David Letterman non è l'unico a congedarsi dal piccolo schermo questa settimana. Domenica 17 maggio gli americani hanno detto addio a Mad Men, la serie capolavoro di Matthew Weiner su Don Draper e i pubblicitari di Madison Avenue.
C'era grande attesa per il finale dello show. Le speculazioni sulla sorte del suo tormentato protagonista si sono sprecate. Così come gli articoli, gli omaggi, le interviste al cast e al creatore. E Twitter è impazzito dalle prime ore di domenica mattina. Eppure, questa volta, il punto non era davvero scoprire cosa sarebbe successo, ma piuttosto dare il giusto addio a una serie che ha cambiato e ispirato il panorama televisivo fin dal primo giorno della sua messa in onda, nel 2007.
Mad Men non ha mai giocato sui colpi di scena o sulla trama intrigante, sebbene entrambi non siano mai mancati. La verità è che il tipico fan di Draper non aspettava ogni settimana col fiato sospeso chiedendosi «cosa diavolo succederà». Sono altri gli elementi che hanno fatto della serie un appuntamento imperdibile.
A cominciare dall'attenzione maniacale di Weiner per i dettagli. I colori, le canzoni, le citazioni letterarie e artistiche, gli omaggi a Hitchock e ad altri grandi cineasti, i messaggi subliminali e il simbolismo di ogni scena, i costumi e i mobili vintage da collezione. E poi, la nostalgia per gli anni Sessanta, un'epoca d'oro che non tornerà mai più e che la serie ha riportato in vita e fatto sognare di nuovo. Alla faccia del razzismo, delle mille sigarette, dei litri di alcool, della discriminazione sessuale, dell'adulterio, perfino dell'antisemitismo. La squisita tolleranza di Mad Men per tutto quello che oggi è considerato tabù ha sempre fatto parte del suo fascino. Senza considerare che, dietro quel falso splendore, si nasconde uno degli show più femministi degli ultimi anni (basta vedere i percorsi di personaggi come Peggy e Joan).
***ATTENZIONE SPOLER: NON CONTINUATE A LEGGERE SE NON AVETE ANCORA VISTO IL FINALE DI MAD MEN***
L'ultimo episodio, intitolato Person to Person, è rimasto fedele al resto della serie, come aveva promesso il creatore. E per coloro che temevano i precedenti di Weiner con I Soprano, vale a dire un finale drammatico o, ancora peggio, in sospeso, come quello che fece arrabbiare i fan di Tony, non è andata così. Anzi.
Per (quasi) tutti i personaggi, la fine di un'era porta un nuovo inizio. Scaricata da McCann Erickson, Joan tira dritto e continua la carriera di donna d'affari, sacrificando la vita di coppia e un uomo che la ama per aprire la sua casa di produzione. Pete (già, perfino lui) accetta un lavoro da urlo a Wichita e convince l'ex moglie Trudy a riprovarci e a seguirlo con la figlia Tammy. Roger si risposa con la madre di Megan (Julia Ormond), una tanto matta quanto lui, il che fa sperare che sia la volta buona.
Peggy si ritrova di nuovo a sgomitare per non farsi mettere i piedi in testa al lavoro. Ma riceve anche una dichiarazione inaspettata da Stan che, a due uffici di distanza, le dice al telefono di essere innamorato di lei. La Olson scopre, non troppo a sorpresa, che lo ricambia. Il resto è storia. Di tutta la puntata, questa scena romanticona è forse quella meno in stile Mad Men, ma il fatto che la protagonista sia una cinica come Peggy smorza i toni e la fa, tutto sommato, funzionare.
L'unica a cui non viene data una seconda chance è Betty, che scopre di avere un cancro ai polmoni e pochi mesi di vita davanti. Ma la malattia è anche l'espediente per far maturare Sally e riavvicinarla a sua madre. E' finito il tempo dei conflitti. Anche perché, di tempo, lo sanno entrambe, non ce n'è più.
Una delle scene più commoventi (senza mai scadere nel melodramma) è l'ultima conversazione fra Betty e Don che, appena scopre del tumore, telefona all'ex moglie e le dice di voler tornare a casa. Entrambi piangono, lui la chiama per l'ultima volta «Birdie», quel soprannome tutto loro, ma Betty gli dice che le cose devono restare normali e «il fatto che tu non sia qui fa parte della normalità».
Quanto a Don, che ha mollato McCann e intrapreso un viaggio alla On the Road di Jack Kerouac, finisce la sua avventura in California da Stephanie, la nipote di Anna Draper (la moglie del vero Don, l'unica che conosceva l'identità di Dick Whitman, l'unica sua vera amica). La ragazza lo trascina in una comunità spirituale di hippie, salvo poi svignarsela con la macchina, senza dirgli niente. Don crolla. Chiama Peggy per dirle addio, perché ormai non può più tornare a casa: «Ho rovinato tutto». E quando lei gli chiede: «Cosa puoi aver fatto di così terribile?», le confessa i suoi peccati, incluso l'aver rubato il nome di qualcun altro. Peggy cerca di convincerlo con l'allettante proposta di lavorare alla pubblicità della Coca Cola. Niente. Don riattacca. Si siede per terra, incapace di muoversi.
Ma sette stagioni hanno insegnato che Don Draper trova sempre un modo per rialzarsi. Questa volta, a «risvegliarlo», è la testimonianza di un altro coetaneo in ritiro, che racconta la sua quotidianità di uomo invisibile, solo, incapace di comunicare con la sua famiglia e con chi gli sta intorno. Proprio come Don. Che si alza ad abbracciarlo e scoppia in un pianto liberatorio.
La catarsi trasforma Draper: nella scena successiva è impegnato in una seduta di meditazione e accoglie con il tipico «oooom» l'augurio dell'insegnante ad aprirsi a «nuove vite, nuove idee, un nuovo te stesso». Detto fatto. E no, non è l'inizio di un percorso spirituale da eremita. In fin dei conti, Mad Men è una serie su una squadra di pubblicitari, sull'apparenza, sul business, sul consumismo. Voilà: segue il famosissimo spot della Coca Cola del 1971, dove un gruppo di giovani hippie cantano in mezzo a un prato I’d Like to Teach the World to Sing (In Perfect Harmony).
A quanto pare, Don ha deciso di dare retta a Peggy e ha sfornato una delle pubblicità più famose della storia. O forse, il video è solo una citazione ironica. Weiner lascia al pubblico la scelta di come interpretarlo. E la verità è che poco importa: comunque vada, il carosello della vita continua.
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