possibile per evitare lo scandalo. Ma Arthur non poteva tacere. «Ritengo di doverle dire francamente che non sono soddisfatto. Non riesco a convincermi che la morte della signora sia avvenuta per cause naturali». «Ma che stupidaggine!» esclamò l’altro adirato. «Faccio il medico da più di trentacinque anni e sono pronto a giocarmi la reputazione professionale». «Ho motivo di pensare che lei si sbagli». «E a cosa attribuisce la morte, se non le spiace?» domandò Richardson. «Ancora non lo so». «In fede mia, credo che lei sia uscito di senno. Davvero, dottore, il suo comportamento è infantile. E lei sostiene di essere un chirurgo di fama...». «Non ho mai detto nulla del genere». «Ha tenuto conferenze al cospetto di uomini di scienza e pubblicato i suoi interventi. E poi se ne viene qui con una storia stupida come quella di un contadino dello Staffordshire che ha mal di stomaco ed è convinto che qualcuno stia cercando di avvelenarlo. Lei sarà pure un ottimo chirurgo ma, me lo lasci dire, io credo di essere più adatto a giudicare un caso che ho seguito e del quale lei non sa nulla». «Ho intenzione di fare tutti i passi necessari per ottenere un ordine di riesumazione, dottor Richardson, e ritengo che sia nel suo interesse aiutarmi in ogni modo possibile». «Non ci penso nemmeno. Credo che lei sia un impertinente, dottore. Non è necessaria alcuna riesumazione e farò quanto posso per impedirla. E l’avverto, in qualità di presidente del collegio giudicante, che la mia opinione varrà quanto quella di un qualsiasi specialista di Harley Street». Si precipitò verso la porta e la tenne aperta. Susie e il dottor Porhoët uscirono; Arthur li seguì pensoso, con lo sguardo a terra. Richardson sbatté la porta con rabbia. Il dottor Porhoët prese Arthur sottobraccio. «Devi essere ragionevole, amico mio» disse. «Dal suo punto di vista il dottore ha ragione. Non c’è nulla che giustifichi le tue domande. Sarebbe assurdo pretendere un mandato di riesumazione sulla base di un vago sospetto». Arthur non rispose. Il carrozzino li stava aspettando. «Perché vuoi vedere Haddo?» insistette il dottor Porhoët. «Otterrai lo stesso risultato che hai avuto con il dottor Richardson». «Così ho deciso» rispose Arthur, laconico. «Ma non è necessario che voi due mi accompagniate». «Se lei va, noi veniamo con lei» disse Susie. Senza una parola, Arthur saltò sul carrozzino e Susie sedette accanto a lui. Il dottor Porhoët si strinse nelle spalle e salì sul sedile posteriore. Arthur frustò il pony e di buon trotto percorsero i cinque chilometri di spoglia brughiera che separavano Venning da Skene. Fortuna volle che, al loro arrivo, la custode fosse proprio al cancello e tenesse aperto uno dei battenti per il suo bambino, che stava giocando sulla strada e non mostrava la minima intenzione di rientrare. Arthur saltò giù. «Voglio vedere Mr Haddo» disse. «Mr Haddo non è in casa» rispose lei con tono brusco. Cercò di chiudere il cancello, ma Arthur fu pronto a bloccarlo con un piede. «Sciocchezze! Devo vederlo per una questione molto importante». «Mr Haddo ha dato ordine di non far passare nessuno». «Mi spiace. Ho intenzione di entrare lo stesso». Susie e il dottor Porhoët si fecero avanti. Offrirono uno scellino al bambino perché tenesse il cavallo. «E allora? Fuori di qui!» gridò la donna. «Non entrerà, chiunque lei sia e qualunque cosa dica». Cercò di chiudere il cancello, ma il piede di Arthur glielo impediva. Senza tener conto delle proteste irritate della donna, egli riuscì a entrare con la forza e imboccò il viale a passo svelto. La custode gli andava dietro, strillando improperi. Il cancello rimase incustodito e gli altri poterono seguirlo senza problemi. «Potrà anche arrivare alla porta, ma non riuscirà a vedere Mr Haddo» gridò adirata la donna. «Mi farà licenziare perché l’ho lasciata entrare». Susie vide la casa. Era un bell’edificio antico, in stile elisabettiano, ma aveva un gran bisogno di restauri. Aveva l’aspetto desolato di un luogo da lungo tempo disabitato. Il giardino che la circondava era incolto e il viale era coperto di erbacce. Qua e là un albero caduto, che nessuno si era dato pena di rimuovere, rivelava la trascuratezza del proprietario. Arthur arrivò alla porta e suonò il campanello. Il clangore riecheggiò per tutta la casa, come se non ci vivesse un’anima. Un uomo aprì la porta e Arthur si introdusse all’interno senza dargli il tempo di respingerlo. L’uomo era furioso quanto quella megera di sua moglie, che strepitava per spiegargli in che modo i tre estranei fossero riusciti a entrare nel parco. «Non può vedere il padrone, quindi è meglio che se ne vada. È nella soffitta, nessuno può entrare». L’uomo cercò di respingere Arthur. «Fuori di qui, o chiamo la polizia». «Non faccia lo stupido. Sono deciso a trovare Mr Haddo». Il custode e la moglie protestavano urlando e Arthur li ascoltava in silenzio. Susie e il dottore se ne stavano discosti, in ansia, senza sapere cosa fare. D’un tratto, una voce alle loro spalle li fece sobbalzare. I due servitori si zittirono immediatamente. «Cosa posso fare per voi?». Oliver Haddo era immobile dietro di loro. Susie era stupefatta: era arrivato all’improvviso, senza fare rumore. Il dottor Porhoët, che non lo vedeva da molto tempo, rimase stupito da quanto era cambiato. La corpulenza fisica era diventata una vera e propria malattia. Era enorme. Il mento era una massa di pieghe pesanti, tese dal grasso. Le guance erano talmente piene che gli occhi apparivano piccoli, innaturali – due fessure sotto le palpebre tumide. I suoi lineamenti erano cancellati da quella mostruosa obesità. Le orecchie erano orribilmente dilatate, i lobi grossi e rigonfi. Sembrava che avesse difficoltà di respirazione, perché la grande bocca, dalle labbra lucide, scarlatte, era sempre aperta. Era diventato molto più calvo e gli era rimasta solo una mezzaluna di capelli lunghi a coprirgli la nuca, da un orecchio all’altro. C’era un che di inquietante in quel grande cranio lucido. Il ventre era immenso e sporgeva come un enorme barile, poiché egli era molto alto e aveva una postura eretta. Le mani destavano repulsione; erano rosse, morbide, umide. Haddo sudava abbondantemente, e gocce di traspirazione stillavano sulla fronte e sulle labbra glabre. Per un momento si fissarono tutti in silenzio. Poi Haddo si rivolse ai servitori. «Andate» disse. Come spaventati a morte, quelli si diressero verso la porta e con frettolosa confusione si precipitarono fuori. Un sorriso pigro traversò il volto di Haddo mentre guardava i suoi ospiti, poi egli fece un passo per avvicinarsi a loro. I suoi modi conservavano l’insolente urbanità che gli era tipica. «E ora, amici miei, volete dirmi in cosa posso esservi utile?». «Sono venuto per la morte di Margaret» disse Arthur. Haddo, come d’abitudine, non rispose subito. Spostò lo sguardo, lentamente, da Arthur al dottor Porhoët, e dal dottor Porhoët a Susie e al suo cappello. Con un senso di disagio, lei avvertì che si apprestava a prenderla in giro. «Non mi pare il momento di disturbare il mio dolore» disse infine. «Se siete venuti a porgermi le vostre condoglianze, vi invito a mandarmele per posta». Arthur aggrottò la fronte. «Perché non mi ha informato della sua malattia?» domandò. «Per quanto possa sembrarle strano, mio degno amico, non mi ha mai sfiorato l’idea che la salute di mia moglie potesse essere affar suo». Un lieve sorriso aleggiò ancora una volta sulle labbra di Haddo, ma i suoi occhi mantenevano quella particolare durezza così misteriosa. Arthur lo guardava fisso. «Ho buoni motivi per credere che lei l’abbia uccisa» disse. Il volto di Haddo non mutò espressione, neanche per un momento. «Ha informato la polizia dei suoi sospetti?». «Ho intenzione di farlo». «E, se non sono indiscreto, potrei sapere su cosa sono fondati?». «Ho visto Margaret tre settimane fa, e mi ha detto che temeva per la sua vita». «Povera Margaret! Ha sempre avuto un temperamento romantico. Credo che all’inizio sia stato proprio questo ad avvicinarci». «Maledetto farabutto!» esclamò Arthur. «Mio caro amico, la prego di moderare il linguaggio. Non è certo questa l’occasione per dar sfogo al suo riprovevole gusto per gli insulti. Lei offende la suscettibilità di Miss Boyd». Si voltò verso