Il Risorgimento: il tortuoso processo verso l’Unità d'Italia

Il 17 marzo 1861 nacque un nuovo paese in Europa: l'Italia. La penisola italiana, divisa dalla caduta dell'Impero Romano d'Occidente quasi 14 secoli fa, fu riunificata sotto la monarchia sabauda. Il processo dell'Unità d'Italia, noto come Risorgimento, fu il risultato di diverse guerre, scommesse rischiose, complotti politici complessi, tradimenti e qualche colpo di fortuna

All'inizio del XIX secolo un uomo aveva cercato di unire l'Europa sotto il suo governo. Ma Napoleone Bonaparte, nonostante i suoi successi, alla fine ottenne il contrario: risvegliare in molti luoghi il desiderio di indipendenza. Il risentimento contro l'occupazione francese e il successivo ritorno all'impero austriaco si fecero strada tra alcuni intellettuali del nord italico, principalmente lombardi e piemontesi. Ispirati anche dal movimento romantico e dalla lontana memoria dell'Impero Romano, sognavano di concretizzare quelle aspirazioni in una nuova Italia unita, erede dei fasti del passato.

La primavera dei popoli

Con Napoleone sconfitto, le potenze europee affrontarono una minaccia interna altrettanto problematica: le idee liberali della rivoluzione francese erano penetrate in una parte della popolazione e, insieme agli ideali del romanticismo, scatenarono movimenti antimperialisti. In tutta Italia, soprattutto nelle grandi città, nacquero società segrete, tra cui spiccava la Carboneria, d’influenza massonica e ferocemente contraria all'Impero austriaco, che controllava il Regno Lombardo-Veneto. Queste società realizzarono diversi tentativi di rivolta contro l'assolutismo e il dominio austriaco negli anni venti dell'Ottocento, che furono duramente repressi.

Fotografia di Giuseppe Garibaldi con indosso il suo caratteristico poncho sudamericano. 1866

Fotografia di Giuseppe Garibaldi con indosso il suo caratteristico poncho sudamericano. 1866

Foto: CC

Una delle prime società a formulare l'idea di unificazione fu la Giovine Italia fondata da Giuseppe Mazzini: unendo nazionalismo e liberalismo, la Giovine Italia sosteneva una repubblica che includesse tutti i territori della penisola soggetti a un governo straniero o assolutista. Nel 1834 era già fallito un tentativo d’insurrezione a Genova – appartenente al Regno di Sardegna –: vi erano coinvolti Mazzini e un soldato della marina sarda, Giuseppe Garibaldi. Fallita l'insurrezione, entrambi dovettero andare in esilio.

Le rivolte, pur non riuscendo a rovesciare i regimi monarchici, ottennero la promulgazione di diversi statuti di carattere liberale nei territori della penisola, tra cui due dei grandi stati dell'Italia pre-unitaria: il Regno di Sardegna e il Regno delle Due Sicilie. Il primo, governato dalla dinastia dei Savoia, comprendeva il Piemonte – cuore politico dello stato – e la Sardegna; il secondo, con a capo la dinastia dei Borbone, era costituito dalla Sicilia e dal sud della penisola.

Basata sui principi del nazionalismo e liberalismo, la Giovine Italia sosteneva una repubblica che includesse tutti i territori della penisola soggetti a un governo straniero o assolutista

La prima guerra d'indipendenza

Dopo la fallita insurrezione di Genova, la monarchia sabauda decise di farsi avanti e rendersi promotrice dell'unità italiana. Nel 1848 una serie di rivolte anti-austriache nelle principali città del Regno Lombardo-Veneto fornì al re piemontese Carlo Alberto una ragione per intervenire militarmente, con il pretesto di proteggere gli italiani sottoposti a un dominio straniero.

