Davide Oldani: «A 16 anni ero già un centravanti professionista, giocavo in C2. Ma al torneo scolastico mi ruppi tibia e perone e sono diventato cuoco»

di Aldo Cazzullo

Lo chef: «Marchesi è stato un secondo padre. Federer? La classe in persona, non solo nel tennis»

Davide Oldani: «A 16 anni ero già un centravanti professionista, giocavo in C2. Ma al torneo scolastico mi ruppi tibia e perone e sono diventato cuoco»

Lo chef Davide Oldani, 56 anni (foto Sara Montalbano)

DAL NOSTRO INVIATO
CORNAREDO - Nella piazza del paese, di fronte alla chiesa, c’è il suo ristorante, il D’O, due stelle Michelin. A sinistra, il nuovo locale, l’Olmo, tre tavoli in tutto. A destra, il laboratorio per la panificazione, Next D’OOr. A un chilometro, la scuola statale alberghiera, con 380 allievi, tutti in divisa, di cui Davide Oldani è il mentore. Non è periferia di Milano; è Cornaredo, che ormai ricorda certi borghi gastronomici francesi.

Lei Oldani è di qui?
«Sono nato a Milano: codice fiscale F205Y. Di secondo nome mi chiamo Maria, Davide Maria, come mia figlia di nove anni: Camilla Maria. Di Cornaredo però erano i miei genitori. Io sono ritornato alle radici».

Quali sono i suoi primi ricordi?
«Borg che si inginocchia dopo aver vinto Wimbledon. Il rapimento di Moro. E i pranzi di Natale: il risotto, anzi al risott, l’oca e il panettone, da cui scartavo i canditi».

Cosa faceva suo padre?
«Operaio tessile. Era del 1925, si chiamava Bruno. Durante la guerra andava a lavorare in bicicletta, mi raccontava di Milano illuminata a giorno dai bombardamenti; io però non lo capivo, solo adesso realizzo che papà ha passato quello che noi vediamo in tv. Mia madre Luigia c’è ancora, ha 92 anni. Aveva un negozio di tessuti. Ed è stata la mia prima maestra di cucina. Per questo il più bel complimento che mi hanno fatto è associarmi al palato della mamma».

Lei però nasce calciatore.
«Prima di giocare a pallone dovevo aiutare mamma a fare gnocchi e ravioli. Erano le regole: prima di avere bisogna dare. In famiglia ho sempre sentito una forte tensione etica, che ho portato nel mio lavoro».

In che ruolo giocava?
«Centravanti. Un numero 9 strutturato, per l’età. A sedici anni ero già in C2, nella squadra di Rho, la Rhodense, ormai professionista. Però frequentavo l’alberghiero, e i compagni mi chiesero di giocare nel torneo scolastico. Mio padre non voleva, mi avvertì di non correre rischi inutili».

E lei?
«Nascosi la scarpe da calcio in fondo alla borsa di scuola, e andai al campo. Mi trovai a tu per tu con il portiere avversario, che fece un’uscita spericolata, forse anche un po’ cattiva. Mi travolse, mi falciò: frattura esposta e scomposta di tibia e perone. Intervento chirurgico al Cto di Milano, un mese di trazione, sei mesi di recupero. Metodo Ilizarov: la gamba mi fu immobilizzata da un fissatore esterno, senza gesso. La carriera da calciatore era finita; cominciava quella da cuoco. Sliding doors: si chiudeva la porta dello sport, si apriva quella della cucina».

Da Gualtiero Marchesi, via Bonvesin della Riva, Milano. Che tipo era?
«Un signore. Mai un insulto, mai una volgarità, mai una parola fuori posto: non aveva bisogno di alzare la voce per farsi ascoltare. Per me è stato un secondo padre. Eravamo un gruppo di ragazzi... Poi arrivò Enrico Crippa, che ora ha tre stelle a Piazza Duomo ad Alba».

In quale città è cresciuto?
«A vent’anni Marchesi mi propose di andare a Londra, a Le Gavroche. Mio padre era contrario: “Attenzione, là sarà tutto sulle tue spalle”. Ma io lo tranquillizzai: “Penserò a me stesso, tu non ti devi preoccupare”. Sentivo di dover tagliare il cordone ombelicale. Anche se poi piangevo ogni sera, per le difficoltà che dovevo affrontare; comprese le collect call alla famiglia. Non ho mai avuto un piano B: sapevo che la cucina sarebbe stata la mia vita. A Le Gavroche incontrai un ragazzo inglese di talento: lui faceva i pesci, io le carni. Si chiamava Gordon Ramsay».