di lei con un ampio cenno della mano grassa. «Mi perdoni se non le offro l’accoglienza di Skene, ma il lutto recente non mi permette di indulgere ai piaceri dell’ospitalità». Le fece, con ironia, un profondo inchino, poi guardò ancora una volta Arthur. «Se non posso fare altro per lei, la prego di lasciarmi alle mie riflessioni. Il custode potrà fornirle l’indirizzo esatto del magistrato locale». Arthur non rispose. Fissava il vuoto, come se stesse rimuginando altri pensieri. Poi si girò bruscamente e si diresse verso il cancello; Susie e il dottor Porhoët, colti di sorpresa, non sapevano cosa fare. Gli occhietti di Haddo scintillavano mentre osservava il loro turbamento. «Ho sempre pensato che il vostro amico avesse dei modi deplorevoli» mormorò. Susie, sentendosi molto ridicola, arrossì, e il dottor Porhoët, imbarazzato, si tolse il cappello. Mentre si allontanavano, sentivano lo sguardo beffardo di Haddo fisso su di loro e furono profondamente sollevati quando raggiunsero il cancello. Trovarono Arthur ad aspettarli. «Vi chiedo scusa,» disse «avevo dimenticato di non essere solo». I tre tornarono lentamente verso la locanda. «E adesso cosa pensa di fare?» domandò Susie. Arthur rimase a lungo in silenzio e Susie pensò che forse non l’aveva sentita. Ma alla fine rispose. «Mi rendo conto che non posso fare nulla seguendo le vie ordinarie. Capisco che è inutile sporgere ufficialmente denuncia. C’è solo la mia convinzione che Margaret abbia avuto una fine violenta e non posso aspettarmi che qualcuno mi dia credito». «Del resto, è anche possibile che sia morta per un attacco di cuore». Arthur lanciò a Susie una lunga occhiata. Sembrò considerare con attenzione le sue parole. «Forse c’è un sistema per stabilirlo una volta per tutte» rispose infine, pensoso, come se parlasse a se stesso. «E sarebbe?». Arthur non rispose. Quando giunsero alla porta della locanda si fermò. «Entrate pure. Voglio fare una passeggiata da solo» disse. Susie lo guardò, con ansia. «Non farà gesti inconsulti, vero?». «Non farò nulla finché non avrò la certezza che Margaret sia stata barbaramente uccisa». Girò sui tacchi e si allontanò velocemente. Ormai era tardi e nel salottino Susie e il dottor Porhoët trovarono ad attenderli un pasto frugale. Sembrava inutile aspettare il ritorno di Arthur e in silenzio, colmi di dolore, mangiarono. Poi il dottore fumò qualche sigaretta, mentre Susie sedeva alla finestra aperta a guardare le stelle. Pensava a Margaret, alla sua bellezza e alla sua amabile franchezza; pensava al suo crollo, e alla sua fine infelice. Cominciò a piangere, silenziosamente. Ormai sapeva abbastanza per comprendere che quella sventurata fanciulla non aveva colpa di quanto era accaduto. Le era toccato un destino crudele e non si era potuta opporre, come, nelle antiche leggende, Fedra, figlia di Minosse, o Mirra dalle belle chiome. Passarono le ore e Arthur non tornava. Susie ormai pensava soltanto a lui ed era terribilmente in ansia. Finalmente egli arrivò. Era tardi. Arthur si tolse il cappello e sedette. Guardò a lungo il dottor Porhoët, in silenzio. «Che c’è, amico mio?» si decise infine a chiedere il dottore. «Ricorda quando una volta ci raccontò di un esperimento che aveva fatto ad Alessandria?» disse dopo qualche esitazione. Parlava con un tono inconsueto. «Ci raccontò di aver mandato a chiamare un ragazzo e che, quando egli guardò in uno specchio magico, vide cose che non avrebbe assolutamente potuto sapere». «Lo ricordo perfettamente» disse il dottore. «A quel tempo ero piuttosto propenso a ridere di lei; ero convinto che quel ragazzo fosse un furfantello che l’aveva presa in giro». «Davvero?». «Ma negli ultimi tempi ho spesso ripensato a quella storia. Qualche recesso della mia memoria si è spalancato, e mi sembra di ricordare strane cose. Ero forse io il ragazzo che guardava nell’inchiostro?». «Sì» rispose tranquillamente il dottore. Arthur non disse nulla, e un silenzio profondo scese su di loro, mentre Susie e il dottore lo osservavano attentamente. Si chiedevano cosa gli passasse per la testa. «C’è un aspetto del mio carattere che ho scoperto solo in questi ultimi tempi» disse infine Arthur. «Quando ne ho avuto le prime avvisaglie, ho cercato di combatterlo. Mi dicevo che in fondo a ciascuno di noi, come il retaggio di un passato lontano, c’è un residuo della superstizione che accecava i nostri padri. È necessario che l’uomo di scienza la contrasti con tutte le sue forze. Eppure, essa è più forte di me. Forse la mia nascita e gli anni della mia infanzia in quelle terre d’Oriente, dove tutti credono nel soprannaturale, mi hanno influenzato senza che me ne rendessi conto. Ho cominciato a ricordare cose vaghe, misteriose; cose che, inconsapevolmente, avevo sempre avuto dentro. E infine, un giorno, mi è sembrato che una nuova finestra si spalancasse sulla mia anima, e ho visto, con straordinaria limpidezza, l’evento che lei mi aveva descritto. D’un tratto ho compreso che apparteneva alla mia personale esperienza. Ho visto lei che mi prendeva la mano, mi versava dell’inchiostro sul palmo e mi ordinava di guardarci dentro. Ho sentito la strana fiammella che si agitava dentro di me prima che, con indescrivibile chiarezza, vedessi in quello specchio cose che fino a un attimo prima non c’erano. Ho visto persone che non avevo mai visto, le ho viste compiere alcune azioni. Una forza misteriosa e sconosciuta mi spingeva a parlare. Alla fine tutto si è oscurato e io ero sfinito, come se non avessi mangiato per un giorno intero». Si diresse verso la finestra aperta e guardò fuori. Nessuno parlava. Il volto di Arthur, delineato nettamente dalla luce della lampada, era rigido. La sua mente sembrava impegnata in una lotta di straordinaria violenza. Il respiro era affannato. Alla fine egli si voltò verso di loro. Parlava in fretta, con voce roca. «Io devo rivedere Margaret». «Arthur, lei è pazzo!» gridò Susie. Egli si avvicinò al dottor Porhoët e, appoggiandogli le mani sulle spalle, lo guardò fisso negli occhi. «Lei ha studiato questa scienza. Lei sa tutto quel che c’è da sapere. Voglio che me la faccia vedere». Il dottor Porhoët dette in un’esclamazione allarmata. «Mio caro amico, come posso farlo? Ho letto molti libri, ma non ho mai messo in pratica nulla. Ho studiato quegli argomenti per semplice divertimento». «Ma lei crede che si possa fare?». «Non capisco cosa vuoi». «Voglio che la riporti a me, perché io possa parlarle e scoprire la verità». «Pensi forse che io sia Dio per poter resuscitare gli uomini dalla morte?». Le mani di Arthur lo trattennero sulla sedia dalla quale tentava di alzarsi. Egli stringeva le dita sulle spalle del vecchio, che quasi non sopportava il dolore. «Una volta ci disse che Eliphas Lévi evocò uno spirito. Crede che fosse vero?». «Non lo so. Ho sempre mantenuto aperta la mia mente. È possibile che sia vero, come è possibile che non lo sia». «Bene, ora lei deve credere. Lei deve fare ciò che fece lui». «Temo tu sia impazzito, Arthur». «Voglio che lei venga nel luogo in cui l’ho vista per l’ultima volta. Se il suo spirito può essere riportato indietro, è solo nel luogo in cui era seduta e piangeva. Lei conosce tutti i rituali e tutte le formule necessarie». Ma Susie si fece avanti e gli posò la mano sul braccio. Egli la guardò, accigliato. «Arthur, lei sa, nel fondo del suo cuore, che non ne può venire nulla di buono. Questo non fa che aumentare la nostra infelicità. Anche se lei potesse richiamarla per un momento dalla tomba, perché non lasciar riposare in pace la sua anima tormentata?». «Se è morta di morte naturale non avremo potere su di lei, ma, se ha avuto una morte violenta, forse il suo spirito è ancora legato alla terra. Mi ascolti, io devo essere certo. Voglio vederla ancora una volta, poi saprò cosa fare». «Non posso, non posso» disse il dottore. «Mi dia i libri, farò tutto da solo». «Sai bene che non ho nulla con me». «Allora deve aiutarmi» disse Arthur. «Del resto, perché si preoccupa? Noi mettiamo in atto una certa pratica e, se non accade nulla, non staremo peggio di prima. D’altro canto, se riusciamo... Oh, per l’amor di Dio, mi aiuti! Se le è cara la mia felicità, faccia questo per me». Egli fece un passo indietro e guardò il dottore. Gli occhi del francese erano fissi a terra. «È una follia» sussurrò. Ma era profondamente commosso dalle implorazioni di Arthur e infine si strinse nelle spalle. «In fondo, se non è altro che una sciocca sceneggiata, non può fare alcun danno». «Allora mi aiuterà?» esclamò Arthur. «Se questo può darti un po’ di pace, o un po’ di soddisfazione, sono pronto a fare quel che posso. Ma ti avverto, preparati a una grande delusione». 