Ebbe così inizio la cosiddetta prima guerra d'indipendenza, che aveva come obiettivo il ritiro degli austriaci dal Regno Lombardo-Veneto. Il trionfo degli insorti a Milano portò molte altre città a ribellarsi, e l'esercito austriaco dovette ritirarsi nel cosiddetto Quadrilatero, un’area circoscritta comprendente le città fortificate di Verona, Peschiera, Mantova e Legnago. I rivoluzionari speravano di ottenere la vittoria grazie ai tanti sostenitori esterni: i regni di Sardegna e delle Due Sicilie, lo Stato Pontificio, altri territori ribelli del nord – Toscana, Parma e Modena – e un esercito di soldati volontari provenienti da tutta la penisola.

Tra questi ultimi c'era Garibaldi, al quale il governo provvisorio di Milano aveva concesso la carica di generale: ora non era più un marinaio fuggitivo, ma un rispettato capo militare che aveva combattuto per la libertà delle repubbliche dell'America Latina e che avrebbe ricevuto l'appellativo di "eroe dei due mondi". Nonostante i rapporti con la monarchia piemontese fossero piuttosto tesi – vista la partecipazione di Garibaldi nelle insurrezioni genovesi del 1834 — le sue imprese militari, il suo enorme carisma e il suo patriottismo a favore dell'unità italiana lo resero un uomo molto prezioso sul campo di battaglia, e spianarono la strada a una strana alleanza di convenienza tra lui e la dinastia sabauda.

Vittorio Emanuele II

Vittorio Emanuele II

Foto: Museo del Risorgimento, CC

La prima guerra d'indipendenza, però, non raggiunse il suo obiettivo. Il Regno delle Due Sicilie e lo Stato Vaticano, le cui truppe erano decisive per l'esito della battaglia, si ritirarono troppo presto dal conflitto: il primo dovette sedare un'insurrezione in Sicilia; il secondo temeva le possibili conseguenze politiche del confronto con l'impero austriaco. Vienna non si lasciò sfuggire l'occasione e inviò rinforzi al generale Josef Radetzky, comandante veterano dell'esercito nel Regno Lombardo-Veneto. Con i nuovi contingenti a sua disposizione, il generale austriaco riconquistò uno dopo l'altro tutti i territori perduti e, nel 1849, invase il Regno di Sardegna. Carlo Alberto non ebbe altra scelta che chiedere un armistizio, di fatto un ritorno allo status quo precedente alla guerra. In seguito abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II. Nei territori ribelli del Regno Lombardo-Veneto gli austriaci applicarono una feroce repressione per prevenire future insurrezioni; nei ducati di Toscana, Parma e Modena le case regnanti furono ripristinate con l'appoggio dell'Impero Austriaco. Quanto a Garibaldi, riuscì a fuggire e a ritirarsi nella piccola isola di Caprera, in Sardegna.

L'alleanza con Napoleone III

Nel primo decennio del suo regno Vittorio Emanuele II non si mosse contro gli austriaci, consapevole di aver bisogno di un alleato più forte e più stabile e, soprattutto, interessato quanto lui ad indebolire il potere di Vienna. Dal 1852 lo scontro si spostò dal campo di battaglia all'ambito politico e vide come protagonisti due uomini: il nipote di Napoleone Bonaparte, Napoleone III – che alla fine di quell'anno si autoproclamò Imperatore di Francia –, e il Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna Camillo Benso, Conte di Cavour.

Nel gennaio 1858 un rivoluzionario italiano tentò di assassinare Napoleone. Ciò portò l'imperatore, riluttante a prendere posizioni nel conflitto europeo che vedeva contrapposti l'Austria e i Savoia, a considerare la possibilità di intervenire. Cavour approfittò di quest'incertezza per convincere Napoleone del fatto che l'unificazione dell'Italia sotto una monarchia poteva essere utile alla Francia per tenere sotto controllo i rivoluzionari — che non avevano dimenticato l'imperialismo dei Bonaparte — e per dare vita a un alleato contro il potere austriaco. Dopo un incontro segreto a Plombières, fu stipulato un accordo: la Francia avrebbe aiutato il Regno di Sardegna se quest’ultimo fosse stato attaccato dall'Austria, a condizione che fosse l'Austria a dare inizio al conflitto; in cambio, il regno transalpino avrebbe annesso ai suoi domini i territori della Savoia e di Nizza.