Poi lei andò da Alain Ducasse, il più grande cuoco del mondo.
«All’Hotel de Paris a Montecarlo. L’anno scorso abbiamo cucinato a quattro mani alla reggia di Venaria per 120 persone, c’erano anche Giuseppe Lavazza e Ferran Adrià: tartufo bianco, salsa di spugnole, composta di mirtillo, briciole di pane, riso...».

In quali altri posti è stato?
«Rientrato come chef da Marchesi, giravo il mondo nei suoi ristoranti, dal resort di Pebble Beach in California al New Otani di Tokyo: in America mi portavano a vedere le balene, in Giappone la mangiavano. Ma non era mancanza di rispetto; erano due culture del cibo diverse. Avevo imparato il surf, ma ho scoperto che c’erano gli squali e ho smesso. Ma l’arte della pasticceria l’ho imparata a Parigi da Pierre Hermé, il re dei macaron».

Qui al D’O la cucina è a vista, ma non si sente gridare «sì chef», «grazie chef».
«Magari tra poco lo sentirà. Però sarà un modo per dire “sì, ho capito”; non un gesto di sottomissione. Fin da prima del Covid questo è un locale “paperless”: non si usa carta, abbiamo inserito la tecnologia in un mestiere artigianale, per abbattere gli sprechi. Si cresce per merito e per esperienza. È nostro anche il design: dai tavoli ai bicchieri, dalle lampade al gratta-tartufo, abbiamo disegnato novanta pezzi».

Qual è la formula della sua cucina?
«Armonia, esattezza, molteplicità. Equilibrio nei contrasti. Rispettare tutti gli ingredienti, dalle erbe all’acqua; e non ripeterne mai nessuno».

L’ha chiamata cucina pop. Cosa vuol dire?
«Seguire le stagioni. Costare il giusto. Rispettare le regole di economia applicata della buona madre di famiglia. Sulla mia cipolla caramellata mettevo il tartufo; ora metto il gelato al grana invecchiato, che crea l’equilibrio di contrasti che è il valore aggiunto della mia cucina».

All’Expo del 2015 preparò una cena senza pane.
«Lo facciamo in casa, ma non lo servo mai in tavola prima del secondo: non voglio che i clienti si sfamino con quello. La vera impresa dell’Expo fu cucinare 70 mila risotti. E i pistilli del fiore dello zafferano vanno mondati uno a uno: un lavoro enorme».

Chi viene qui a cena a Cornaredo?
«Fabio Volo, Donato Carrisi. E diversi calciatori».

Chi?
«Preferisco rispettare la loro privacy. Posso dirle che Nicolò Barella è un grande conoscitore di vini».

Lei è dell’Inter.
«Sono democratico, sono amico di una bandiera del Milan come Demetrio Albertini. Andai a San Siro da bambino per un Inter-Novara di Coppa Italia, e trovai ottantamila persone che tifavano come se fosse la finale di Champions. C’erano ancora Facchetti e Mazzola, oltre a un giovane libero, Bini, e a un mediano duro ma leale: Oriali. Mi sono innamorato. E la maglia non si abbandona. Una brigata di cucina è quanto di più simile a una squadra di calcio».

Lei è diventato celebre per lo spot con Federer. Che tipo è?
«La personificazione della classe. Un uomo che mette bellezza e arte in ogni gesto che compie, in ogni cosa che fa. Per questo resterà unico, non solo nella storia del suo sport».

Dove vi siete visti?
«Il set sono state due ville in Brianza; il mese dopo lui vinse il suo ultimo Slam, gli Australian Open al quinto set contro Nadal. L’ho incontrato poi a Wimbledon, ci siamo incontrati in Svizzera e poco tempo fa a Milano, per un evento Luxottica».

Cosa insegna ai ragazzi dell’alberghiero?
«Hanno un preside e una vicepreside, che sanno impartire l’educazione. Io cerco di dare il mio contributo per far sì che crescano buone persone, e se mai buoni cuochi».

Lei crede in Dio?
«Ho avuto un’educazione cattolica, sono stato chierichetto, ho frequentato l’oratorio. Ho i miei don che vedo regolarmente, quel signore all’altro tavolo è un sacerdote di Piacenza. Mi piace papa Francesco e la sua scelta di aprire la Chiesa al mondo».

Con le basette e la riga in mezzo, lei ha l’aura del playboy della cucina italiana.
«Sono felice con la mia Evelina».

Come fa a essere così magro?
«Mangio in prevalenza quel che cucino».


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17 dicembre 2023 (modifica il 17 dicembre 2023 | 11:17)