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Papaya 69, in streaming su MYmovies un film anarchico e fiabesco. Piccolo cinema che sa di libertà

Arriva per la prima volta online - solo con MYmovies ONE - un’opera intima che parla di amicizia.
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di Giovanni Bogani

lunedì 5 febbraio 2024 - mymoviesone

Inizia come la storia di due sconfitte, due anime alla deriva, due cuori in inverno, che nella vita si sono già giocate quello che potevano, e avevano perso. Però poi, quasi impercettibilmente, tutte e due provano ad allargare le maglie delle loro prigioni. E mentre cresce la loro forza, mentre cresce quel minuscolo filo di speranza che le tiene attaccati al presente, e al futuro, cresce anche il film. 

Papaya 69 è un film anomalo, anarchico e fiabesco, surreale e tuttavia attaccato al reale. A quello spicchio di provincia svizzera che racconta, attraverso i suoi personaggi. Lo realizzano Francesca Reverdito e Riccardo Bernasconi, già autori di una dozzina di cortometraggi autoprodotti, fra cui Death for a Unicorn, andato in concorso alla Mostra del cinema di Venezia, una serie web – La stirpe di Orazio – per la Rsi e molti videoclip. Papaya 69 è il loro primo lungometraggio, e si potrebbe dire che si sente il respiro un po’ episodico, come se si trattasse di una serie di brevi racconti, di “corti” affiancati. Ma invece no: alla fine, la costruzione tiene e tutto corre, tutti i tasselli del mosaico vanno al loro posto. 


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Papaya 69 è un film che tratta la storia di due giovani donne che sono costrette a continuare a confrontarsi con un passato che vorrebbero lasciare alle spalle.

Sono fuori posto, all’inizio, tutti i personaggi che vediamo. Eva, interpretata da Rosanna Sparapano, sudamericana in fuga: nelle prime inquadrature la troviamo accucciata, nascosta in un pullman di devoti a padre Pio, impietosa fotografia di minuscole fedi quasi pagane. Via anche da lì: e la vediamo scivolare, non vista, nell’auto di Rainbow (Valentina Violo), una ex star televisiva teen, ancora prigioniera del suo personaggio. Adesso, però, ne interpreta una malinconica versione a luci rosse, casalinga, in webcam. 

Due anime in caduta libera, che si trovano a cercare gli spiccioli della vita, offrendo in cambio quel poco che hanno ancora: i loro trent’anni, il loro stropicciato sex appeal. Una, Eva, ha anche una figlia, tenuta in custodia da una coppia di anziani – lui è Teco Celio, una leggenda di caratterista: da Kieslowski a Luca Miniero, da Nanni Moretti al Pinocchio (guarda la video recensione) di Garrone – che non hanno nessuna intenzione di affidargliela, e neppure di fargliela incontrare. L’altra, Rainbow, ha un conflitto con la madre, e anche con se stessa, con quella piccola scheggia di futuro sepolta nel passato. 

È difficile anche il loro incontro: silenzi, ostilità, diffidenza. Rainbow, con i dreadlocks di tutti i colori, con i suoi molti cani, con una vita senza speranza, senza obiettivi, senza dignità. Come una bambina trentenne, incapace di fare il salto verso l’età adulta. E l’altra, con la sua magnifica capigliatura afro, senza più un posto dove stare, senza un lavoro, con una figlia perduta. Sembra non dare speranza, non dare appigli neppure il paesaggio: le valli del Mendrisiotto, nella Svizzera italiana, senza luoghi dove rifugiarsi, se non la casa di Rainbow, divenuta mesto set per le webcam che riprendono le due ragazze. 

Raramente si incontrano, nel cinema, personaggi tanto consapevoli dei propri sbagli, delle proprie sconfitte, personaggi tanto abbattuti. Ed è forse questa la grande forza del film: raccontarci, mostrarci gli sguardi, i gesti, la camminata di chi a trent’anni non spera più. E poi, piano piano, prendere per mano loro e, con loro, anche noi: magari c’è un modo per salvarsi, magari c’è anche un modo per aiutarsi. 


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In Papaya 69 Eva e Rainbow si trovano a dover cooperare per riuscire a risollevare la propria vita.

E accanto alle due protagoniste, c’è un controcampo, uno spazio che sembra di desolazione, ma si rivela alla fine uno spazio di libertà: un campo rom, con un terzo protagonista, Ruby, che si rivela anche lui diverso da quello che appare all’inizio, e rovescia strada facendo il cliché sugli uomini violenti, ottusi e manipolatori. A interpretarlo, con ruvida empatia, il bulgaro Leart Dokle

Alla fine, si racconta una storia di amicizia, persino di famiglia, se è vero – come dice la regista – che la famiglia è quella che ti scegli. Ne viene fuori un film intimo, che ha quasi il sapore delle storie che ti immagini quando guardi i vestiti in un charity shop: storie che immagini nascoste in un maglione, o in un costume da protagonista di telefilm, buttato in un cassonetto e poi recuperato all’ultimo tuffo.

È un cinema che sa di libertà, quello di Reverdito e Bernasconi, un cinema artigianale, piccolo, che ogni tanto strizza l’occhio a modelli grandi – vengono citati i Blues Brothers, e l’eroina di Papaya 69 ricorda tanto la Uma Thurman protagonista di un “pilot” che non è diventato mai una serie tv, in Pulp Fiction – ma che preferisce rimanere piccolo, semplice, leggero. 

Presentato in prima mondiale alle Giornate di Soletta nella sezione Panorama, girato a Mendrisio, a Chiasso e anche dalla nostra parte del confine, nel comasco e in val di Susa, Papaya 69 è ambientato in un passato non troppo definito: ci sono ancora le VHS, i televisori a tubo catodico, i telefoni che si aprono a portafoglio. Ma appaiono anche degli smartphone, e le webcam che riprendono la vita delle due ragazze sembrano piuttosto moderne. A dimostrare che i tempi si possono fondere e confondere, per rifondare un presente fiabesco, surreale e insieme denso di significato. 


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