Cavour convinse Napoleone III a sostenere l'Unità d'Italia, grazie alla quale i movimenti rivoluzionari e antifrancesi della penisola avrebbero avuto fine

Quest'ultimo punto costituì la parte più dura dei negoziati: si trattava di territori di tradizione italiana e la loro cessione implicava una contraddizione con l'ideale di unire tutti gli italiani sotto lo stesso Stato. Inoltre, entrambi avevano un forte valore simbolico: la Savoia era la culla della dinastia regnante e Nizza era di tradizione culturale ligure dalla fine del XIV secolo, oltre ad essere la città natale di Garibaldi. Cavour tentò di far desistere Napoleone, ma l'imperatore fu irremovibile, anche se cedette su un punto: la cessione sarebbe avvenuta solo se i Savoia fossero riusciti a conquistare il nord Italia.

Camillo Benso, conte di Cavour

Camillo Benso, conte di Cavour

Foto: Museo del Risorgimento, CC

La seconda guerra d'indipendenza e le sue conseguenze

Forte dell'accordo con Napoleone, nella primavera del 1859 Cavour ordinò di eseguire una serie di manovre militari vicino al confine austriaco. Vienna interpretò il gesto come una provocazione e, dopo un ultimatum ignorato, attaccò il Regno di Sardegna. Napoleone non ebbe altra scelta che intervenire, dando così inizio alla seconda guerra d'indipendenza italiana.

L'appoggio francese si rivelò decisivo, così come l'intervento dei Cacciatori delle Alpi, un corpo di volontari formato da Garibaldi, rientrato dal ritiro a Caprera. In appena un paio di mesi, le truppe francesi e quelle di Garibaldi riuscirono a conquistare la Lombardia e a circondare gli austriaci nel Quadrilatero. Ma anche in quest'occasione le azioni degli alleati furono decisive: Napoleone, informato del fatto che altri stati stessero valutando di prestare sostegno all'Austria, decise di firmare separatamente la pace. Il governo piemontese considerò questo gesto alla stregua di un tradimento.

In cambio del suo sostegno al progetto di unificazione, Napoleone III chiese la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia. Questo segnò l'inizio di una profonda inimicizia tra Garibaldi e Cavour

Quando la Francia si ritirò dal conflitto, le sue truppe controllavano la Lombardia, che Napoleone utilizzò come moneta di scambio: sebbene il patto siglato con il Regno di Sardegna non fosse stato pienamente rispettato – gli austriaci controllavano ancora il Veneto –, chiese la cessione di Nizza e della Savoia in cambio dei territori occupati. Il patto segreto di Plombières, ormai noto, suscitò grande indignazione e lo stesso Garibaldi, furioso, cercò senza successo di impedire che si compisse. Non perdonò mai il presidente del Consiglio, come anni dopo avrebbe scritto al suo medico e amico Enrico Albanese: «La Patria non si baratta, né si vende […] Io feci male a non parlare chiaramente, a non protestare con energia, a non dire là in Parlamento, a Cavour, che era una canaglia, e a quei che ne volevano votare la rinunzia che erano tanto vili».

La cessione di Nizza e della Savoia doveva essere ratificata con un referendum, preparato in un paio di settimane a Nizza e in tre in Savoia. Le palesi irregolarità nelle consultazioni furono ampiamente criticate e, quando il sì vinse con la quasi totalità dei voti in entrambi i territori, circa un quarto della popolazione preferì lasciare la propria casa per andare a vivere nel Regno di Sardegna, pur sentendosi tradito.