15 Arthur avrebbe voluto procedere al rito in quel momento stesso, ma il dottor Porhoët disse che era impossibile. Erano tutti esausti dopo il lungo viaggio, ed era indispensabile procurarsi alcune cose. In cuor suo pensava che una notte di riposo avrebbe ricondotto Arthur alla ragione. Alla luce del nuovo giorno sulla terra, egli si sarebbe vergognato di quel desiderio contrario a tutte le sue convinzioni. Ma erano passati sei giorni dalla morte di Margaret e secondo Arthur l’indomani, a una settimana esatta di distanza, le loro arti magiche avrebbero potuto avere una maggiore efficacia. Quando si incontrarono il mattino successivo e si salutarono, era chiaro che nessuno di loro aveva dormito. «Sei ancora della stessa idea di ieri sera?» chiese il dottor Porhoët con aria grave. «Sì». Il dottore esitò, nervoso. «Se desideri seguire fino in fondo le regole degli antichi negromanti, sarà necessario digiunare tutto il giorno». «Sono pronto a qualsiasi cosa». «Non sarà difficile per me» disse Susie con una risatina isterica. «Sento che non riuscirei a mandar giù nulla, neanche se mi sforzassi». «Secondo me tutta questa storia è pura follia» disse il dottor Porhoët. «Mi ha promesso che avrebbe tentato». La giornata, una lunga giornata d’estate, passò lentamente. C’era uno splendore duro nel cielo, che ricordava al francese i cieli egiziani, quando la terra sembra schiacciata da una cappa rovente. Arthur era troppo inquieto per rimanere alla locanda e lasciò gli altri a se stessi. Camminava senza meta, a passo svelto, ma non sentiva la stanchezza. Il sole bruciante picchiava su di lui, ma egli non se ne accorgeva. Le ore si trascinavano pigre. Susie rimase distesa sul letto e cercò di leggere. Aveva i nervi talmente tesi che, quando si udì nel cortile il rumore di un secchio che cadeva sull’acciottolato, gridò di terrore. Il sole si alzò, e in quel momento la sua finestra fu inondata da vibranti raggi d’oro. Era mezzogiorno. Il tempo passava e venne il pomeriggio, poi la sera, che non portò alcuna frescura. Nel frattempo, il dottor Porhoët sedeva nel salottino con la testa tra le mani; a costo di un enorme sforzo mentale tentava di richiamare alla memoria tutto quel che aveva letto. Il suo cuore cominciò a battere più velocemente. Poi calò la notte, a una a una si accesero le stelle. Non c’era vento. L’aria era pesante. Susie scese al pianterreno e si mise a parlare con il dottor Porhoët. Parlavano a voce bassa, come se temessero che qualcuno potesse ascoltarli di nascosto. Ormai erano indeboliti dalla mancanza di cibo. Le ore trascorsero, l’una dopo l’altra, e i rintocchi dell’orologio li colmavano ogni volta di una misteriosa apprensione. Le luci nel villaggio si spensero a poco a poco, dormivano tutti. Susie e il dottore rimasero a vegliare al chiarore della lampada, ed ella fu percorsa da un brivido freddo. «Ho quasi l’impressione che in questa stanza ci sia un morto» disse. «Perché Arthur non torna?». Parlavano in modo sconnesso e nessuno prestava attenzione a ciò che diceva l’altro. La finestra era spalancata, ma l’aria era irrespirabile. Ora il silenzio era così innaturale che Susie provava un insolito nervosismo. Cercò di pensare alle strade chiassose di Parigi, al perenne ruggito del traffico, al fruscio della folla verso sera, quando tutti tornano a casa. Si alzò. «Stasera non c’è aria. Guardi gli alberi. Non si muove una foglia». «Perché Arthur non torna?» ripeté il dottore. «Non c’è luna stanotte. Deve esserci un gran buio a Skene». «Ha camminato tutto il giorno. Ormai dovrebbe essere qui». Susie provava un forte senso di oppressione e ansimava. Alla fine sentirono dei passi fuori, sulla strada, e Arthur comparve nel riquadro della finestra. «Siete pronti?» disse. «La stavamo aspettando». Lo raggiunsero, portando le poche cose che secondo il dottor Porhoët erano necessarie. Camminarono lungo la strada solitaria che conduceva a Skene. Da entrambi i lati l’erica si stendeva nella notte fonda e tutt’intorno c’era un’oscurità densa di cattivi presagi. Non si udiva un rumore, tranne quello dei loro passi. Nel buio, sotto le stelle, scorgevano la desolazione che li circondava. La strada sembrava molto lunga. Erano completamente sfiniti e faticavano a trascinare un piede dietro l’altro. «Fatemi riposare un attimo» disse Susie. Senza risponderle, si fermarono e lei sedette su un masso sul ciglio della strada. Rimasero immobili, in piedi davanti a lei, aspettando con pazienza che fosse pronta. Dopo un po’ ella si costrinse a rialzarsi. «Ora possiamo andare» disse. Continuavano a tacere, si limitavano a camminare. Si muovevano come figure in un sogno, con determinazione furtiva, come se agissero sotto l’influsso di un’altrui volontà. D’improvviso la strada finì e si trovarono alle porte di Skene. «Statemi vicini» disse Arthur. Svoltò da un lato e camminarono lungo la palizzata. Susie si rese conto che percorrevano uno stretto sentiero. Non vedeva a un palmo dal suo naso. A un certo punto Arthur si fermò. «Prima sono venuto ad allargare l’apertura per farvi passare meglio». Spostò una tavola rotta e scivolò dentro. Susie lo seguì, e il dottor Porhoët entrò dopo di lei. «Non vedo nulla» disse Susie. «Mi dia la mano, la guido io» fece Arthur. Si fecero strada con difficoltà attraverso l’intrico di felci, in mezzo ad alberi fittamente piantati l’uno accanto all’altro. Inciampavano, e una volta il dottor Porhoët cadde. Avevano l’impressione di aver percorso un lungo tragitto, il cuore di Susie batteva forte per l’ansia. Aveva dimenticato ogni stanchezza. Poi Arthur fece segno di fermarsi e indicò un punto dinanzi a sé. Attraverso un’apertura fra gli alberi videro la casa. Tutte le finestre erano buie, tranne quelle immediatamente sotto il tetto. Da lì giungeva una luce abbagliante. «Quella è la soffitta, che usa come laboratorio. Come vedete, è all’opera. In casa non c’è nessun altro». Susie era curiosamente affascinata dalle luci fiammeggianti. C’era un mistero terrificante in quelle attività sconosciute, che assorbivano Oliver Haddo notte dopo notte, fino al sorgere del sole. Quali cose orribili accadevano in quel luogo, nascosto a occhi umani? Da solo nella grande casa, quel pazzo eseguiva spaventosi esperimenti; e chi poteva dire quali fossero i suoi traffici oscuri e segreti? «Non c’è pericolo che esca» disse Arthur. «Resterà lì fino al sorgere del giorno». Le prese di nuovo la mano e ricominciarono a camminare tra gli alberi finché si ritrovarono su un sentiero. Procedevano con maggior sicurezza. «Tutto bene, Porhoët?» domandò Arthur. «Sì». Ma gli alberi si facevano più fitti, e la notte più buia. Ormai la luce delle stelle non penetrava più tra le fronde e avanzavano quasi alla cieca. «Eccoci arrivati» disse Arthur. Si fermarono dinanzi all’incrocio di due sentieri erbosi. Nel mezzo, una panchina di pietra biancheggiava fievole nel buio. «È qui che sedeva Margaret, l’ultima volta che l’ho vista». «Non so cosa potremo fare» disse il dottore. Avevano portato due basse coppe di ottone da utilizzare come incensieri e Arthur le porse al dottor Porhoët. Egli rimase accanto a Susie, mentre il dottore si dava da fare con i preparativi. Lo vedevano andare avanti e indietro, piegarsi a terra. D’improvviso si udì un crepitio di legna e dalle coppe uscirono fiamme rosse. Non sapevano cosa stesse bruciando, ma si erano formate pesanti nubi di fumo, e un odore forte, aromatico, riempì l’aria. Di tanto in tanto la sagoma del dottore si stagliava netta contro la luce. La sua figura esile, china, appariva insolitamente misteriosa. Quando vide il suo volto, Susie si accorse che era in preda a una forte emozione. L’opera alla quale si stava dedicando lo assorbiva totalmente, al punto che tutti i suoi dubbi, le sue paure, erano scomparsi. Somigliava a un vecchio alchimista, affaccendato in cose