L'annessione dei ducati

Ma le concessioni a Napoleone prevedevano un altro compenso: il Regno di Sardegna non avrebbe potuto annettere i territori dei ducati settentrionali senza l’approvazione francese. Le dinastie regnanti del Granducato di Toscana, del Ducato di Modena e del Ducato di Parma e Piacenza avevano sostenuto l’impero austriaco ed erano viste come collaborazionisti.

Ancora una Cavour riuscì a ribaltare la questione utilizzando una vasta rete di contatti in tutta Europa e finanziando i gruppi pro-unità nei territori dei ducati. Le rivolte nelle rispettive città scoppiarono parallelamente alla seconda guerra d'indipendenza, così i duchi non poterono contare sull'aiuto austriaco e furono costretti ad abbandonare le loro capitali, lasciando il potere nelle mani dei governi provvisori che si costituirono nelle Province Unite del Centro Italia. Terminata la guerra con l'Austria, nel 1860 questi territori indissero referendum sull'annessione al Regno di Sardegna, che si concluse con un sonoro "sì", anche in questo caso macchiato da evidenti irregolarità.

Grazie alla sua vasta rete di contatti in Europa, Cavour ottenne i fondi per finanziare i gruppi pro-unità, che approfittarono della seconda guerra d'indipendenza per insorgere in diverse città del nord Italia

Il problema principale era rappresentato dalla Legazione delle Romagne, i cui abitanti avevano votato sì all'annessione al Regno di Sardegna ma il cui territorio apparteneva allo Stato Pontificio. Annetterlo al regno significava, in pratica, sottrarlo al Papa e sfidare direttamente la Santa Sede. Questa avrebbe potuto istigare contro il Regno di Sardegna molti Paesi europei, tra cui la Francia, mettendo in pericolo l'alleanza con Napoleone. Ma il referendum era già stato celebrato e Vittorio Emanuele inviò personalmente una lettera a Papa Pio IX nella quale, con la massima diplomazia possibile, lo esortò ad accettare l'annessione come un fatto compiuto. Il pontefice rispose scomunicando il sovrano e tutti coloro che avevano collaborato all'annessione.

La partenza da Quarto

La partenza da Quarto

Foto: Museo del Risorgimento, CC

La spedizione dei Mille

La cessione di Nizza e della Savoia segnò l'inizio di una profonda antipatia tra Garibaldi e Cavour, che, d'altra parte, erano destinati a collaborare nuovamente. Mentre nei ducati del nord erano in corso i referendum di annessione, in Sicilia scoppiarono nuove proteste contro il governo borbonico. Le rivolte in favore di una maggiore autonomia si ripetevano regolarmente dal 1816, quando i Regni di Napoli e di Sicilia furono unificati nel Regno delle Due Sicilie, che in pratica accentrò il potere politico a Napoli.

Le precarie condizioni di vita della popolazione e il ritorno a un sistema assolutista erano stati la miccia che aveva dato fuoco alle proteste. Il Regno delle Due Sicilie era un gigante dai piedi d'argilla, con un'organizzazione sociale servile che concentrava il potere nelle mani dei grandi proprietari terrieri e la corruzione era un cancro diffuso nelle alte sfere del governo e dell'esercito. Cavour seppe sfruttare abilmente queste debolezze a proprio vantaggio: sebbene i suoi piani iniziali prevedessero l'unificazione dell'Italia settentrionale, le rivolte lo convinsero a spingersi oltre. Non potendo dichiarare guerra al Regno delle Due Sicilie senza entrare in conflitto con altre potenze europee, Cavour dovette rivolgersi a Garibaldi, che aveva più volte dimostrato la sua efficacia nel reclutare volontari per la causa italiana.

All'inizio questi si era opposto all'idea di attaccare il sud, ritenendo prioritario impadronirsi dello Stato Pontificio fino a raggiungere Roma; tuttavia, il re Vittorio Emanuele lo convinse a desistere. Un attacco diretto ai territori del Papa poteva dare vita a un'alleanza cattolica contro il Regno di Sardegna; d'altra parte, se il generale avesse accettato di dirigere le sue azioni verso la Sicilia, il governo piemontese lo avrebbe sostenuto con discrezione.

Il Regno di Sardegna non poteva dichiarare apertamente guerra a Napoli senza entrare in conflitto con altre potenze europee, quindi chiese a Garibaldi arruolare un corpo di volontari che attaccò la Sicilia

Garibaldi accettò dunque il cambio di programma e iniziò ad arruolare volontari che volessero "liberare per sempre l'Italia dai suoi nemici e garantirne l'indipendenza". Si presentarono poco più di mille uomini che, nel maggio 1860, a bordo di due piroscafi messi a disposizione dal governo piemontese, partirono per la Sicilia. La vittoria non era affatto scontata e finanche Nino Bixio, uno degli scagnozzi di Garibaldi, suggerì la possibilità di ritirarsi. Il generale gli rispose con la sua celebre frase: «Qui si fa l'Italia o si muore!». D'altro canto Cavour aveva inviato alcuni agenti per corrompere gli alti ufficiali della marina e dell'esercito borbonico: molti di loro disertarono o si unirono alle truppe garibaldine, facilitando la spedizione per prendere il controllo dell'isola a fine luglio.

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La fine del Regno delle Due Sicilie

Dopo aver perso il controllo della Sicilia, le truppe borboniche si ritirarono sulla terraferma. La perdita della Sicilia e le intenzioni di Garibaldi di attraversare lo Stretto di Messina e proseguire con la conquista dell'intero regno gettarono la corte di Francesco II – sul trono delle Due Sicilie da appena un anno – nella disperazione più profonda. La sua inesperienza, unita al suo carattere docile, lo portarono a gestire la situazione con eccessiva buona fede, facendo affidamento sul suo esercito e soprattutto sulle sue alleanze internazionali: era sposato con la sorella dell'Imperatrice Sissi, e di conseguenza alleato dell'Impero austriaco.

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Tuttavia, non appena le truppe garibaldine sbarcarono in Calabria alla fine di agosto, molti comandanti dell'esercito borbonico si arresero e i nobili del regno — compresi alcuni parenti del re – voltarono le spalle al proprio sovrano, allettati dai possibili benefici che avrebbero ottenuto dai Savoia. D'altro canto il carisma di Garibaldi attirava migliaia di volontari e le sue file s’ingrossavano sempre di più, arrivando a contare circa 20.000 uomini che avanzavano quasi senza incontrare resistenza. All'inizio di settembre le truppe garibaldine entrarono a Napoli.

Francesco II aveva abbandonato la capitale insieme alla sua corte e ai pochi uomini che gli erano rimasti fedeli. La battaglia decisiva fu combattuta a fine settembre lungo il fiume Volturno dove, nonostante la superiorità numerica, l'esercito borbonico fu sconfitto dai garibaldini. I sopravvissuti si barricarono nella città di Gaeta insieme al loro re, dove avrebbero resistito ancora fino al febbraio dell'anno successivo, quando un'epidemia di tifo convinse Francesco II a ordinare la resa della città. Dopo aver firmato de facto la fine del Regno delle Due Sicilie, gli fu concesso di ritirarsi con la moglie a Roma.

Francesco II, inesperto e docile, pagò a caro prezzo la sua fiducia nell'esercito. Le diserzioni di massa permisero ai garibaldini d'impadronirsi del Regno delle Due Sicilie nonostante fossero di gran lunga inferiori in numero

Ingresso di Garibaldi a Napoli il 7 settembre 1860 (Napoli, Museo civico di Castel Nuovo)

Ingresso di Garibaldi a Napoli il 7 settembre 1860 (Napoli, Museo civico di Castel Nuovo)