innaturali. Il cuore di Susie cominciò a battere dolorosamente. Era sempre più spaventata. Tese la mano per toccare Arthur. In silenzio, egli la prese sottobraccio, quand’ecco che il dottore tracciò degli arcani segni sul terreno. Le fiamme si spensero e non rimase che un bagliore, ma egli non sembrava avere difficoltà a vedere quel che stava facendo. Susie non riusciva a distinguere le figure che disegnava. Poi il dottore mise altri ramoscelli sulle braci e le fiamme divamparono di nuovo, fendendo l’oscurità come fossero una spada. «Ora potete venire» disse. Inspiegabilmente, Susie fu presa da un terrore improvviso. Aveva la pelle d’oca e un sudore freddo le inondò il corpo. Le sue membra si erano fatte d’un tratto pesantissime, tanto che non riusciva a muoversi. Fu pervasa da una sensazione di panico mai provata prima e, se le gambe l’avessero sostenuta, sarebbe fuggita via alla cieca. Cominciò a tremare. Cercò di parlare, ma la lingua era inchiodata alla gola. «Non posso, ho paura» sussurrò con voce roca. «Deve, senza di lei non possiamo fare nulla» disse Arthur. Susie non riusciva a ragionare. Aveva dimenticato tutto tranne la sua paura mortale. Il cuore le batteva talmente in fretta che quasi svenne. Arthur la tratteneva con tanta forza che lei fece una smorfia di dolore. «Mi lasci andare» sussurrò. «Non voglio aiutarvi. Ho paura». «Deve» disse lui. «Deve farlo». «No». «È un ordine, deve venire». «Perché?». La sua paura mortale si sfogò in un repentino attacco di rabbia. «Perché mi ami, e questo è l’unico modo per darmi pace». Susie emise un flebile gemito dolente, e il terrore cedette alla vergogna. Arrossì fino alla punta dei capelli, perché anche lui conosceva il suo segreto. Poi fu presa di nuovo dalla rabbia, vedendo che Arthur era tanto crudele da usarlo contro di lei. Ma ormai aveva ritrovato il coraggio e fece un passo avanti. Il dottor Porhoët le disse dove fermarsi. Arthur prese posto davanti a lei. «Non dovete muovervi finché non ve lo dirò io. Se uscite dal disegno che ho tracciato, non posso proteggervi». Per un momento il dottor Porhoët rimase in silenzio assoluto, poi cominciò a recitare strane formule in latino. Susie le udiva appena, non ne conosceva il senso e la voce del dottore era talmente bassa che non sarebbe comunque riuscita a distinguere le parole. Ma il tono era privo di quella gentile ironia che gli era abituale ed egli parlava con una gravità vibrante che destava una profonda impressione. Arthur rimase immobile come una roccia. Le fiamme si spensero e ciascuno, al tenue bagliore della brace, vide gli altri come figure in una visione di morte. Silenzio. Poi il negromante parlò ancora, e la sua voce era più forte. Sembrava pronunciare strane invocazioni, ma in una lingua agli altri sconosciuta. Mentre parlava, la luce dei carboni ardenti fu spenta all’improvviso. Non si spense, fu spenta di colpo, come da mani invisibili. Ora l’oscurità era più fitta della notte più nera. Gli alberi erano scomparsi alla vista e il biancore della panchina di pietra non si distingueva più. Erano a breve distanza l’uno dall’altro, ma ciascuno si sentiva completamente solo. Susie strizzò gli occhi, ma non riuscì a scorgere nulla. Alzò lo sguardo per un istante: le stelle erano scomparse, e non vedeva nulla né sopra di sé né tutt’intorno. L’oscurità era terrificante e la voce del dottor Porhoët, uscendo da quelle tenebre, aveva un effetto spettrale. Sembrava giungere, portentosamente trasformata, dal vuoto di un caos senza fondo. Susie serrò i pugni per non svenire. D’un tratto ebbe un sobbalzo, perché la voce del vecchio fu spezzata da una folata improvvisa di vento. Un attimo prima il silenzio profondo era quasi intollerabile e ora sembrava che su di loro si abbattesse una tempesta. Gli alberi vibravano nel vento; si udivano lo scricchiolio dei rami, il sibilo delle foglie. Erano nel cuore di un uragano e sentivano la terra ondeggiare, come se opponesse resistenza alle radici dei grandi alberi che minacciavano di trascinarla via con sé. Soffiando e ruggendo, il vento infuriava intorno a loro. Il dottore, alzando la voce, cercò invano di comandarlo. Ma la cosa più strana era che, nel punto in cui si trovavano, non c’era traccia di quella violenta tempesta. L’aria intorno a loro era immobile come prima, neppure un capello si era scomposto sulla testa di Susie. Era terribile sentire quel tumulto eppure essere immersi in una calma quasi innaturale. Quindi il dottor Porhoët alzò ancora la voce e, con un tono solenne che non gli avevano mai sentito prima, gridò in quella lingua sconosciuta. Poi chiamò Margaret. Ripeté il suo nome tre volte. In quel frastuono, Susie riusciva appena a sentire. Il panico l’aveva afferrata di nuovo ma, pur nella confusione mentale, ricordò l’ordine del dottore e non osò muoversi. «Margaret, Margaret, Margaret». All’improvviso, rapido come una pietra che cada a terra, il frastuono intorno a loro cessò. Non fu uno scemare graduale. Un attimo prima l’uragano ruggiva, un attimo dopo il silenzio fu così assoluto da sembrare un silenzio di morte. E poi, apparentemente dal nulla, un prodigio: essi udirono chiaramente il pianto di una donna. Il cuore di Susie si fermò. Sentivano un pianto di donna e riconobbero la voce di Margaret. Un gemito d’angoscia esplose dalle labbra di Arthur ed egli fu sul punto di gettarsi in quella direzione, ma il dottor Porhoët tese di scatto la mano per impedirglielo. Quel pianto spezzava il cuore, erano i singhiozzi di una donna che aveva perso ogni speranza, i singhiozzi di una donna terrorizzata. Se Susie fosse stata in grado di muoversi, si sarebbe tappata le orecchie per allontanare da sé lo spaventoso strazio di quel suono. Per un attimo, nonostante la pesante oscurità della notte senza stelle, Arthur la vide. Era seduta sulla panchina di pietra, come l’ultima volta che le aveva parlato. Nonostante l’angoscia, cercava di non nascondere il volto. Guardava a terra, e le lacrime le solcavano le guance. Il petto ansimava nell’oppressione del pianto. Arthur ebbe così la certezza che tutti i suoi sospetti erano giustificati. 16 Arthur non volle partire da Venning. Né Susie né il dottore riuscirono a fargli cambiare idea. Nessuno di loro parlava della notte passata nei boschi di Skene, anche se occupava ogni loro pensiero e neppure per un momento riuscivano a liberarsi del suo agghiacciante ricordo. Avevano l’impressione di sentire ancora l’eco di quel pianto accorato. Arthur era di malumore. Quando era con Susie e il dottor Porhoët parlava poco; opponeva una resistenza ostinata ai loro sforzi per distrarlo. Passava lunghe ore da solo, in campagna, e gli altri non avevano idea di cosa facesse. Susie era terribilmente in ansia. Arthur aveva perso il suo equilibrio ed ella era preparata a ogni sconsideratezza. Intuiva che il suo odio per Haddo non era più contenuto nei limiti del ragionevole. Il desiderio di vendetta si era impadronito di lui e sarebbe stato capace di qualsiasi violenza. Trascorsero così vari giorni. Alla fine, d’accordo con il dottor Porhoët, Susie decise di fare un altro tentativo. Una notte, tardi, sedevano nel salottino della locanda con le finestre aperte. C’era una strana oppressione nell’aria, come prima di un temporale. Susie sperava nella pioggia, perché attribuiva alla particolare calura di quegli ultimi giorni gran parte della cupa irritabilità di Arthur. «Arthur, devi dirci cosa hai intenzione di fare» disse. «È inutile restare qui. Siamo tutti debilitati e nervosi al punto che non riusciamo più a considerare nulla con razionalità. Desideriamo che tu parta con noi, domani». «Potete andar via voi, se volete» disse. «Io resterò finché quell’uomo non sarà morto». «È una pazzia parlare così. Non puoi far nulla. Starai solo peggio restando qui». «Sono assolutamente deciso». «La legge non può offrirti alcun aiuto, e cos’altro potresti fare?». Susie voleva sondare le sue intenzioni. Ma la spietatezza della risposta, che pure confermava i suoi vaghi sospetti, la sorprese. «Se non posso fare altro, lo ammazzerò come un cane». Susie non trovò nulla da dire, e per un po’ rimasero in silenzio. Poi egli si alzò. «Forse preferisco che ve ne andiate» disse. «Mi siete solo d’impaccio». «Fintanto che tu starai