Foto: Franz Wenzel Schwarz / Museo civico di Castel Nuovo /CC

La proclamazione del Regno d'Italia

Mentre le sue truppe assediarono Gaeta, Garibaldi andò incontro a Vittorio Emanuele II. Con il pretesto di fermare l'avanzata delle truppe garibaldine prima che attaccassero Roma, il re piemontese aveva attraversato con il suo esercito i territori delle Marche e dell'Umbria, una mossa molto rischiosa che, in pratica, significava l'invasione dello Stato Pontificio. Non disponendo di un proprio esercito, il Papa si rivolse ai volontari cattolici d'Europa: ma non c'era tempo per organizzare un corpo militare omogeneo. Dal canto suo la Francia, impegnata solo nella difesa di Roma e del Papa, non dispiegò le sue truppe fuori città. In questo modo Vittorio Emanuele ridusse i territori dello Stato Pontificio alla capitale e al Lazio.

L'incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele avvenne il 26 ottobre 1860 nei pressi della città di Teano, a nord di Napoli. Le cronache di quel momento raccontano che il generale, incontrando il sovrano, avrebbe gridato: «Saluto il primo re d'Italia!», al quale questi avrebbe risposto: «Come stai, caro Garibaldi?». In quel momento il generale cedette i territori conquistati al Regno di Sardegna: sebbene fosse un repubblicano convinto, decise che l'unità d'Italia aveva la priorità, giacché solo un governo forte sarebbe riuscito a mantenere insieme il Paese.

Garibaldi (a sinistra) incontra Vittorio Emanuele per consegnargli i territori conquistati

Garibaldi (a sinistra) incontra Vittorio Emanuele per consegnargli i territori conquistati

Foto: Sebastiano De Albertis / CC

Garibaldi (a sinistra) incontra Vittorio Emanuele per consegnargli i territori conquistati

 

 

Dopo un referendum – anche in questo caso costellato da numerose irregolarità – i territori delle Due Sicilie furono annessi al Regno di Sardegna. Cavour decise allora che era giunto il momento di riconoscere l'Unità: il 21 febbraio presentò un progetto per dichiarare formalmente la nascita del Regno d'Italia il 17 marzo. Questo fu l'ultimo contributo di Cavour al progetto unitario: il conte morì tre mesi dopo.

La terza guerra d'indipendenza

Nonostante la sua nascita formale, l'Unità d'Italia non poteva essere considerata completa, poiché restavano da risolvere due grandi questioni: la conquista del Veneto e di Roma. L’opportunità di impadronirsi del Veneto giunse nel 1866 grazie alla guerra austro-prussiana. La Prussia, il più potente degli stati germanici, era desiderosa di indebolire l'Austria e il giovane Regno d'Italia si schierò al suo fianco, andando a costituire il fronte meridionale dello scontro.

Sebbene le rivalità tra i vari generali dell'esercito italiano impedirono un'efficace azione congiunta per ottenere il Veneto, la loro semplice presenza costrinse l'Austria a dividere le sue forze. Accerchiato, l'imperatore austriaco Francesco Giuseppe chiese l'aiuto di Napoleone come mediatore per un trattato di pace, offrendo al Regno d'Italia qualcosa di apparentemente impossibile da rifiutare: la tanto attesa cessione del Veneto in cambio del ritiro dell'Italia dalla guerra.

Contro ogni previsione, la proposta fu accolta freddamente. Bettino Ricasoli, successore di Cavour alla guida del governo italiano, riteneva che fosse meglio approfittare della debolezza dell'Austria per avanzare in Trentino e Dalmazia; da parte sua, il capo di stato maggiore Alfonso La Marmora – uomo forte nell'esercito sin dalla prima guerra d'indipendenza – considerava un'umiliazione ricevere il Veneto in dono dall'eterno nemico austriaco. Tuttavia, il mancato coordinamento dei comandi militari e le sconfitte navali convinsero Ricasoli che era conveniente accettare il trattato di pace. La campagna si chiuse così con una vittoria agrodolce, poiché alcuni territori rivendicati dall'Italia erano ancora in mano agli austriaci: la loro annessione anni dopo avrebbe portato l'Italia ad intervenire nella Prima guerra mondiale.