qui, resterò anch’io». «Perché?». «Perché, se farai qualcosa, comprometterai anche me, e magari sarò arrestata. Forse il timore che questo accada riuscirà a trattenerti». Egli la guardò fisso. Susie, a riprova di quel che aveva detto, sostenne il suo sguardo con grande calma e lui, a disagio, lo distolse. Un silenzio ancor più profondo scese su di loro. Non si muovevano. C’era un’immobilità assoluta nella stanza, che pareva vuota. L’aria si fece ancor più soffocante, opprimente in modo spaventoso. D’un tratto si udì il forte crepitio di un tuono, e un lampo squarciò le nubi pesanti. Susie ringraziò il cielo di quel temporale, che avrebbe finalmente portato una benefica frescura. Si sentiva molto a disagio ed era un sollievo attribuire il suo stato d’animo a una condizione atmosferica. Il tuono rombò ancora, talmente forte che sembrava proprio sopra le loro teste. E di colpo si levò il vento, travolgendo con un lungo gemito gli alberi intorno alla casa. Era un suono talmente umano che sembrava provenire dalle anime dei morti in preda ai tormenti disperati del rimpianto. La lampada si spense, così all’improvviso che Susie ne fu inquietata. La fiamma dette un guizzo e piombarono nel buio più totale. Era come se qualcuno si fosse chinato sul bulbo di vetro e soffiando l’avesse spenta. La notte era scurissima, e non riuscivano a vedere la finestra aperta sulla campagna. Quella tenebra era talmente insolita che per un attimo nessuno si mosse. Poi Susie sentì la mano del dottor Porhoët scivolare sul tavolo in cerca dei fiammiferi, che evidentemente non erano lì. Un altro tuono li fece sussultare, ma la pioggia non arrivava. Ansimarono, affamati d’aria fresca. D’un tratto il cuore di Susie dette un balzo e lei saltò in piedi. «C’è qualcuno nella stanza». Aveva appena pronunciato queste parole, quando sentì Arthur scagliarsi contro l’intruso. Seppe subito, con la certezza dell’intuizione, che era Haddo. Ma come era entrato? Cosa voleva? Cercò di gridare, ma dalla gola non le uscì nulla. Il dottor Porhoët sembrava legato alla sedia. Immobile, non proferiva suono. Susie sapeva che era in corso una lotta terribile, una lotta per la vita o la morte, tra due uomini che si odiavano. Ma la cosa più tremenda era che non si udiva nulla. Il silenzio era assoluto. Susie cercò di fare qualcosa, ma non riusciva a muoversi. E il cuore di Arthur esultava, perché il nemico era nelle sue mani ed egli non l’avrebbe lasciato andare finché avesse avuto vita. Strinse i denti e contrasse i muscoli. Susie sentiva l’ansito, ma era il respiro di un solo uomo. Si chiese, in preda al terrore più abietto, che cosa significasse tutto ciò. Lottavano in silenzio, corpo a corpo, e Arthur sapeva di essere più forte. Aveva deciso cosa fare e usava tutta la sua energia per uno scopo preciso. Il nemico era straordinariamente possente e la forza di Arthur scaturiva dalla sua sola volontà. Pareva che lottassero da ore ed egli non riusciva ad atterrarlo. D’un tratto capì che l’altro era spaventato e che cercava di sfuggirgli. Arthur strinse la morsa. Per nulla al mondo avrebbe lasciato la presa. Fece un respiro profondo, rapido, poi dette fondo a tutte le sue energie in uno sforzo tremendo. Barcollarono. Arthur ebbe la sensazione che i muscoli gli venissero strappati dalle ossa. Fu sul punto di cedere, ma l’angoscia che gli squarciò la mente al pensiero della sconfitta lo sostenne e lo fece reagire con un moto rabbioso e subitaneo. D’improvviso Haddo crollò e caddero entrambi a terra, pesantemente. Il respiro di Arthur si era fatto più affannoso. Pensò che se fosse riuscito a resistere ancora un istante sarebbe stato salvo. Si gettò con tutto il suo peso sulla forma che si dibatteva sotto di lui e piombò con furia sul suo braccio. Lo torse bruscamente, con tutta la forza che aveva, e lo sentì cedere. Emise un breve grido di trionfo; il braccio era spezzato. Ora il nemico era in preda al panico; lottava come un folle, voleva solo sfuggire alle mani d’acciaio che lo stavano uccidendo. Arthur afferrò quel collo taurino, enorme, e vi affondò le dita, che sprofondarono negli spessi rotoli di grasso. Poi vi si gettò sopra con tutto il peso del corpo. Esultò perché sapeva che il nemico era finalmente in suo potere. Lo stava strangolando, e strangolandolo gli strappava la vita. Voleva la luce, per poter vedere l’orrore su quel volto enorme, la paura mortale, gli occhi sbarrati. Continuava a premere con le sue mani d’acciaio. Con movimenti convulsi, la vittima si divincolava nell’agonia della morte. La sua lotta era disperata, ma le mani vendicatrici la tenevano come in una morsa. I movimenti si fecero spasmodici, poi più deboli, e le mani ancora premevano su quel collo gigantesco. Arthur dimenticò ogni cosa, era pazzo di rabbia, di collera, di odio, di dolore. Pensò all’angoscia di Margaret, alle diaboliche torture che aveva subìto, e desiderò che quell’uomo avesse dieci vite, per potergliele strappare a una a una. Poi tutto cessò, l’enorme massa di carne rimase immobile e Arthur seppe che il nemico era morto. Allentò la stretta e fece scivolare una mano sul cuore. Non avrebbe battuto mai più. Haddo era morto stecchito. Arthur si rialzò. L’oscurità era ancora intensa, non si vedeva nulla. Susie lo sentì muoversi e finalmente riuscì a parlare. «Arthur, cosa hai fatto?». «L’ho ucciso» disse con voce roca. «Mio Dio, cosa faremo?». Arthur cominciò a ridere forte, istericamente, e in quella tenebra la sua ilarità era terrificante. «Santo cielo, facciamo un po’ di luce». «Ho trovato i fiammiferi» disse il dottor Porhoët. Sembrò risvegliarsi di colpo dal suo lungo stupore. Ne sfregò uno e non si accese. Ne sfregò un altro e, dopo che Susie ebbe tolto il bulbo di vetro, accese lo stoppino. Poi il dottore sollevò la lampada e videro Arthur che li fissava. Il suo volto era spettrale. Il sudore gli scendeva sulla fronte in grosse gocce e gli occhi erano iniettati di sangue. Tremava in ogni fibra. Il dottor Porhoët avanzò tendendo la lampada davanti a sé. Guardarono sul pavimento, in cerca del cadavere. Susie proruppe in un grido inorridito. Non c’era nessuno. Arthur arretrò, sorpreso e atterrito. Non c’era nessuno nella stanza, né vivo né morto, oltre loro tre. A Susie mancò la terra sotto i piedi, si sentì male e svenne. Quando si riprese, come emergendo a fatica da una notte eterna, Arthur le teneva la testa. «Sta’ giù,» le disse «sta’ giù». Tutto quel che era accaduto le tornò alla mente, e Susie scoppiò a piangere. Perse il controllo e, aggrappandosi a lui alla ricerca di protezione, singhiozzò come se le si spezzasse il cuore. Tremava dalla testa ai piedi. Il mistero di quell’ultimo orrore l’aveva sopraffatta, avrebbe voluto urlare per il panico. «Va tutto bene» disse lui. «Non avere paura». «Ma che sta succedendo?». «Devi farti coraggio. Adesso andremo a Skene». Susie balzò in piedi, come per allontanarsi da lui; il cuore le batteva all’impazzata. «No, non posso; ho paura». «Dobbiamo capire cosa significa tutto questo. Non c’è tempo da perdere, o non riusciremo a tornare prima di giorno». Allora Susie cercò di trattenerlo. «Per l’amor di Dio, non andare, Arthur. Potrebbe aspettarti qualcosa di orribile. Non rischiare la vita». «Non c’è pericolo. Ti dico che quell’uomo è morto». «Se dovesse accaderti qualcosa...». Si interruppe, cercando di soffocare i singhiozzi; non aveva il coraggio di continuare. Ma egli sembrò capire cosa le passava per la mente. «Non correrò rischi, per amor tuo. So bene che la mia vita o la mia morte non ti sono... indifferenti». Susie alzò lo sguardo e vide che gli occhi di lui la fissavano seri. Arrossì. Uno strano sentimento si fece strada nel suo cuore. «Verrò con te ovunque tu voglia» disse sottomessa. «Allora andiamo». Uscirono nella notte. Non pioveva, il temporale era passato e brillavano le stelle. Camminavano veloci. Arthur guidava il gruppo. Il dottor Porhoët e Susie lo seguivano, l’uno accanto all’altro, e dovevano affrettare il passo per non restare indietro. Pareva che l’orrore di quella notte fosse ormai passato e c’era nell’aria una fragranza meravigliosamente fresca. Il cielo era bello. Finalmente arrivarono a Skene. Arthur li guidò verso il varco nella palizzata e prese Susie per mano. Ben presto giunsero al punto da cui pochi giorni prima avevano visto la casa. Come allora, la sua mole scura e massiccia si ergeva nella notte e, come allora, le finestre della soffitta erano ben illuminate. Susie trasalì, perché si aspettava che tutto fosse immerso nell’oscurità. «Non c’è pericolo, te lo assicuro» disse Arthur con tono gentile. «Scopriremo presto il significato di questo mistero». Cominciò ad avanzare verso la casa. «Hai un’arma, una qualsiasi?» chiese il dottore. Arthur gli porse una pistola. «Prenda questa. Le darà sicurezza, ma non ci sarà bisogno di usarla. L’ho comprata l’altro giorno quando... avevo altri progetti». Susie rabbrividì. Raggiunsero il viale e camminarono fino al grande portico che decorava la facciata della casa. Arthur abbassò la maniglia, ma la porta non si aprì. «Aspettatemi qui» disse. «Entrerò da una finestra e poi verrò ad aprirvi». Si allontanò. Essi rimasero in silenzio, in preda all’ansia; non riuscivano a immaginare cosa avrebbero visto. Temevano che potesse accadere qualcosa ad Arthur, e Susie si pentì di non aver insistito per seguirlo. D’improvviso ricordò quel momento terribile in cui la luce della lampada aveva illuminato il punto dove tutti si aspettavano di vedere un corpo, e invece non c’era nulla. «Cosa vorrà dire?» esclamò d’un tratto. «Qual è la spiegazione?». «Forse presto lo sapremo» rispose il dottore. Arthur ancora non tornava ed ella si domandava cosa potesse essergli accaduto. Orribili pensieri le passarono per la mente e neanche lei sapeva cosa temere. Finalmente udirono dei passi nella casa, e la porta si aprì. «Ero sicuro che qui non dormisse nessuno, ma ho preferito accertarmene. Ho avuto qualche difficoltà a entrare». Susie esitava a varcare la soglia. Non sapeva quali orrori la aspettassero e l’oscurità era terrificante. «Non vedo nulla» disse. «Ho portato una torcia» disse Arthur. Premette un pulsante e un sottile raggio di luce si proiettò sul pavimento. Il dottor Porhoët e Susie entrarono. Arthur chiuse piano la porta e illuminò lo spazio intorno a loro. Si trovavano in un ampio atrio, con il pavimento ricoperto dalle pelli dei leoni che Haddo aveva ucciso nella sua famosa spedizione in Africa. Ce n’era forse una dozzina, e conferivano al luogo un che di selvaggio, di barbaro. Uno scalone di quercia portava ai piani superiori. «Dobbiamo ispezionare tutte le stanze» disse Arthur. Non si aspettava di trovare Haddo finché non fossero arrivati alla soffitta illuminata, ma gli sembrava necessario controllare tutta la casa man mano che salivano. La luce della torcia gli aveva rivelato che le pareti dell’atrio erano tappezzate di armature di ogni foggia, spade antiche di fattura orientale, armi primitive dell’Africa centrale, barbari strumenti da guerra medioevali, e gli venne un’idea. Staccò dal muro un’enorme ascia da battaglia e la strinse in pugno. «Possiamo andare». In silenzio, trattenendo il respiro come se temessero di svegliare i morti, entrarono nella prima stanza. Vedevano poco, poiché la luce scarsa proiettata dal raggio sottile della torcia rendeva ancora più profonda l’oscurità che li avvolgeva, rivelando l’ambiente solo pezzo a pezzo. Era una stanza ampia, chiaramente inutilizzata: i mobili erano coperti da teli e ovunque aleggiava un odore di muffa, segno che le finestre venivano aperte solo di rado. Come in molte case antiche, le stanze non davano su un corridoio, ma si succedevano aprendosi l’una nell’altra; ne traversarono molte finché si ritrovarono nell’atrio. Dappertutto regnava un’aria di desolazione, di abbandono, resa ancora più tetra dai pannelli di quercia che rivestivano le pareti, anche nell’atrio e lungo le scale. Mentre salivano, Arthur si fermò un momento e sfiorò con la mano il legno lucido. «Brucerebbe in un attimo» disse. Controllarono le stanze del primo piano, ugualmente vuote e tristi. Giunsero infine a quella che era stata la stanza di Margaret. In un vaso c’erano dei fiori ormai appassiti. Le sue spazzole erano ancora sulla toeletta. Ma era una stanza cupa, con tutti quei pannelli di quercia, e così priva di ogni comodità che Susie rabbrividì. Arthur si fermò a guardarla per un po’, ma non disse nulla. Tornati sulle scale, salirono al secondo piano, ed ebbero l’impressione che fosse l’ultimo della casa. «Ma come si arriva alla soffitta?» si chiese Arthur, guardandosi attorno sorpreso. Si fermò un momento a pensare. Poi fece un cenno con la testa. «Devono esserci delle scale in una delle stanze». Proseguirono. I soffitti si erano fatti molto più bassi, con travi pesanti, e non c’erano mobili. Tutto quel vuoto sembrava rendere le stanze ancora più terrificanti. Avevano l’impressione di trovarsi sulla soglia di un grande mistero e il cuore di Susie cominciò a battere forte. Arthur condusse la sua ispezione metodicamente; controllò con cura ogni stanza, cercando una porta che desse su una scala, ma non ce n’era traccia. «Cosa farai se non riuscirai a trovare il modo per salire?» gli domandò Susie. «Lo troverò» rispose lui. Erano tornati allo scalone e non avevano scoperto nulla. Si guardarono, impotenti. «È chiaro che deve esserci una via» disse Arthur con impazienza. «Da qualche parte ci sarà una specie di porta segreta». Si appoggiò alla balaustra per riflettere. La torcia illuminava col suo stretto raggio la parete di fronte. «Sono sicuro che deve essere in una delle stanze in fondo alla casa. Mi sembra il posto più logico per un passaggio segreto». Tornarono indietro ed esaminarono ancora una volta i pannelli di una stanzetta che su tre lati dava all’esterno. Era l’unica che non si aprisse su un’altra stanza. «Deve essere qui» disse Arthur. E in quello stesso momento fece una risatina, perché si era accorto che tra i pannelli di legno si nascondeva un piccolo uscio. Spinse dove pensava che potesse esserci una molla e la porticina si spalancò. La torcia illuminò una scaletta di legno. Salirono e si ritrovarono davanti a una porta. Arthur la spinse, ma era chiusa a chiave. Sorrise cupo. «Fatevi un po’ indietro» disse. Sollevò l’ascia e la abbatté sul chiavistello. La maniglia si divelse, ma la serratura non cedette. Arthur scosse la testa. Si fermò per un momento e, nel silenzio assoluto, Susie udì distintamente un lieve rumore. Posò la mano sul braccio di Arthur per richiamare la sua attenzione e stettero in ascolto con le orecchie tese. Dietro quella porta c’era qualcosa di vivo. Sentivano un suono strano: non era il suono di una voce umana, non era il grido di un animale, era qualcosa di completamente diverso. Era una sorta di borbottio, roco e veloce, che li riempì di un gelido terrore, perché era innaturale e misterioso. «Vieni via, Arthur» disse Susie. «Vieni via». «Qui c’è un essere vivente» rispose lui. Non sapeva perché quel suono lo colmasse di orrore. Il sudore gli inondava la fronte. «Ci accadrà qualcosa di tremendo» bisbigliò Susie, scossa da un fremito incontrollabile. «Non ci resta che abbattere la porta». Quello spaventoso borbottio si perse nel frastuono provocato da Arthur. Rapido, senza fermarsi, con tutte le sue forze, egli cominciò a picchiare con l’ascia sulla porta di quercia. I colpi piovevano in rapida successione e il rumore rimbombava per la casa vuota. Poi la porta si spalancò di schianto. Erano stati talmente a lungo al buio che per un istante furono abbagliati dalla luce accecante. Indietreggiarono d’istinto, perché, mentre la porta cedeva, un’ondata di calore piombò su di loro, mozzando il respiro. La temperatura all’interno era torrida. Entrarono. La stanza era illuminata da lampade enormi, la cui luce era amplificata da riflettori; una grande fornace mandava calore. Non riuscivano a capire a cosa servisse. Le strette finestre erano chiuse. Il dottor Porhoët scorse un termometro e rimase stupefatto vedendo quanti gradi segnava. La stanza, chiaramente, era utilizzata come laboratorio. C’erano grandi tavoli ricoperti di provette, bacili, vasche di porcellana bianca, misurini di vetro, utensili d’ogni sorta; ma la cosa più sorprendente erano le dimensioni dei singoli oggetti. Né Arthur né il dottor Porhoët avevano mai visto misurini o provette così grandi. Come nella farmacia di un ospedale, c’erano file di bottiglie piene di sostanze chimiche. I tre amici