La questione romana e la fine dell'unificazione

Rimaneva da risolvere la cosiddetta "questione romana". L'Italia si considerava erede della romanità, ed era impossibile concepire il nuovo Paese senza che la Città Eterna ne facesse parte. Spostare la capitale a Roma era l'obiettivo ultimo per realizzare la legittimità del Regno d'Italia come progetto unitario e non come espansione del Regno di Sardegna. Un primo passo in questa direzione fu compiuto nel 1865, quando la capitale fu spostata da Torino a Firenze. Tuttavia, la presa di Roma era un obiettivo irrinunciabile per i patrioti, Garibaldi compreso.

Spostare la capitale a Roma era l'obiettivo finale per raggiungere la legittimità del Regno d'Italia come progetto unitario, ma significava sfidare l'autorità del Papa

Manifiesto del comitato di Lodi e di Crema in cui si chiedevano "un milione di fucili" per Garibaldi

Manifiesto del comitato di Lodi e di Crema in cui si chiedevano "un milione di fucili" per Garibaldi

Foto: CC

Già nel 1861 Ricasoli aveva tentato di avviare trattative con Pio IX, ma le ferite diplomatiche provocate dall'occupazione dello Stato Pontificio non si sarebbero mai rimarginate e fu respinto con forza. Tentare una conquista con la forza era fuori questione, poiché Napoleone era ancora vincolato dal suo giuramento di proteggere Roma. Tuttavia, nel settembre 1870 l'imperatore fu sconfitto nella guerra franco-prussiana – nella quale combatté per l'ultima volta l'instancabile Garibaldi – e il Secondo Impero francese cadde. La via per la conquista di Roma era finalmente libera.

Il re Vittorio Emanuele inviò una lettera al pontefice in cui chiedeva, «per l'incrollabile sicurezza dell'Italia e della Santa Sede», l'ingresso del suo esercito a Roma. Caduto Napoleone, che aveva ritirato le sue truppe per affrontare i prussiani, il Papa era effettivamente indifeso e Vittorio Emanuele si offrì di proteggerlo da possibili insurrezioni popolari. Il re firmava la missiva per Pio IX «con l'affetto di un figlio, con la fede di un cattolico, con la lealtà di un re, con lo spirito di un italiano». Pio IX rispose che il suo atteggiamento «non era degno di un figlio affettuoso e orgoglioso della fede cattolica», nonostante sapesse di non poter fermare il corso degli eventi.

La breccia di Porta Pia

Così, le truppe italiane entrarono nell'ultima roccaforte dello Stato Pontificio e la mattina del 20 settembre arrivarono davanti alle mura di Roma, dove alcune truppe di volontari cattolici costituivano l'ultima difesa della città. Il Papa ordinò una "resistenza simbolica" delle truppe, che sarebbe dovuta cessare "al primo colpo di cannone" e che però si verificò solo quattro ore dopo che i cannoni avevano aperto il fuoco, quando parte delle mura vicino a Porta Pia crollò.

Poche ore dopo il generale Hermann Kanzler, capo di stato maggiore pontificio, dichiarò la resa della città. Il 3 febbraio 1871 la Città Eterna fu nominata capitale del Regno d'Italia, ponendo così fine al lungo processo di unificazione.

Tuttavia, l'unità era stata raggiunta in un modo molto diverso da quello che i suoi primi promotori avevano previsto. Urbano Rattazzi, che sarebbe succeduto a Ricasoli al governo, aveva già dichiarato nel 1861: «Abbiamo fatto l'Italia, ora dobbiamo fare gli italiani». Quei territori che erano stati divisi per secoli, dall'oggi al domani si ritrovavano ad essere parte di un unico Paese.

La breccia di Porta Pia, avvenuta il 20 settembre 1870

La breccia di Porta Pia, avvenuta il 20 settembre 1870

Foto: Carlo Ademollo / Museo del Risorgimento

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