rimasero in silenzio. La stanza deserta dava l’inquietante impressione di essere stata utilizzata fino a un attimo prima. Susie sentiva che chi lavorava lì era in piena attività e sarebbe potuto tornare da un momento all’altro; forse era uscito solo per un attimo, per controllare come procedeva un esperimento in un’altra stanza. C’era un grande silenzio. Qualsiasi cosa avesse prodotto quei rumori strani, non umani, il loro arrivo l’aveva messa a tacere. La porta che immetteva nella stanza accanto era chiusa. Arthur la aprì e si ritrovarono in un locale mansardato lungo, basso, dalle grandi travi a vista, soffocante e illuminato violentemente proprio come il primo. Anche qui c’erano grandi tavoli coperti di storte, fornelli, enormi provette e recipienti di ogni sorta, e una fornace che emanava un calore costante. Lo sguardo di Arthur si spostò lentamente da un tavolo all’altro ed egli si chiese a quali esperimenti fosse mai dedito Haddo. L’aria era pesante, impregnata di un odore particolare: non di muffa, come nelle stanze chiuse che avevano attraversato, ma pungente, sgradevole, nauseabondo. Si chiese da dove venisse. Poi il suo sguardo cadde su un enorme recipiente posato sul tavolo più vicino alla fornace. Era coperto da un telo bianco. Lo scoprì. Era alto più di un metro e aveva la forma di una tinozza, ma era di vetro spesso un paio di centimetri. Dentro c’era una massa sferica un po’ più grande di un pallone, di un colore strano, livido. La superficie era liscia ma irregolare, percorsa da un fitto sistema di vasi sanguigni. Ai due medici ricordò quei grossi tumori conservati sotto spirito nei musei degli ospedali. Susie la guardò con disgusto, pur senza capire. All’improvviso lanciò un grido. «Santo cielo, si muove!». Arthur le posò subito una mano sul braccio per zittirla e poi si chinò, incapace di resistere alla curiosità. Era una massa di carne diversa da quella di qualsiasi essere umano e pulsava in modo regolare. Il movimento era evidente, si sollevava e si abbassava come il seno delicato di una donna addormentata. Arthur la toccò con un dito ed essa si ritrasse leggermente. «È calda» disse. La capovolse e quella rimase nella posizione in cui l’aveva messa, come se non avesse un verso. Ma notarono, disposta irregolarmente su un lato, una corta e rada peluria. Sembravano capelli. «È viva?» sussurrò Susie, stupefatta e inorridita. «Sì!». Arthur pareva affascinato. Non riusciva a distogliere gli occhi da quella cosa disgustosa. La osservava palpitare con ritmo regolare. «Che cosa sarà mai?» domandò. Guardò il dottor Porhoët con viso sorpreso, pallido. Nella sua mente si faceva strada un pensiero, ma talmente innaturale, stravagante, terribile che lo respinse con entrambe le mani, quasi fosse un oggetto. Poi tutti e tre si voltarono di colpo, con un sobbalzo, perché avevano di nuovo sentito il borbottio selvaggio che prima aveva turbato le loro orecchie. Presi dallo stupore per quell’oggetto rivoltante, avevano dimenticato tutto il resto. Il suono sembrava straordinariamente vicino e Susie indietreggiò istintivamente, perché sembrava provenire da un punto proprio a fianco a lei. «Qui non c’è nulla» disse Arthur. «Deve essere nella stanza accanto». «Oh, Arthur, andiamo via» gridò Susie. «Ho paura di scoprire cosa ci aspetta. Tutto questo non ci serve a nulla e ciò che stiamo vedendo potrebbe avvelenare per sempre i nostri sonni». Guardò il dottor Porhoët con occhi supplicanti. Egli era pallido, in preda all’ansia. Il calore di quel luogo gli faceva sudare copiosamente la fronte. «Ho visto abbastanza. Non voglio vedere altro» disse. «Allora voi due potete anche andarvene» rispose Arthur. «Non desidero costringervi. Ma io vado avanti. Qualunque cosa sia, voglio scoprirla». «E Haddo? Se fosse qui, in attesa? Forse stai solo correndo verso una trappola che ti ha teso». «Sono certo che Haddo è morto». Quella voce incomprensibile, inumana, stridula, giunse di nuovo alle loro orecchie, e Arthur avanzò. Susie non ebbe esitazioni. Era pronta a seguirlo ovunque. Egli aprì la porta, e d’improvviso fu la quiete. Qualsiasi cosa producesse quel suono era là. Era una stanza più grande di tutte le altre, e molto più alta, perché dava sulla facciata della casa. Le potenti lampade ne rivelarono subito ogni angolo, ma le travi del soffitto erano immerse nell’ombra. E là l’odore nauseabondo che li aveva colpiti prima era talmente forte che per un attimo non riuscirono a entrare. Era rivoltante. Persino Arthur fu sul punto di sentirsi male e guardò le finestre per capire se fosse possibile aprirle, ma, a quanto pareva, erano chiuse ermeticamente. Il calore estremo rendeva l’aria ancora più viziata. C’erano tre fornaci, ed erano tutte accese. Per produrre più calore e bruciare lentamente, avevano lo sportello aperto e dentro si vedeva il carbone ardente. La stanza era arredata come le altre, ma ai vari strumenti chimici di grandi dimensioni si aggiungeva ogni genere di apparecchiatura elettrica. Qua e là c’erano dei libri, e uno era rimasto aperto, rovesciato, sul bordo di un tavolo. Ma quel che attrasse immediatamente la loro attenzione fu una fila di grandi recipienti, come quello visto nella stanza attigua. Erano tutti coperti da un telo bianco. Esitarono per un istante, poiché sapevano di essere al cospetto del grande enigma. Alla fine Arthur ne scoprì uno. Nessuno parlò. Guardarono con occhi stupiti. Anche qui c’era una strana massa di carne, grande quasi quanto un bambino appena nato, e con l’abbozzo di qualcosa di orrendamente umano. Aveva la vaga forma di un neonato, ma le gambe erano unite l’una all’altra, tanto che pareva una mummia avvolta nelle bende. Non aveva né piedi né ginocchia. Il tronco era informe, ma su entrambi i lati c’era una bizzarra sporgenza; era come se uno scultore avesse voluto realizzare una figura con le braccia appena discoste, ma avesse lasciato incompiuto il lavoro e queste fossero ancora saldate al corpo. C’era qualcosa che somigliava a una testa umana, coperta di lunghi capelli biondi, ma era orribile; era una massa informe, senza occhi, né naso, né bocca. Era di un color rosa pallido, quasi trasparente. Si percepiva un movimento lievissimo, lento e ritmico. Anche quella cosa era viva. Allora Arthur rimosse velocemente i teli che coprivano tutti gli altri recipienti, tranne uno; e in un batter di ciglia videro cose talmente abominevoli, orrende, che Susie dovette stringere i pugni per non urlare. C’era un mostro dalle membra quasi umane. Era compatto, con piccole braccia grasse, gambette gonfie e un assurdo corpo tozzo, come la statuina in porcellana di un mandarino cinese. Un altro aveva il tronco simile a quello di un bambino, ma cosparso di strane macchie rosse e grigie. La cosa più raccapricciante era che all’altezza del collo si biforcava e aveva due teste separate, spropositatamente grandi, ma perfettamente delineate. I tratti erano la caricatura di un essere umano, talmente orridi che quasi non si riusciva a guardarli. Quando la luce li colpì, gli occhi di ciascuna testa si aprirono lentamente. Erano privi di pigmentazione, rosa come quelli dei conigli bianchi; per un attimo fissarono il vuoto con uno sguardo inquietante, cieco. Poi si richiusero, ed era terrificante vedere che i loro movimenti non erano simultanei; le palpebre di una testa si chiudevano lentamente, un po’ prima di quelle dell’altra. C’era un mostro agghiacciante, fatto di due corpi orribilmente avviluppati. Era una creatura d’incubo, con quattro braccia e quattro gambe, e si muoveva davvero. Strisciava con uno strano movimento sul fondo del grande recipiente in cui era rinchiusa, in direzione delle tre persone che la osservavano. Pareva chiedersi cosa stessero facendo. Susie indietreggiò impaurita, mentre quell’essere si sollevava sulle quattro gambe nel tentativo di raggiungerli. Susie si voltò e nascose il viso. Non riusciva a guardare quelle spaventose contraffazioni di umanità. Era terrorizzata, umiliata. «Capisci che cosa significa?» disse ad Arthur il dottor Porhoët, con un misto di orrore e reverenza nella voce. «Ha scoperto il segreto della vita». «Ed è per questi immondi mostri che Margaret è stata sacrificata, e con lei la sua bellezza?». I due uomini si guardarono con occhi tristi, stupefatti. «Ricordate che aveva parlato della fabbricazione di esseri umani? Ecco quel che è riuscito a produrre, queste cose deformi» disse il dottore. «Ce n’è un’altra che non abbiamo ancora visto» disse Arthur. Indicò il telo che nascondeva il recipiente più grande. Aveva la sensazione che contenesse il più spaventoso di quei mostri, e con una certa fatica si costrinse a scoprirlo. Qualcosa saltò su, facendo sussultare Arthur, e cominciò a farfugliare con tono stridulo. Erano questi i suoni disumani che avevano udito. Non era una voce, ma una specie di grido roco, aspro e acuto, mutevole come il latrato di un cane e terrificante. I suoni uscivano in rapida successione, rabbiosi, come se l’essere che li emetteva cercasse di esprimersi con parole furiose. Sembrava in preda al delirio e batteva i pugni chiusi contro le pareti di vetro della sua prigione. Le sue erano mani umane e il corpo, benché assai più grande, somigliava a quello di un bambino appena nato. Era alto circa un metro e venti. La testa era deforme, con il cranio gigantesco, liscio e teso come quello di un idrocefalo, e una spaventosa fronte sporgente. I tratti erano appena accennati, di dimensioni talmente ridotte da risultare innaturali, e gli davano un’aria di demoniaca malvagità. Quella fisionomia piccola e grottesca si contorceva con furia convulsa, e dalla bocca usciva una bava schiumante. La creatura alzava sempre più la voce, urlando nella sua rabbia mugugni privi di senso. Poi, come impazzita, cominciò a scagliarsi con tutto il corpo contro le pareti di vetro e a sbattere la testa. Sembrava che d’un tratto fosse stata pervasa da un odio inspiegabile verso quegli estranei. Cercava di avventarsi su di loro. Le gengive prive di denti si muovevano spasmodicamente e il volto si atteggiava a smorfie orribili. Quell’aborto senza nome, repellente, era quanto di più vicino a una forma umana Oliver Haddo fosse riuscito a creare. «Venite via» disse Arthur. «Non dobbiamo guardarlo». Si affrettò a ricoprire il recipiente. «Sì, per l’amor di Dio, andiamo via» disse Susie. «Ancora non abbiamo finito» rispose Arthur. «Non abbiamo trovato l’autore di tutto questo». Osservò la stanza nella quale si trovavano, ma non c’era altra porta oltre quella da cui erano entrati. Poi lanciò un grido improvviso, fece un passo avanti e crollò sulle ginocchia. Al di là dei lunghi tavoli ricoperti di strumenti, nascosto, tanto che in un primo momento non lo avevano notato, Oliver Haddo giaceva morto sul pavimento. I suoi occhi azzurri erano spalancati e sembravano più grandi che mai. Avevano ancora l’espressione terrorizzata dell’agonia e il volto pesante era stravolto da una paura mortale. Era livido, con gli occhi iniettati di sangue. «È morto soffocato» sussurrò il dottor Porhoët. Arthur indicò il collo di Haddo. Si vedevano chiaramente i segni delle dita vendicative che, strangolandolo, gli avevano strappato la vita. Era impossibile avere dubbi. «Ve lo dicevo che l’avevo ucciso» disse Arthur. Poi ricordò qualcos’altro. Gli afferrò il braccio destro. Era sicuro di averglielo rotto durante la lotta disperata nell’oscurità. Lo tastò con attenzione, tendendo l’orecchio. Sentì chiaramente le due parti dell’osso sfregare l’una contro l’altra. Il braccio del morto era rotto proprio nel punto in cui glielo aveva spezzato lui. Arthur si alzò. Dette un ultimo sguardo al suo nemico. Quell’immensa massa di carne giaceva come un mucchio di stracci sul pavimento, orribilmente scomposta. «Ora che l’hai visto, vuoi venire via?» disse Susie. Le parole sembrarono riportarlo repentinamente alla realtà. «Sì, dobbiamo andare via subito». Si voltarono e percorsero a passo svelto la soffitta illuminata fino a raggiungere le scale. «Adesso scendete e aspettatemi alla porta» disse Arthur. «Vi raggiungerò subito». «Cosa hai intenzione di fare?» domandò Susie. «Non preoccuparti. Fa’ come ti dico. Non ho ancora finito qui». Scesero lo scalone di quercia e lo aspettarono nell’atrio. Si chiedevano cosa stesse facendo, quand’ecco che egli arrivò correndo. «Presto!» urlò. «Non c’è tempo da perdere». «Cosa hai fatto, Arthur?». «Non è il momento di dare spiegazioni». Li spinse fuori e sbatté la porta dietro di sé. Prese la mano di Susie. «Adesso dobbiamo correre. Coraggio». Lei non sapeva il motivo di tanta fretta, ma il cuore le batteva all’impazzata. Arthur la trascinava e il dottor Porhoët li seguiva. Arthur si tuffò nel bosco. Non dava loro neanche il tempo di respirare. «Bisogna far presto» disse. Giunsero al varco nella palizzata ed egli li aiutò a superarlo. Poi risistemò con cura le tavole di legno e, prendendo sottobraccio Susie, si avviò velocemente verso la locanda. «Sono esausta» disse lei. «Non ce la faccio a camminare così in fretta». «Devi farlo. Tra poco potrai riposare quanto vuoi». Per un po’ camminarono di gran fretta. Di tanto in tanto Arthur si voltava indietro. La notte era ancora scura e le stelle brillavano a migliaia. A un certo punto egli rallentò il passo. «Adesso potete procedere con calma» disse. Susie vide lo sguardo sorridente che egli le lanciò. I suoi occhi erano pieni di tenerezza. Le mise affettuosamente un braccio attorno alle spalle per rincuorarla. «Devi essere sfinita, poverina» disse. «Mi dispiace averti messo tanta fretta». «Non ha alcuna importanza». Si appoggiò a lui, rassicurata. Con quel braccio che la proteggeva, si sentiva in grado di affrontare qualsiasi fatica. Il dottor Porhoët si fermò. «Devi proprio concedermi il tempo di prepararmi una sigaretta» disse. «Può fare tutto quel che vuole» rispose Arthur. La sua voce aveva un suono diverso, addolcita com’era da un buonumore che non vi sentivano da molti mesi. Appariva incredibilmente sollevato. Susie era pronta a dimenticare i dolori del passato per abbandonarsi alla felicità che finalmente sembrava aspettarla. Camminavano a passo lento. Ora potevano godersi quella splendida notte. L’aria era dolcissima, profumata dall’erica, e la pace incantevole del paesaggio era un balsamo per il loro sfinimento. Era ancora buio, ma sapevano che l’alba era vicina, e Susie ne era lieta. A oriente il blu della notte sfumava in un pallido ametista e gli alberi parevano emergere lentamente dal buio nella loro spettrale bellezza. D’un tratto gli uccelli intonarono un coro celestiale. Un’allodola si levò con un fruscio d’ali e, innalzandosi superbamente nell’aria, gorgheggiò un allegro cantico per dare il benvenuto al mattino. Susie, Arthur e il dottor Porhoët sostarono su una collinetta. «Fermiamoci qui e aspettiamo il sorgere del sole» disse Susie. «Come vuoi». Rimasero lì tutti e tre; Susie respirò a fondo, con gioia, l’aria soave dell’alba. La terra ai loro piedi era ammantata di una foschia violetta, araldo del giorno, e Susie esultò davanti a tanta bellezza. Ma notò che Arthur, a differenza di lei e del dottor Porhoët, non guardava a oriente. I suoi occhi erano fissi sul luogo da cui erano fuggiti. Cosa cercava il suo sguardo nelle tenebre dell’occidente? Susie si voltò e le sue labbra ruppero in un grido, poiché le ombre di quel luogo lontano fiammeggiavano di un bagliore rosso e profondo. «Sembra un incendio» disse. «È un incendio. Skene brucia come legna da ardere». E mentre Arthur parlava, il tetto crollò: all’improvviso, nell’aria ancora immobile della notte, si levarono fiamme enormi, altissime; la casa che avevano appena lasciato era avviluppata in un violento rogo. Era uno spettacolo grandioso vedere, da lontano, le fiamme alzarsi al cielo e sprofondare, lanciare ovunque lingue scarlatte come strani mostri titanici, infuriare di stanza in stanza. Skene bruciava. A nulla sarebbe servito l’intervento umano. Di lì a poco non sarebbe rimasta traccia di tutti quei crimini e di tutti quegli orrori. Ormai la casa era un’unica massa di fiamme. Sembrava una fornace primordiale, nella quale gli dèi forgiavano inauditi miracoli. «Arthur, cosa hai fatto?» domandò Susie con un filo di voce. Egli non rispose, ma le cinse nuovamente le spalle con un braccio, obbligandola a voltarsi. «Guarda, sta sorgendo il sole». A oriente, un lungo raggio di luce si faceva strada nel cielo, e il sole, giallo e rotondo, si affacciava sul volto della terra. 1 Jag significa «sbornia» [N.d.T.].